paolo russo

Ecco la nuova tassa comunale, mano libera su aliquote e detrazioni

Ecco la nuova tassa comunale, mano libera su aliquote e detrazioni

Paolo Russo – La Stampa

Sindaci liberi di aumentare o tagliare a proprio piacere i tributi locali che oggi come oggi valgono la bellezza di circa 30 miliardi di euro e che da anni sono in continua crescita. «Se local tax deve essere che lo sia fino in fondo» spiega a chiare lettere il sottosegretario all’Economia Pierpaolo Baretta, che per Padoan e Renzi sta seguendo la delicata partita sul nuovo tributo unico comunale, destinato a radunare sotto la stessa sigla Tasi, Imu, Tosap (l’imposta sull’occupazione del suolo pubblico) e, forse, la Tari sui rifiuti. Anche se quest’ultima alla fine potrebbe rimanere fuori, sia perché versata anche dagli inquilini e sia perché calcolata sulla base degli effettivi «consumi di immondizia». La local tax segnerebbe invece la fine della Tasi a carico degli affittuari, che in questi mesi si è rilevata una seccatura, più per calcolarla che per gli importi in larga misura modesti.

Della tassa unica il governo ne comincerà a discutere ufficialmente da oggi con l’Anci per arrivare entro la fine della settimana ad un testo definitivo sotto emendamento alla legge di stabilità. Anche se le difficoltà legate ai meccanismi di calcolo del gettito potrebbero alla fine consigliare un «emendamento annuncio», con data di avvio e contorni della riforma, rimandando i dettagli della stessa a qualche altro provvedimento applicativo. I sindaci chiedono tempo per far decantare un po’ la nuova imposta, che dovrebbe diventare operativa nella seconda metà dell’anno prossimo, semplificando la vita ai contribuenti con un pagamento unico. Anche se per il sospirato bollettino precompilato bisognerà aspettare il 2016.

In ogni caso l’esecutivo sembra orientato a lasciare la massima autonomia impositiva ai sindaci, senza indicare forbici entro le quali dovrebbe oscillare l’aliquota e senza nemmeno introdurre dall’alto quelle detrazioni che dovrebbero salvare dal tributo gli immobili di minor pregio. Nei giorni scorsi si era ventilata l’ipotesi di riprodurre il modello Imu, con una detrazione fissa di 200 euro e una di 50 per ciascun figlio, ma ora si preferirebbe anche su questo lasciare mano libera ai comuni, che sulla Tasi sono riusciti a produrre la bellezza di 100mila combinazioni diverse di pagamento. Ma anche la piena libertà concessa ai sindaci di agire sulla leva fiscale potrebbe non far dormire sogni tranquilli ai contribuenti, soprattutto quelli che vivono in paesi e città con i bilanci in dissesto. Fino ad oggi infatti quel po’ di autonomia impositiva lasciata agli enti locali si è trasformata quasi sempre in un salasso capace di riassorbire, anche con gli interessi, i tagli delle tasse decisi a livello nazionale.

La Uil Servizio politiche territoriali evidenza che la Tasi sulla prima casa è risultata più cara della vecchia Imu per una famiglia su tre, mentre la tassa sui rifiuti è passata dai 225 euro medi a famiglia di cinque anni fa ai 320 di quest’anno. Per non parlare dell’addizionale comunale Irpef. Quest’anno sono 978 i comuni che hanno deciso di aumentare l’aliquota, con un aumento medio del 7%, che sale al 24,7% se calcolato sempre nell’ultimo quinquennio. Con la local tax le addizionali Irpef dovrebbero se non altro essere «statalizzate». Il gettito rimarrebbe invariato ma ad incassare sarebbe l’amministrazione centrale. Questo per compensare il mancato gettito dell’Imu su capannoni, alberghi e centri commerciali, circa 4 miliardi e mezzo che oggi vanno allo Stato e che domani sarebbero incassati dai Comuni.

La riforma della fiscalità comunale sarebbe poi accompagnata da una copertura statale degli interessi per i nuovi mutui fino a 3 miliardi di euro, dal tratto di penna su una serie di vincoli e regole su interessi passivi e spese del personale e dall’addio all’obbligo di destinare all’abbattimento del debito pubblico il 10% degli introiti derivanti dalla vendita di immobili. Che soprattutto la local tax sia a rischio di aumenti surrettizi d’imposta Renzi lo sa bene, ma il premier è oramai deciso a togliere alibi ai Comuni lasciando loro massima autonomia, sapendo che saranno poi i cittadini elettori a non fare sconti. Una sfida dove la posta in palio è l’efficienza dell’amministrazione locale, ma anche il portafoglio dei contribuenti.

Un terzo degli ospedali nella lista degli sprechi. Persi 4 miliardi all’anno

Un terzo degli ospedali nella lista degli sprechi. Persi 4 miliardi all’anno

Paolo Russo – La Stampa

Ospedali spreconi e pericolosi. Perché mantengono in piedi reparti che vanno sotto giri e che dovrebbero chiudere i battenti o essere riaccorpati. E perché fanno così poca pratica da mettere a rischio gli ignari pazienti. Mentre le regioni continuano a battere cassa con il governo, il ministero della Salute presenta il «Piano esiti», fotografia delle performance dei nostri ospedali che, nonostante qualche miglioramento rispetto agli anni precedenti, descrive un quadro ancora desolante. Oltre che a rischio per migliaia di pazienti. Quelli che vanno a ricoverarsi in reparti che trattano meno casi degli standard minimi di sicurezza fissati da fior di studi internazionali. Quanti sono ogni anno li hanno calcolati i tecnici del dicastero: 48mila e 500 ogni anno. Per cose come by pass aortocoronarico (77% degli ospedali sotto la soglia dei 200 interventi), al colon (79% sotto la soglia di sicurezza di 50 interventi), al polmone (84% sotto i 100 interventi), alla mammella (76% sotto i 150 interventi), allo stomaco (84% sotto i 20 interventi). E i grafici dimostrano che la curva della mortalità sale proporzionalmente con il diminuire dei pazienti trattati.

Un vizietto, quello di mantenere in piedi i reparti inutili e costosi, che si stima riguardi circa un terzo dei nosocomi italiani. Uno spreco, oltre che un rischio. Così come soldi buttati sono quelli per i ricoveri inappropriati. Ad esempio una colecistectomia operata in via laparoscopica, ossia senza bisturi, andrebbe trattata in day surgery, ovvero senza ricovero, ma solo il 15% degli ospedali lo fa. E così via per broncopneumopatia, interventi alle tonsille, isterectomia. In qualche ospedale si occupano letti persino per una banale gastroenterite pediatrica.

Tra reparti da sbaraccare e ricoveri inutili l’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, stima uno spreco tra i 3 e i 4 miliardi. Guarda caso gli stessi che Renzi ha chiesto alle regioni. Che per la Lorenzin «non possono intervenire sul Fondo sanitario che la legge di stabilità conferma per il 2015 a 112 miliardi». Due in più di quest’anno. Ma su ricoveri a rischio o inappropriati il ministro non fa sconti ai Governatori: «disparità e differenze tra regioni non sono più accettabili» e i direttori generali delle Asl che non si adegueranno agli standard virtuosi del «Piano esiti» stiano attenti perché «sarà il ministero questa volta a commissariarli». Una minaccia alla quale il Presidente della federazione di Asl e ospedali (Fiaso), Francesco Ripa di Meana, replica ricordando che «nonostante i coni d’ombra un miglioramento delle performance c’è stato è questo è frutto della spending condotta dalle aziende sanitarie in questi anni».

Che la nostra sanità marci a velocità diverse da un’area all’altra del Paese lo dimostra una elaborazione della regione Toscana sui dati del Piano esiti. Il maggior numero di ospedali con le migliori performance fa salire in ordine sul podio : la Valle d’Aosta, la stessa Toscana (che sarebbe prima calcolando che ha anche il minor numero di quelli sotto gli standard) e Trento. Seguite a ruota da Emilia Romagna, Friuli, Lombardia e Piemonte. Leggendo la classifica al contrario, ossia per numero di ospedali con i peggiori standard, maglia nera è la Campania, seguita da Calabria, Puglia e, a sorpresa, Bolzano. Medie che ancora non dicono però tutto sulle disparità tra una struttura e l’altra. Un by pass coronarico dovrebbe oramai essere una passeggiata. E lo è al San Michele di Gemona in Friuli e all’Ospedale di Orbetello in Toscana, dove la mortalità è pari a zero. Non certo ai Santissimi Anna e Sebastiano di Caserta, dove la mortalità è di un raccapricciante caso su dieci. Oppure prendiamo la frattura al femore. Se non viene operata entro le 48 ore si rischia di rimanere in carrozzella o peggio ancora. Essere tempestivi insomma non è un optional. Ma oltre la metà degli ospedali italiani quel termine non lo rispetta.

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Paolo Russo – La Stampa

La legge di stabilità rischia di falciare i servizi sanitari delle regioni più virtuose e i treni dei pendolari. Il contributo richiesto ai governatori è ancora di 2 miliardi, anche se si tratta per abbassare l’asticella a 1,5-1,2 miliardi. Un taglio «fai da te», perché il governo non indicherebbe alcuna misura per conseguire il risparmio, ma lascerebbe mani libere alle Regioni. Libere per modo di dire, visto che 1’80% dei loro bilanci è assorbito dalla sanità e la restante parte in larga misura dal trasporto regionale. Messa così la sforbiciata altro non sarebbe che un taglio lineare, destinato a mettere con le spalle al muro proprio chi in sanità la spending review l’ha già fatta. Per indorare la pillola potrebbe non essere iscritta a deficit la spesa per investimenti, mentre un aiutino alle Regioni arriverebbe dalla conferma anche per il 2015 del 5% di taglio dei prezzi dei dispositivi medici.

Per risparmiare quei 2 miliardi il menù sanitario esiste già. È quello del Patto per la salute, sottoscritto appena a fine luglio da governo e Regioni che contiene misure per 10 miliardi di risparmio in tre anni. Quel Patto prevede prima di tutto la centralizzazione degli acquisti, sconosciuta a larga parte delle Asl del Sud. Poi la razionalizzazione della rete ospedaliera, con la chiusura e il riaccorpamento dei reparti sottoutilizzati o con performance scadenti. Tutte misure largamente applicate dalle regioni a Nord del Lazio. Dietro l’angolo potrebbe esserci l`aumento di ticket. A fine novembre i tecnici di Stato e Regioni sforneranno la proposta che riduce il numero degli esenti per rendere meno salato il contributo chiesto per visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Tasse, tocca ancora alla casa. Nuova stangata con i rifiuti

Paolo Russo – La Stampa

Il caro-casa non conosce stagioni. Finito con l’estate il balletto sulla Tasi, ecco con l’autunno arrivare la stangatina sull’immondizia. Che secondo la Uil politiche territoriali, che ha elaborato per La Stampa i dati sulla tassa rifiuti, sommata proprio alla Tasi e alle addizionali comunali Irpef – ovunque in salita – si sarebbe già portata via, a chi li ha presi, gli 80 euro messi dal Governo in busta paga. Presentata sotto la nuova sigla Tari, la tassa sull’immondizia nel 2014 continua infatti a lievitare in larga parte d’Italia, nonostante già lo scorso anno siano stati registrati veri e propri maxi-aumenti.

Le rilevazioni della Uil dicono che la tassa rifiuti scenderà di poco quest’anno a Cagliari (-2,9%) e Napoli (-2,8), rimarrà sostanzialmente stabile a Milano e Venezia, ma è ancora una volta in salita a Roma (+3,8%), Torino (+8,8) Genova (8,2), Trieste (+16,3), Bologna (11,1) e Alessandria (+3,3). In valori assoluti l’aumento maggiore sarà pagato da chi abita a Trieste, dove per una famiglia con 4 componenti che abita in un appartamento di 80 metri quadri, quest’anno si pagheranno oltre 44 euro in più, che portano l’assegno da versare per lo smaltimento dei rifiuti alla bella cifra di 318 euro, mentre a Genova la stessa famiglia pagherà 24 euro di sovrapprezzo arrivare a un totale di 321, a Bologna 22 euro ma con un esborso complessivo di soli 221 euro, mentre a Torino per i rifiuti se ne andranno quasi 20 euro in più, per un totale di 245. Pur con un aumento contenuto a poco meno di 13 euro, tra le dieci città esaminate dall’indagine è Alessandria a detenere il record del caro-immondizia, con un versamento che si attesta addirittura oltre i quattrocento euro (sempre per la famiglia di riferimento considerata dai tecnici della Uil). Questo stando alle medie, ma la tassa varierà parecchio in base al principio «più inquini e più paghi», che in molte delibere comunali si traduce in prelievo maggiore per chi ha attività che producono molti rifiuti, tipo ristoranti e pizzerie, mentre in alcune città, come Torino, si è scelto di fare un po’ di sconto a chi fa la differenziata.

Quasi ovunque per la Tari si è versato un acconto tra giugno e luglio, che spesso non conteneva gli aumenti deliberati in queste settimane e che renderanno quindi più salato il saldo, da versare tra ottobre e dicembre a seconda del Comune. Se confrontato con il versamento dello scorso anno quello della Tari 2014 sembrerà tuttavia meno salato ai più. Non fatevi ingannare, è solo un’illusione. Lo scorso anno infatti la tassa sui rifiuti, allora battezzata Tares, comprendeva anche un sovrapprezzo di 30 centesimi a metro quadro, che non andava a finanziare lo smaltimento dei rifiuti ma quei servizi indivisibili per i quali ora paghiamo la Tasi. In pratica quei trenta centesimi li stiamo pagando da un’altra parte.

Per capire quanto i Comuni stiano aumentando il prelievo, per un servizio di smaltimento dei rifiuti che in tante città lascia a desiderare, il confronto più corretto andrebbe fatto con il 2012, quando lo scioglilingua fiscale aveva deciso di battezzare in due modi diversi (Tarsu o Tia la tassa sull’immondizia), ma senza comprendere nel pacchetto di quella imposta una quota per pagare gli altri servizi resi dai Comuni ai loro cittadini e, soprattutto, senza il vincolo, introdotto dalla legge soltanto in seguito, di coprire per intero il costo dello smaltimento rifiuti: il dettaglio che più di ogni altro rende salato l’appuntamento con la Tasi. Ecco allora la tassa lievitare in soli due anni del 98% a Cagliari (si paga insomma quasi il doppio), del 50% a Genova, del 27,2 a Milano e del 13,9 a Torino. A Roma l’aumento è stato contenuto al 3,8%. Ma quella della Capitale è tutta un’altra storia, visto che l’Ama, l’azienda partecipata che dovrebbe tenere pulita la città, fattura servizi per un valore complessivo di 752 milioni ma poi incassa più di un miliardo, per coprire i costi di un carrozzone che fino ad oggi ha prodotto più dirigenti ben pagati che pulizia nelle strade.