Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti
Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore
Nel giorno in cui l’Italia lascia alle spalle il ‘900 e solennizza al Senato la presa d’atto che l’impresa non è l’«arma dei padroni», ma il luogo dove nascono eccellenze, conoscenza, collaborazione e responsabilità; per le vie di Milano la Fiom minacciava l’occupazione delle fabbriche. E a Palazzo Madama c’era chi occupava fisicamente lo scranno, dopo essere stato formalmente espulso, o chi gettava libri contro il banco della Presidenza creando un sovrappiù di tensione di cui certo non si sentiva il bisogno.
Una preoccupante aria di violenza (verbale in Aula, più concreta sulle strade), ancora una volta, ha segnato una giornata che resterà importante. E non basta a giustificarla il rimando subliminale alla “mitologia” di Enrico Berlinguer ai cancelli Fiat nell’80: la situazione non ha nulla di paragonabile. Semmai è proprio il continuo sguardo a un passato rigido socialmente, immutabile e schematico che ha portato a un mercato del lavoro “narrato” come il più garantista e tutelato del mondo ma che invece è nella realtà il più duale, il più distante dai giovani, il più ipocrita perché devastato dal sommerso, il più diseguale quanto a patto generazionale perché ha tolto la stabilità ad almeno tre generazioni di giovani per lasciare l’ipertrofia di un welfare e di garanzie disegnate negli anni 70 a misura di pochi e senza vera lungimiranza.
Il Jobs act, come era inevitabile, ha portato allo scoperto questo cambio di passo “ideologico”: la recessione ha indotto questa operazione verità perché la patria dei diritti non è in grado di trasformarsi nella patria dei lavori. Accadrà quando lo sguardo strategico si sposterà su un taglio drastico al cuneo fiscale su lavoro e imprese, unica vera terapia per creare occupazione attraverso una nuova stagione di investimenti. La detassazione è la strada indicata esplicitamente anche ieri al vertice europeo di Milano da Van Rompuy, Barroso, Hollande. Di questa rivoluzione fiscale c’è per ora solo una traccia nel Jobs act, va tutta tradotta e (molto) finanziata. Tolta l’enfasi dello scontro oratorio tra fazioni opposte, è importante guardare al dettaglio di ciò che è stato votato in Senato. E la fase attuativa di una delega a maglie tanto larghe potrebbe portare a risultati anche diametralmente opposti a quelli attesi, se non attentamente vigilata nella sua fase adattativa.
È importante l’attenzione alle politiche attive e la scelta di ancorare i nuovi ammortizzatori sociali universali a percorsi di formazione e di reinserimento secondo standard che funzionano bene all’estero. È una svolta vera quella di stabilire che il contratto a tempo indeterminato, nella sua nuova veste di contratto flessibile a tutele crescenti, sarà la forma principale di ingresso al lavoro e sarà anche una forma contrattuale particolarmente conveniente e incentivata. È importante che la delega intenda disboscare le modalità di “ingaggio” in nome della semplificazione, tema altrettanto rilevante anche nella riduzione di adempimenti tra imprese e amministrazioni di cui il testo del provvedimento si fa carico. È novità rilevante e di altissimo impatto sui conti pubblici, oltre che sul regolare svolgimento delle relazioni industriali, l’introduzione del salario minimo.
Di articolo 18 non si fa mai cenno. Astuzia politica forse, ma in ogni caso sarebbe escamotage di breve periodo. Non è «l’alfa e omega del provvedimento» – come ha detto il ministro Poletti – ma certo ha catalizzato l’asprezza del confronto politico e sindacale. La “politica del carciofo” con cui finora, riforma dopo riforma, si è cercato di ridurre le possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (compensata con un congruo risarcimento) conosce ora una nuovo capitolo: è stata tolta per il caso di licenziamento economico introdotto dalla riforma Fornero, ma viene ora riconfermato per i licenziamenti disciplinari (in un primo tempo erano esclusi, ma la mediazione dentro il Pd li ha alla fine ricompresi) oltre che, naturalmente, per i licenziamenti discriminatori.
Il Governo si è impegnato a “tipizzare” i casi per i quali diventi possibile il reintegro in caso di licenziamento disciplinare, ma è chiaro che, a fronte di ogni definizione legislativa, sorge naturale il contenzioso giurisdizionale per dirimere ambiguità o interpretazioni strumentali. Se si doveva ridurre l’alea delle sentenze non è affatto sicuro che l’obiettivo sia a portata di mano, senza contare che gran parte di chi è licenziato per motivo economico potrebbe avere interesse a farsi riconoscere dal giudice la fattispecie disciplinare.
Ieri Renzi ha girato la boa “europea” con il vertice di Milano che ha sancito in modo esplicito il plauso dei leader rispetto a una riforma di cui hanno colto la portata rifomista. Doveva essere anche un’operazione-immagine per il Governo Renzi e da questo punto di vista è stata un successo. Perché non resti solo il ricordo di una pacca sulla spalla, ora il Governo deve dare corso ai decreti delegati in modo coerente alle premesse e trasformarli in “moneta sonante” nella gestione della flessibilità nei conti pubblici anche per trovare parte delle risorse necessarie a finanziare questa stessa riforma. È la fase più delicata. E sarà il vero test, per il premier, per smentire l’accusa di eccessivo ricorso alla politica degli annunci senza fatti. Nel frattempo – triste revival – chi contesta le riforme prepara l’autunno caldo.