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Perché con il ddl Concorrenza le bollette di energia elettrica saranno ancora più care

Perché con il ddl Concorrenza le bollette di energia elettrica saranno ancora più care

di Vittorio Pezzuto – Affaritaliani.it

Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007 ma, per un paradosso tutto italiano, le bollette non sono calate. Negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno infatti visto crescere del 24,22% i costi (tasse incluse) per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici: si è passati da 0,1943 euro per kWh del 2010 a 0,2413 euro per kWh del 2016.

Stimando per il 2016 un consumo medio annuo per famiglia di 2.579 kWh (fonte: osservatorio facile.it) si ottiene un costo a carico di ogni famiglia per la sola bolletta elettrica di 622 euro su base annua. A livello europeo solo in Danimarca, Belgio e Germania l’energia costa di più che nel nostro Paese. Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia risparmierebbe 187,75 euro su base annua; 119,15 euro se vivesse nel Regno Unito e 58,80 euro se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +143,39 euro.

Al momento nel nostro sistema vige un doppio regime: quello di maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e quello del mercato libero (per chi nel frattempo si è rivolto ad altri fornitori). Sarebbe logico attendersi che quest’ultimo assicuri prezzi più vantaggiosi ai clienti. Accade invece il contrario e per rendersene conto è sufficiente leggere il Rapporto 42/2015 dell’Autorità per l’Energia, il Gas e il Sistema idrico, laddove (a pag. 5) afferma che «vi sono evidenze che in media i clienti domestici che si approviggionano sul libero mercato pagano un prezzo di fornitura maggiore di quello che pagherebbero nell’ambito del servizio di maggior tutela. Nel 2013 i prezzi medi rilevati nel mercato libero – con riferimento alla sola quota relativa ai costi di approvvigionamento, vendita e margine di commercializzazione – risultano superiori a quelli del servizio di maggior tutela di un intervallo compreso tra il 15% e il 20%.»

Una situazione anomala che si vorrebbe adesso superare con l’approvazione del ddl Concorrenza, più volte rinviata e la cui discussione verrà calendarizzata al Senato nelle prossime settimane. Nella parte dedicata alla liberalizzazione del mercato elettrico, è stato infatti inserito il termine del 1 luglio 2018 per la fine del regime della maggior tutela e il passaggio obbligatorio al mercato libero. Tutto bene? No. Purtroppo in commissione Industria al Senato il 10 febbraio 2016 è stato approvato, di notte e per iniziativa della maggioranza, un emendamento all’art. 29 che mette in serio pericolo la centralità del consumatore. Prevede infatti che l’Autorità per l’energia elettrica adotti disposizioni per assicurare il servizio di salvaguardia ai clienti finali domestici e alle imprese connesse in bassa tensione (con meno di cinquanta dipendenti e un fatturato annuo non superiore a 10 milioni di euro) senza fornitore di energia elettrica o che non abbiano scelto il proprio fornitore, «attraverso procedure concorsuali per aree territoriali e a condizioni che incentivino il passaggio al mercato libero».

In soldoni significa che con il nuovo regime i cittadini non potranno confermare il contratto col proprio fornitore (a quest’ultimo sarà probabilmente vietato l’invio di una comunicazione del tipo: «Caro cliente, se vuoi puoi restare con noi e a queste condizioni»). Niente da fare, dovranno obbligatoriamente rivolgersi al mercato libero, scegliendo tra le varie offerte telefoniche o consultabili sulla Rete per poi sottoscrivere il nuovo contratto. Se non lo faranno entro il 1 luglio 2018, la loro utenza verrà assegnata a un altro fornitore attraverso un meccanismo, quello dell’asta sul prezzo, le cui modalità al momento non sono state ancora definite. In teoria dovrebbe essere bandita dal Ministero dello Sviluppo sulla base di regole definite dall’Autorità per l’Energia oppure da Acquirente Unico spa, il soggetto istituzionale controllato dal Ministero dell’Economia che ha il compito di approvvigionarsi di energia elettrica per i clienti che sono in regime di maggior tutela. È però ipotizzabile che ad aggiudicarsi i singoli lotti (di dimensioni medie, al massimo qualche milione di utenze, al fine di permettere la partecipazione sul territorio di operatori diversi dall’Enel) sarà il fornitore che di volta in volta offrirà il prezzo più basso. Il problema è che poi quest’ultimo dovrà probabilmente ribaltare al consumatore un prezzo finale superiore a quello attualmente praticato in regime di maggior tutela, e questo proprio per ottemperare alla regola dell’incentivazione al passaggio al mercato libero. Un meccanismo astruso. In realtà quanti clienti (soprattutto anziani) – magari perché distratti o poco informati o non collegati a Internet – a quel punto si daranno da fare per sganciarsi subito dal nuovo fornitore e reperire un’offerta migliore, a prezzi più vantaggiosi? Una piccola minoranza.

Occorre rimediare finché c’è tempo. La misura inserita nel ddl Concorrenza che sarà discusso in Parlamento non esiste in nessun altro Paese europeo, è assai poco liberale e per nulla in linea con i principi della libera concorrenza. La strada da intraprendere è semplice e va nella direzione opposta: abolire il meccanismo dell’asta, informare il consumatore della possibilità di scelta del fornitore e, nel caso rimanga silente, prevedere la formula del silenzio assenso, cioè la conferma del fornitore in essere (lasciando ovviamente la possibilità di modificare in ogni momento la propria scelta). Solo in questo modo si potranno finalmente creare le condizioni di mercato per una sana e libera concorrenza tra operatori e quindi un conseguente abbattimento del costo delle bollette.

Il caso Grecia

Il caso Grecia

Un ritorno frequente, sulla stampa italiana, è che ove fossimo costretti a chiedere all’Unione Europea e al Fondo Monetario Internazionale di venire in nostro soccorso, le condizioni sarebbero così drastiche che «finiremmo come la Grecia». Della Repubblica ellenica non si parla da tempo sui media italiani. Abbiamo però ancora in mente le immagini e i resoconti strappalacrime di due anni or sono di un Paese drammaticamente impoverito.

Pablo Triana giovane docente all’ESADE, la Business School di Barcellona (una delle migliori del continente), si è preso la briga di fare i conti con attenzione e di scrivere due paper ancora non pubblicati. Il primo è intitolato Eurozone Bailouts: Greece’s Least Austere Period in Modern Times (Salvataggi Europei: il meno austero periodo della Grecia in tempi moderni), il secondo The AAA-zation of Greece Debt (Come il debito greco diventa tripla A).

Nel primo lavoro, utilizzando statistiche ufficiali greche dal 1980 al 2015, Triana mostra che la spesa e il disavanzo pubblico non sono diminuiti nel periodo del “salvataggio” rispetto ad altri periodi della Grecia moderna, successivamente al governo della giunta militare. In effetti sono aumentati in misura significativi in rapporto al Pil con l’unica eccezione del 2009, anno in cui raggiunsero un picco tale da innescare il processo che portò al primo salvataggio. L’austerità immediatamente dopo il 2009, in effetti, salvò il Paese dal tracollò finanziario e provocò, per un breve periodo, una drastica contrazione della spesa con implicazioni molto forti sul settore bancario che era alimentato, indirettamente e direttamente, dall’intervento pubblico.

I “salvataggi” , in effetti, prevennero e non causarono una politica di austerità “brutale”. Le casse dello Stato erano vuote, il mal gestito sistema bancario era al collasso e nessuno era disposto a fare credito alla Grecia. Milioni di greci continuarono a ricevere i loro stipendi e le loro pensioni, ebbero i loro risparmi protetti grazie a garanzie pubbliche (anche internazionali) e il Paese continuò a vivere al di sopra dei suoi mezzi anche in modo esagerato. I 260 miliardi di euro prestati sino a ora (a condizioni molto favorevoli) sono serviti a pagare disavanzi di finanza pubblica per circa 106 miliardi di euro. I dati mostrano che il periodo 2010 al 2015 è stato caratterizzato da una spesa pubblica molto elevata. Mai la Grecia ha avuto sei anni così poco “austeri”.

Coloro che accusano UE e FMI di infliggere pene insopportabili sbagliano di grosso. Lo dimostrano indirettamente i dati sulla finanza internazionale della Repubblica ellenica: nel 2015 in Grecia il rapporto tra pagamenti per interessi e debito pubblico lordo era dell’1,94%, il più basso della media di un gruppo di undici Paesi il cui debito sovrano è soggetto a rating. Ad esempio, la Germania, spesso accusata di essere particolarmente severa con la Grecia, aveva un rapporto del 2,19%.

Ecco come salvare l’Italia

Ecco come salvare l’Italia

di Massimo Blasoni – Libero

«È maggiore il nostro Pil o quello russo? Molti propenderebbero per Mosca. Non è così, il nostro è superiore, a leggere i dati dell’FMI, e pur sempre siamo gli ottavi al mondo. Questo per dire che siamo abituati alla nostra sottorappresentazione, con ovvi effetti negativi. Dunque prima cosa crederci» dice Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo: dobbiamo investire in innovazione e digitalizzazione. Siamo 25esimi su 28 in Europa, dietro di noi solo Grecia, Bulgaria e Romania. Il mondo, velocissimo, sta cambiando: si stima che nei prossimi vent’anni metà delle attuali professioni saranno sostituite dall’automazione. Perderemo milioni di posti di lavoro ma ne nasceranno altri, nuovi, tecnologici. Un’opportunità per un Paese con scarse materie prime. Occorre però investire e aprirsi alle novità. Terzo: è difficile fare impresa in Italia. Siamo tra i peggiori quanto a tempi per i permessi di costruzione e il nostro mercato del lavoro si occupa troppo di forme e garanzie e poco di occupabilità. Serve un cambiamento radicale. Quarto: occorre ridurre il debito e dunque la spesa pubblica che non è solo eccessiva ma soprattutto è mal distribuita. Continuiamo a diminuire gli investimenti e avremmo invece bisogno di nuove infrastrutture fisiche e digitali, mentre cresce inarrestabilmente la spesa corrente. Quinto: è necessario ridurre le tasse, ovvio. Non potendo abbattere genericamente il carico fiscale bisogna, in modo mirato, tradurre la detassazione in uno sprone agli investimenti. Ad esempio rafforzando i super ammortamenti per l’acquisto di beni aziendali o reintroducendo misure come il decreto Tremonti del 1994 che consentiva alle startup giovani per tre anni di non pagare tasse azzerando pure tutti gli adempimenti burocratici. Funzionò? Con me sì, oggi la mia azienda occupa 2.300 persone».

Acquisti online: nel 2016 italiani al terz’ultimo posto in Europa

Acquisti online: nel 2016 italiani al terz’ultimo posto in Europa

Negli ultimi 12 mesi solo il 29% dei cittadini italiani di età compresa tra i 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al terz’ultimo posto di questa particolare classifica europea, al pari di Cipro e appena sopra Bulgaria (17%) e Romania (12%). Ai vertici della graduatoria 2016 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (83%), Danimarca (82%), Lussemburgo (78%), Svezia (76%) e Germania (74%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (42%) e i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (40%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 18% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni e il 7% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni.

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 6% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro.

Nell’ultimo anno i beni più acquistati online dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (12%), vestiti e articoli sportivi (11%), articoli casalinghi (8%), libri e abbonamenti a riviste (8%), attrezzatura elettronica (5%), biglietti per eventi (5%), film e musica (3%). Curiosamente, solo il 3% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di software per computer o per servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

«Questi dati fotografano un ritardo evidente dell’Italia nell’e-commerce, conseguenza anche del ritardo delle nostre infrastrutture informatiche» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo i dati di netindex.com, siamo 93esimi al mondo per velocità di download domestica, dopo la Grecia. In Italia la banda larga raggiunge potenzialmente il 99% dell’utenza. Peccato che si tratti di una tecnologia ormai superata se confrontata con quelle più recenti – e assai più rapide – come la Nga (Next Generation Access), che in Italia copre solo il 21% del territorio rispetto al 62% della media Ue. I limiti e la sostanziale inefficienza della nostra rete infrastrutturale si pongono come principale fattore di freno, per le nostre aziende, per quanto riguarda gli scambi commerciali con il resto del mondo. A ciò si aggiunga che il sistema Italia nel suo complesso risente pesantemente della mancata capacità di usare i fondi europei dedicati alle infrastrutture: un misero 12%».

Un’Europa liberale è possibile

Un’Europa liberale è possibile

Questa settimana consiglio la lettura di un libro di Roberto Caporale (con un’introduzione di Paolo Savona): Exeunt: La Brexit e la Fine dell’Europa (Rubettino, pagg. 170, € 13). L’autore è stato ed è un manager di imprese sia a partecipazione statale sia privata. La sua attività gli consente di vedere i problemi dell’Europa con occhi più pratici e più prammatici di quelli abituali nelle aule universitarie.

Il titolo del volume può trarre in inganno. Alla Brexit in quanto tale sono dedicati tre dei cinque capitoli del volume e se ne sviscerano i complessi aspetti giuridici ed economici (senza però entrare in scenari basati su simulazioni econometriche sugli effetti quantificabili dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, UE). È quello che nel lessico accademico anglosassone potrebbe essere chiamato un event study con accento sulle policies e sugli aspetti istituzionali. Il punto centrale non è la fine dell’Europa ma come si può partire per costruire una nuova Europa più snella, più efficace, più dinamica e più equa. Nella quale, soprattutto, ciascuno sia e si senta più libero.

Per molti aspetti quest’opera ricorda Europe Simple Europe Strong di Frank Vibert, della London School of Economics (nonché allora Presidente dell’European Policy Forum). Un testo, pubblicato una quindicina di anni or sono, fondamentale nella letteratura europea ma che non ha trovato un editore disposto a tradurlo in italiano. I che la dice lunga su un’Italia essenzialmente statalista e corporativa.

Nel capitolo del saggio di Roberto Caporale sulla politica dell’armonizzazione in sede UE si afferma che questa ha prodotto «un’incredibile massa di norme europee cui debbono soggiacere produttori e consumatori continentali. […] Esiste da tempo quello che potremmo definire un nuovo genere letterario che descrive la tragica comicità di molti esempi di normativa europea e ne misura chilometricamente l’intrusività.»

La seconda parte del saggio traccia le prospettive che l’UE avrebbe dovuto apprendere dalla Brexit: «Un modello d’Europa desacralizzato ma non per ma non per questo meno “unito” in cui la sovrapposizione di aree di azione collettiva realizza un impianto adattivo con istituzioni forti nel loro ruolo primario di assicurare il rispetto dei principi e delle norme che realizzano uno spazio di mercato libero e aperto.»

Siamo il Paese che spende meno di tutti per la famiglia

Siamo il Paese che spende meno di tutti per la famiglia

di Riccardo Torrescura – La Verità

È vero: la natalità di un Paese non è soltanto una questione di soldi. Esistono Stati molto più poveri dell’Italia che vivono un boom demografico, e nel corso della storia sono esistite società molto più fiorenti della nostra che hanno comunque continuato a mettere al mondo bambini. Dunque è evidente che a renderci una «terra desolata» e sostanzialmente sterile è prima di tutto la visione della vita che si è imposta a livello massivo. Non facciamo più figli perché la sterilità è in crescita a causa delle nostre abitudini; non li facciamo perché stiamo diventando, nemmeno troppo lentamente, «particelle elementari». Insomma, non ci riproduciamo perché non ci interessa farlo. Tuttavia, prima di rassegnarci alla scomparsa o alla sostituzione, dovremmo per lo meno avere un rigurgito di orgoglio, un sussulto di vitalità. Dovremmo almeno tentare di invertire la tendenza.

I dati Istat usciti un paio di giorni fa sono agghiaccianti. Al primo gennaio del 2017, la popolazione italiana ammontava a 60.579.000 persone, cioè 86.000 in meno rispetto all’anno precedente. Nel 2016 sono nati qui appena 474.000 bambini. Nei due anni precedenti non è andata meglio, e ogni dodici mesi si registra un nuovo minimo storico. Una donna italiana, in media, ha 1,34 figli. In compenso, continuano ad aumentare gli stranieri: non solo quelli che arrivano a bordo dei barconi, ma pure quelli che ottengono la cittadinanza.

Di fronte a un quadro del genere, un governo che si rispetti dovrebbe provare a correre ai ripari, mettendo in campo misure che aiutino i pochi coraggiosi che ancora figliano. Però non avviene. Le politiche del nostro Paese a sostegno della natalità e della famiglia si riducono a un’elemosina. Lo dimostra una ricerca della fondazione ImpresaLavoro, presieduta dall’imprenditore Massimo Blasoni. Dallo studio, realizzato elaborando dati Eurostat, risulta che l’Italia – per il sostegno a famiglia e natalità – spende appena l’1,5% del Pil. In media, i Paesi dell’Unione europea e dell’area euro spendono l’1,7% del loro Prodotto interno lordo.

Che cosa si intende per sostegno alla natalità e alle famiglie? Si tratta, spiegano i ricercatori di ImpresaLavoro, «di quella parte di spesa pubblica destinata a: protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).» Insomma, stiamo parlando di tutto quello che uno Stato può fare per aiutare i suoi cittadini con figli a carico o comunque intenzionati a riprodursi.

I dati Eurostat elaborati da ImpresaLavoro prendono in considerazione 30 nazioni, ed è proprio facendo il paragone con tutti gli altri Stati che emerge la tristezza della situazione italiana. Nella classifica dei vari Paesi basata sul totale della spesa a favore di natalità e famiglia, l’Italia si piazza al diciassettesimo posto. Poco sotto la metà, potrebbe dire qualcuno, mica male. E invece no. Perché tra le grandi nazioni europee fanno peggio di noi solo Portogallo e Olanda (1,1%.), Grecia e Spagna (0,6%). Il Regno Unito spende quanto noi (1,5%), gli altri fanno tutti meglio: dal Belgio (2,4%) all’Austria (2,3%), dall’Irlanda (2,0%) alla Germania (1,6%) fino alla Francia (2,5%). Piccolo particolare: tutte queste nazioni hanno un tasso di natalità superiore al nostro (che infatti è il giù basso d’Europa e tra i più bassi del globo).

ImpresaLavoro, però, non ha calcolato solo le percentuali. Ha anche elaborato una classifica sulla base della spesa pro capite. In questo caso il nostro Paese sale di due posizioni, piazzandosi al quindicesimo posto (sempre su 30). Significa che «ogni anno in Italia vengono stanziati e spesi per la famiglia 413,99 euro a cittadino. Una cifra in valore assoluto superiore a quella di Spagna, Grecia e Portogallo (dove però la vita costa sensibilmente di meno) ma nettamente inferiore a quella di tutti gli altri grandi Paesi continentali». Quindi anche da questo punto di vista andiamo piuttosto male. Non è nemmeno il caso di paragonarsi ai Paesi nordici, dove la gestione delle finanze pubbliche è molto diversa rispetto alla nostra. Possiamo tuttavia fare un confronto con la Francia, dove la spesa pubblica a favore della famiglia è il doppio della nostra: 813,17 euro a cittadino (399,18 in più dell’Italia). Ma ancora di più fanno la Germania (595,12 euro pro capite) e il Regno Unito (590,18 euro pro capite). «Il nostro dato», spiegano i ricercatori di ImpresaLavoro, «è sensibilmente inferiore sia rispetto a quello dell’Unione Europea a 28 (dove la media è di 501,67 euro pro capite) sia rispetto a quello dell’area Euro (530,93 euro pro capite)».

Secondo Massimo Blasoni, la misura più urgente per il nostro Paese sarebbe «ridisegnare il nostro sistema tributario per alleggerire il peso fiscale che le famiglie italiane sono costrette a sopportare». Sacrosanto. Però, per fare una cosa del genere, bisognerebbe decidere di investire seriamente sul futuro del popolo italiano. E non sembra che gli attuali governanti siano intenzionati a farlo. Preferiscono investire sugli stranieri, che tra il 2011 e il 2016 ci sono costati oltre 11 miliardi di euro (al netto dei contributi dell’Unione europea). I costi dell’accoglienza previsti per il 2017 ammontano a 4,174 miliardi di euro. Chissà, magari un po’ di questi denari potrebbero essere utilizzati diversamente.

La politica che frena le privatizzazioni

La politica che frena le privatizzazioni

di Massimo Blasoni

Completare il piano di privatizzazioni? In Italia resta una chimera. Di perdita effettiva del controllo pubblico di Poste, Enav o Ferrovie dello Stato ci si limita a parlare senza far seguire fatti concreti. Addirittura non manca qualche nostalgico della stagione d’oro delle partecipazioni statali. Le prime privatizzazioni italiane firmate Amato e Draghi datano 1992. All’epoca lo Stato controllava quasi interamente il sistema bancario e interamente quello ferroviario e aereo, le autostrade, il gas, l’elettricità e l’acqua, la telefonia, larga parte dell’industria siderurgica e altro ancora. Quel piano di privatizzazioni fu dettato dall’urgenza dei conti pubblici. Nacque così la stagione delle grandi dismissioni bancarie e assicurative, dal Credito Italiano alla Banca Commerciale Italiana. Poi fu la volta di Ciampi e di Telecom Italia. Nel 1999 il governo D’Alema privatizzò le autostrade e porzioni di Enel, conservandone però il controllo. Resta ancora molto da fare, soprattutto occorre convincersi che tra i compiti dello Stato non deve esservi la gestione delle imprese.

Di recente, per un paio d’anni, si è parlato di quotare e dismettere fino al 40% del capitale di Ferrovie dello Stato, ancora interamente in mano al Ministero dell’Economia. Adesso l’obiettivo sembra limitarsi a portarne in Borsa soltanto la divisione a lunga percorrenza (Frecce e Intercity), rendendo flottanti solo quote di minoranza. La controllata Rete Ferroviaria Italiana, che gestisce i binari, dovrebbe invece restare saldamente in mano pubblica. Si tratta di un’operazione dai tempi ancora indefiniti e che comunque dovrebbe portare nelle casse dello Stato solo un miliardo dei 3-4 inizialmente previsti. Non va dimenticato che FSI vive di interventi pubblici, riceve circa 12 miliardi all’anno tra sussidi alla rete ferroviaria, ai servizi, agli investimenti e al fondo pensioni. Per quanto riguarda invece Poste, lo Stato al momento ne controlla il 64,7% tramite Ministero delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Nell’ottobre 2015 una prima tranche di privatizzazione ne ha collocato sul mercato il 35,3%, ottenendo un ricavo di 3,1 miliardi. La collocazione della tranche successiva (29,7%) continua ad essere rinviata, dovrebbe valere tra i 2 e i 3 miliardi. E che dire della dismissione o chiusura delle ottomila società partecipate di Comuni e Regioni? Tutto langue nei Ministeri.

Resta da rispondere al quesito: perché completare le privatizzazioni? Citerò due ragioni. La gestione politica di una società pubblica spesso non ha come obiettivo l’efficienza e su di essa pesano costi impropri volti a creare consenso e a mantenere clientele, con svantaggi e disavanzi a carico dei consumatori/contribuenti. La seconda ragione è che le privatizzazioni consentono allo Stato di introitare il denaro derivante dalle cessioni senza che per questo motivo venga a cessare il servizio a vantaggio dei cittadini. Si tratta di risorse di cui avremmo grande bisogno ad esempio per ampliare e innovare la rete di infrastrutture viarie e digitali del nostro Paese. Risorse utilissime, che ovviamente occorre spendere bene. Esattamente quello che non si è fatto con i proventi delle privatizzazioni del passato, finiti perlopiù ad alimentare il fiume inesauribile della spesa corrente.

Per le start up meglio meno tasse che la pioggia di fondi pubblici

Per le start up meglio meno tasse che la pioggia di fondi pubblici

di Massimo Blasoni

Lo scorso anno gli under 35 hanno aperto quasi 120mila nuove imprese e al tempo stesso il saldo tra aperture e chiusure è risultato ampiamente positivo: +63.646. Questi dati, forniti da UnionCamere, appaiono significativi e fanno da contrappeso all’elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile. Sostenere questo processo è importante, occorre però individuare la maniera più efficace per farlo.

Finora Stato e singole regioni hanno dato vita a una miriade di iniziative. Si va dalle erogazioni di Invitalia ai progetti di Garanzia Giovani, da Intraprendo in Lombardia a Lazio Innova, da Start&Growth in Liguria a Startup in progress in Molise e giù giù a seguire un elenco infinito. Si tratta spesso di misure tortuose (rese impervie da innumerevoli domande, bolli e regolamenti) che rimangono in parte inutilizzate o che paradossalmente impiegano la maggior parte delle risorse nelle strutture burocratiche preposte alle istruttorie dei singoli progetti. Soprattutto passano anni prima che i richiedenti ricevano finanziamenti o garanzie al credito. In un’economia veloce come quella globale tutto questo ha poco senso: nel frattempo l’azienda è autonomamente decollata oppure è già morta.

Dispensare contributi pubblici non sembra poi la soluzione migliore: alimenta l’idea dell’impresa assistita e risente della gestione politica delle provvidenze. Una proposta? Ridare vita al Decreto Tremonti n. 357 del 1994, che stabiliva la completa detassazione delle nuove imprese costituite da under 32. Toglieva Ires e Irap, eliminava le imposte comunali per l’esercizio di imprese e sugli immobili; toglieva anche la tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche e soprattutto (e per ogni tributo) i connessi adempimenti. Un elemento, quest’ultimo, da non sottovalutare in un Paese in cui un imprenditore lavora in media due mesi all’anno per assolvere alle procedure burocratiche.

Quel beneficio valeva per un triennio e sino alla rilevante soglia di un miliardo annuo di lire, cioè un milione di euro attuale o giù di lì.Se riproposta, questa misura potrebbe mettere in moto un rilevante numero di imprese e connessi posti di lavoro. Si dirà che esiste già il regime forfettario per le Partite Iva previsto dalla Legge di Stabilità. Vero, ma porre a 30/50mila euro il limite di fatturato per godere dell’esenzione fiscale vanifica nel concreto la norma. Un’altra obiezione è che questa disposizione aprirebbe la strada a qualche furbetto e ridurrebbe il gettito tributario. È fin troppo facile rispondere che i benefici legati al probabile avvio di tante start up sane prevalgono di gran lunga su queste contestazioni.

Funzionerebbe? A guardare le statistiche allora funzionò. Con certezza posso dire una cosa: incentivato da quella misura, nel 1996 diedi avvio a una società insieme a un ex compagno di classe. Oggi è una Spa che occupa quasi 2500 persone e opera in tutta Italia.

I cattivi maestri della sinistra

I cattivi maestri della sinistra

È uscito in queste settimane Cattivi Maestri della Sinistra: Gramsci, Togliatti, Lukàcs, Sarte e Marcuse di Luciano Pellicani (Rubbettino editore, pagg. 130, 12 euro). L’autore, professore emerito alla LUISS Guido Carli e componente del board scientifico del Centro studi ImpresaLavoro, è uno dei sociologi più noti non solo in Italia ma anche all’estero (numerosi suoi saggi sono stati tradotti in varie lingue e adottati in Università straniere). Quest’opera costituisce la summa del pensiero liberal-socialista di Pellicani. In un’epoca in cui numerosi lettori chiedono testi snelli, collegare le analisi a nomi di personaggi noti e che hanno fatto la storia del pensiero di una certa sinistra è anche il modo più efficace per trasmettere il messaggio.

Il saggio inizia con una premessa in cui si richiama quella “guerra tra le sinistre” che ha caratterizzato la civiltà europea per oltre due secoli e che muove dal conflitto filosofico prima che militare tra i “partigiani di Sparta” e i “partigiani di Atene”: collettivisti i primi (Rousseau, Deschamps, Morelly, Mabby), individualisti i secondi (Montesquieu, Voltaire, Diderot, Condorcet, D’Alambert). Ancora più radicale è stato il contrasto all’interno della sinistra russa. Al bolscevico Lenin – che stigmatizzava il liberismo come «grave malattia» a motivo del fatto che intendeva europeizzare la Russia – il menscevico Yulij Martov oppose l’idea che «il socialismo dovesse essere la più alta incarnazione dell’individualismo». Nonostante quella che Pellicani correttamente definisce «la bancarotta planetaria del comunismo», tale conflitto non è terminato. «Accade così che oggi, nella civiltà nella quale e della quale  viviamo, si oppongono due modelli di società: quello liberista e quello liberal-socialista». Si annidano però sempre i “cattivi maestri della sinistra”, nostalgici di un mondo privo di libertà.

Da queste considerazioni di contesto prende avvio il libro che è composto di cinque ‘autoritratti’, perché ciascuno di essi è costruito partendo dai testi e dagli scritti del ‘cattivo maestro’ a cui si riferisce: Gramsci ossia il Partito Comunista come divinità; Togliatti ossia la via italiana al totalitarismo; Lukàcs ossia il gesuita della rivoluzione; Sartre ossia l’ultrabolscevico senza fede; Marcuse ossia la rivoluzione del nulla. Non mi soffermo, in questa sede, sui singoli ritratti perché è bene che li scoprano, e li gustino, i lettori. Soprattutto quelli più giovani, nati e cresciuti dopo il crollo del Muro di Berlino, che non devono dimenticare come il pensiero dei ‘cattivi maestri’ si aggiri ancora tra noi. Tale e quale a un fantasma shakespeariano.

Negli ultimi dieci anni cresce la spesa pubblica ma gli investimenti scendono

Negli ultimi dieci anni cresce la spesa pubblica ma gli investimenti scendono

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica, misurata per cassa attraverso i Conti Pubblici Territoriali della Ragioneria Generale dello Stato, ha raggiunto nel 2014 il 55% del PIL, cinque punti sopra il suo valore del 2005. Nello stesso periodo il rapporto debito/PIL è cresciuto di circa 30 punti, toccando quota 132%. Il problema è che solo il 10% circa di questa spesa è stata fatta per investimenti, il resto della spesa pubblica serve a coprire le esigenze di cassa della gestione ordinaria. Se ci si fosse limitati a fare deficit ogni anno per la sola spesa per investimenti, nel 2014 il rapporto debito/PIL sarebbe stato al di sotto del 100%.

La qualità della spesa

Nella prima parte di questo lavoro ci siamo concentrati sull’incidenza della spesa pubblica nell’economia del Paese. Per eseguire l’analisi sono stati utilizzati i dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT).  Come già ricordato, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: sono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi a una controparte. Il risultato più interessante emerso nel precedente lavoro si sintetizza in una coppia di dati: nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 il valore si contrae al 45% (Tabella 1):

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Spesa Corrente e in Conto Capitale

Come leggere questo dato che descrive un Paese in cui circa il 50% del PIL è generato dall’intervento dello Stato? Difficile dare una risposta concentrando l’attenzione solo sul numero grezzo. Si potrebbe comparare il dato con i nostri partner europei per trarne una riflessione, sapendo però che ogni Paese ha una sua storia e una sua struttura economica che devono essere considerate quando si fanno valutazione comparative. In questa sede, per ampliare l’angolo di analisi sulla spesa pubblica in Italia, abbiamo prima di tutto considerato la qualità della spesa: una buona spesa porta come frutti una crescita economica, sociale e culturale. Esistono molteplici indicatori della qualità della spesa pubblica, in questa sede ci limiteremo a valutare quanto della spesa pubblica, in crescita in relazione all’andamento del PIL dal 2005 al 2014, sia stata utilizzata per le poste correnti e quanta in conto capitale per gli investimenti (tabella 2). L’ipotesi alla base della nostra valutazione è che la spesa in conto capitale, in quanto misura degli investimenti in un territorio, serva a creare le condizioni per un sistema più evoluto dal punto di vista infrastrutturale, sia di tipo materiale (es.: strade) che immateriale (es.: formazione capitale umano), mentre quella corrente serva solo a sostenere l’attività ordinaria, a mantenere l’esistente.

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Come evidenzia la tabella, negli anni si sono erosi i margini per gli investimenti, relegando questa spesa ad una voce via via più residuale del bilancio pubblico. Un dato su tutti: nel 2008 la spesa in conto capitale era pari a €106 miliardi, nel 2014 si attestava a €84 miliardi, un calo del 21%. L’immagine che emerge dalla combinazione delle due tabelle qui sopra riportate (1 e 2) è quella di un Paese in cui la presenza dello Stato è sempre più ampia ma sempre meno progettuale, svolgendo per lo più la funzione di tampone del presente più che di propulsione per un futuro di maggior crescita.

E il debito pubblico?

Senza dimenticare che in Italia parte della spesa pubblica è realizzata in deficit: creare dei debiti per investimenti è una politica tipicamente keynesiana, condivisibile in caso di contrazione delle domanda anche da chi non è molto vicino alle posizioni del grande economista di Cambridge; ma creare deficit di spesa per curarsi della spesa corrente è molto rischioso poiché non si mettono in essere azioni volte a sostenere lo sviluppo che servirà a ripagare in futuro il debito. Per comprendere quest’aspetto, tutt’altro che marginale, della spesa pubblica si osservi la tabella 3.

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Riparametrando l’aumento del debito pubblico rispetto alle percentuali di spesa in conto corrente e in conto capitale, si osserva che dei €686 miliardi di debito creati dal 2005 al 2015, solo €74 miliardi (poco meno dell’11%) hanno coperto spese per investimenti. Quindi, ogni €10 di nuovo debito, €9 servono a coprire spese ordinarie. In queste condizioni, al di là del contesto internazionale, la riduzione del debito non può che passare per la riduzione della spesa corrente che, però, pare un passaggio molto più complesso di quanto si possa pensare. In media il debito pubblico è aumentato di circa €68 miliardi nel periodo considerato; di questi solo €7,4 miliardi sono per investimenti: per dare un termine di paragone, si pensi che la manovra di governo per il 2017 corregge i conti per circa €25 miliardi.

Come sarebbe andata se…

Per concludere il ragionamento, ci chiediamo cosa sarebbe potuto accadere se i vari Governi fossero ricorsi al deficit di bilancio solo per finanziare gli investimenti, la spesa in conto capitale. Dalla simulazione proposta nella tabella 4, si evince chiaramente che per il nostro Paese la situazione sarebbe stata decisamente più rosea dal punto di vista della solidità dei conti pubblici (1).

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Secondo i dati forniti da Eurostat per l’anno 2014, con un rapporto debito/PIL pari al 98,1%, l’Italia si sarebbe posizionata poco al di sopra la media dei Paesi dell’area Euro a fine 2014 (92%), poco sopra il valore della Francia (95,3%) ma, soprattutto, 33 punti percentuali in meno del valore effettivo misurato per il nostro Paese (131,4%).

Conclusioni

L’aumento della spesa pubblica in Italia negli ultimi anni è servito sostanzialmente per alimentare la spesa corrente.  Esistono diversi motivi per criticare questa scelta, alcuni ideologici altri analitici. Lasciando le valutazioni ideologiche ad altri, qui ci pare necessario ricordare che uno dei problemi riguardanti la scelta di perseguire una politica di deficit per la spesa corrente è legato al già alto livello di indebitamento dello Stato Italiano. Non c’erano, in sostanza, margini per ampliare la spesa pubblica, se non eventualmente per investimenti. Così non è stato. E per 10 anni, ancor prima dell’inizio della crisi del 2008, si è drogato il sistema cercando di tamponare con il debito dei limiti strutturali utilizzando senza riguardo il modo più costoso di prendere tempo. Il tutto a spese delle generazioni future.


(1) Nella valutazione dello scenario alternativo, al valore del PIL dal 2005 al 2014 è stato tolto l’ammontare del deficit volto a finanziare la spesa corrente, così da rendere più coerente la valutazione, sovrastimando a un valore pari a 1 il moltiplicatore fiscale rispetto alle valutazioni della BCE. Per ulteriori informazioni: AA.VV. (2015): Comparing fiscal multipliers across models and countries in Europe, ECB working paper n° 1760;