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Taxes are not beatiful

Taxes are not beatiful

Il Foglio

Ad aprile il governo inglese abolirà la tassa di successione sul capitale dei fondi pensione, tassa oggi del 55 per cento. Tralasciando le tecnicalità di un sistema basato molto sulla previdenza integrativa, ne beneficeranno gli eredi di oltre 400 mila pensionati che ora, e pur con la superimposta, preferiscono ritirare i soldi a una rendita aggiuntiva alle pensioni. Ma, come ha detto il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, l’obiettivo e di principio: “Incoraggiare gli anziani a godersi liberamente il denaro, ed eventualmente lasciarlo ai loro cari anziché al fisco”.

Alla vigilia delle elezioni 2015, i Tory strizzano certo l’occhio a due o tre generazioni; giusto mentre i laburisti chiedono di aumentare l’imposta sulla casa. Ma soprattutto Londra porta avanti un percorso di alleggerimento fiscale attuato con tagli alla spesa: corporate tax ridotta al 20 per cento, mentre in Italia le imprese pagano tra imposte, contributi e burocrazia quasi il 60; cinque punti in meno sulle persone fisiche, cioè il 35 per cento di pressione contro il 44 dell’Italia; ulteriori riduzioni per le giovani coppie; tagli sulle accise di carburanti ed energia.

Quando David Cameron si insediò a Downing Street, nel 2010, i laburisti e vari paludati analisti previdero una Gran Bretagna ridotta alla povertà: oggi il pil cresce del tre per cento, più di tutti gli altri paesi industrializzati, la disoccupazione scende al sei, il deficit si è dimezzato, il debito è al di sotto della media Ue, e 40 punti in meno che da noi. Certo, gli inglesi non hanno i vincoli dell’euro, la loro Banca centrale non aveva una Bundesbank con cui contrattare. Ma il coraggio di voler essere sempre liberi padroni dei loro soldi, quello sì.

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Le inutili ipocrisie sulle tasse

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Fino ad ora il governo non ha inserito nell’agenda delle sue priorità il lavoro autonomo e le partite Iva. Quando si è trattato di aumentare il reddito disponibile sono state privilegiate le fasce medio-basse del lavoro dipendente e il Jobs act ha come riferimento un laburismo tutto sommato tradizionale, anche se declinato in chiave di flexsecurity. Il tutto è stato gestito con lo strumento della legge delega che si sta rivelando un contenitore ipocrita: inizialmente appare utile per allargare lo spettro dell’azione di riforma senza generare conflitti, ma nel prosieguo mostra tutti i suoi limiti. Accumula contraddizioni e non è in grado di scioglierle se non con un atto d’imperio finale.

Qualcosa del genere rischia di accadere anche con la delega fiscale, lo strumento «largo» con il quale il governo pensa di riprendere a dialogare con gli autonomi. In linea di principio non si può che essere d’accordo con questo riallineamento di attenzioni perché il lavoro indipendente è destinato a crescere ed è la strada che prendono molti giovani in cerca di prima occupazione, di fatto costretti a «inventarsi» il proprio lavoro. Ma il famoso diavolo continua a nascondersi nei dettagli.

Vale la pena ricordare come l’apertura di nuove partite Iva resta sempre sostenuta, al ritmo di 40-50 mila al mese e la percentuale di quelle che mascherano un rapporto di lavoro dipendente si può stimare attorno al 15-20%. Non di più, come pure lasciano pensare i sindacati confederali che ne hanno fatto – come nel caso della Cisl – un punto focale di propaganda e comunicazione. Il guaio maggiore, caso mai, è che molte di queste nuove partite Iva chiudono la loro attività dopo qualche mese, come si può dedurre dalla dinamica delle cancellazioni che rimane sempre molto elevata (80 a 100 nel rapporto con le nuove iscrizioni) e da una rotazione molto frequente in alcune attività economiche giudicate a bassa barriera d’ingresso, segnatamente la ristorazione nei grandi centri urbani.

Detto questo, l’ipotesi di provvedimento che il ministero dell’Economia e finanze ha in gestazione per le mini-imprese (un milione di contribuenti) e che dovrebbe approdare nella delega fiscale appare, nelle intenzioni, ambiziosa perché punta a semplificare drasticamente le procedure, a limare la pressione fiscale e a introdurre nuovi criteri di equità tra i contribuenti di diverse fasce di ricavi. Tre obiettivi in uno, non facili da raggiungere in contemporanea perché da una parte il gettito che proviene da queste attività non può calare di brutto e nello stesso tempo bisogna dare un segnale di riduzione delle tasse. Come se non bastasse occorre affrontare anche alcune contraddizioni che si sono prodotte nel tempo come quella che, proprio a causa del regime forfettario, fa sì che le nuove imprese non siano incentivate a crescere per il rischio di dover pagare a caro prezzo (fiscale) le commesse aggiuntive conquistate. È giusto, quindi, affrontare le strozzature erariali e normative che oggi penalizzano le piccolissime imprese, ma non va sottovalutato il rischio che il messaggio possa non arrivare chiaro e limpido. Il governo, dunque, si occupi degli autonomi e delle partite Iva ma stia attento allo sperimentalismo fiscale. Le cavie potrebbero non gradire.

In Italia c’è il fisco più pesante d’Europa

In Italia c’è il fisco più pesante d’Europa

Metronews

L’Italia ha uno dei sistemi fiscali più pesanti e inefficienti d’Europa: la pressione fiscale è elevata, soprattutto su lavoro e impresa, e il sistema fiscale è amministrativamente oneroso. Durante la crisi la situazione è ulteriormente peggiorata per via dell’aumento della pressione fiscale reso necessario dall’impossibilità politica di tagliare la spesa pubblica: a evidenziarlo è una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro” che analizza la struttura delle entrate fiscali nel nostro Paese, la loro evoluzione nel tempo e le loro caratteristiche rispetto ai maggiori paesi europei.

«Considerando la pressione fiscale dal 1990 al 2012 – si legge nel Rapporto – si osserva come negli ultimi anni l’Italia, assieme alla Francia, abbia visto un forte aumento delle entrate fiscali, di 4 punti di Pil, nonostante la gravissima crisi economica. Buona parte dell’aumento risale agli anni immediatamente prima della crisi, per controllare il debito pubblico la cui virtuosa riduzione si era arrestata». Analizzando ad esempio l’Itr sul lavoro (il livello di tassazione implicito), si osserva come l’Italia sia abbondantemente sopra i maggiori paesi europei, 3 punti più della Francia, 5 più della Germania, e addirittura 9 e 18 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. E rispetto alla Germania, l’Italia nel 2012 aveva una pressione fiscale superiore di ben 4 punti di Pil, pari a 65 miliardi di euro.

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Case e tasse rebus, salvate l’Italia malata di fisco

Massimo Scotton – Il Secolo XIX

Il sistema fiscale del nostro Paese necessita da tempo di essere riformato, è un tema che da anni, meglio decenni, ascoltiamo dibattere tra le forze politiche di ogni tendenza, con particolare intensità in periodi di campagna elettorale, nei quali spesso si sente parlare di semplificazione forse senza conoscerne a fondo il significato. Risultati concreti tuttavia non se ne sono visti, anzi. La crisi economica porta alla ribalta l’eccessiva onerosità del carico fiscale su cittadini e imprese oltre alla continua difficoltà di reperire gettito a copertura della spesa pubblica. Fa sorridere, per inciso, leggere la proposta di adeguamento dell’imposta di successione ai più alti standard europei, laddove non si ricorda a memoria di uomo che vi siano mai stati adeguamenti al ribasso in numerosi altri settori impositivi nei quali siamo leader indiscussi a livello europeo, se non mondiale. Ho inteso pertanto riferirmi al sistema fiscale, piuttosto che a questa o quell’imposta nel particolare, per il fatto che è l’intero impianto a dover essere riformato affinché possa costituire una infrastruttura su cui possa basarsi l’attività economica, produttiva e sociale per lo sviluppo del Paese nei prossimi decenni.

L’attuale condizione ha generato inoltre la tangibile compromissione del rapporto di fiducia tra i cittadini, lo Stato e nel particolare la sua amministrazione finanziaria. Quali fattori hanno determinato questa situazione? Un sistema fiscale complesso, fatto di norme per la maggior parte emanate con decretazione di urgenza, che non si inseriscono in maniera organica in alcun disegno globale di tassazione bensì alterano di volta in volta le precedenti condizioni. Un legislatore fiscale che spesso dimostra di non conoscere la materia lasciando ampi varchi a postume interpretazioni. Un sistema sostanzialmente mutante, instabile, spesso persecutorio, mai precettivo, che si traduce in una tassazione ormai insopportabile sia in termini diretti che in termini di oneri indiretti e costi di compliance a carico di imprese e cittadini. Una condizione di incertezza costante non più sostenibile che penalizza altresì gravemente l’immagine del nostro Paese.

L’Italia infatti è stabilmente accreditata di un “deficit di attrattività” per quanto riguarda gli investimenti esteri che preferiscono altre sedi europee, anche in uscita dall’Italia. Le recenti statistiche hanno preso in esame l’ultimo ventennio con raffronti allarmanti: un gap di uno a cinque tra noi e la Gran Bretagna ad esempio, ma non solo, Francia e Germania quasi il triplo rispetto a noi. Tutte le altre nazioni europee riescono a vendere il loro sistema molto meglio dell’Italia, con una legislazione semplice, certezza e stabilità del diritto, poca burocrazia, bassa pressione fiscale e non certo favorendo l’evasione, attraendo quindi, inesorabilmente, capitali ed investimenti. È un mercato anche questo, globale, sul quale è obbligatorio competere. Gli indirizzi espressi alla stampa dal nuovo Direttore dell’Agenzia delle Entrate all’atto del suo insediamento hanno posto in evidenza un rinnovato approccio di valutazione nei confronti di ciò che effettivamente concretizza fenomeni di evasione fiscale rispetto ad errori di interpretazione o applicazione delle norme esistenti. Non si può che condividere tale approccio auspicando ancora una volta che le leggi in materia fiscale diventino più chiare, semplici, a tutto vantaggio di un concreto sostegno all’attività di contrasto a comportamenti chiaramente orientati al compimento di illeciti.

A livello comunale abbiamo assistito ad un notevole inasprimento della tassazione con l’introduzione di nuovi tributi locali il cui pagamento è in scadenza nei prossimi mesi. A questi si aggiunge la rateazione delle imposte a saldo e acconto per le annualità 2013 e 2014. Un impegno pressante per i cittadini e le imprese. Gli enti locali hanno emanato una normativa regolamentare improvvisata, per nulla omogenea sul territorio nazionale, istituendo nuovi tributi Iuc,Tari, Tasi, in parte sostitutivi di altri, le vecchie Ici e poi Imu. Il risultato allo stato attuale è devastante in termini di oneri a carico del cittadino nel reperire aliquote comunali, esenzioni, detrazioni ed altro al fine di poter adempiere con una qualche minima tranquillità all’obbligazione tributaria. Alcune municipalità provvedono, e bene fanno, ad inviare a domicilio bollettini precompilati, altre devono ancora decidere le aliquote. Davvero complicato adempiere da parte del cittadino e di chi professionalmente lo assiste. Benvenuti siano quindi gli 80 euro in busta paga, anche se la maggior parte finisce verosimilmente in pagamento dei tributi comunali nel prossimo mese e la rimanente in pagamento delle rate di prestiti al consumo 60 mesi con i quali è stata comprata la produzione industriale degli anni 2008/2009. Per quella di oggi non ci sono più soldi. Per il legislatore nazionale c’è veramente spazio per una riforma del sistema fiscale italiano, purché davvero abbia voglia di cominciare.

Tanti minibond, pochi investimenti

Tanti minibond, pochi investimenti

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

Un proverbio inglese ricorda che puoi portare un cavallo alla fontana, ma non puoi costringerlo a bere. Questa chicca di saggezza popolare ben si adatta agli sforzi che legislatori e autorità monetarie compiono per superare il credit crunchche attanaglia l’Italia e di cui la storia della giovane coppia che gira 12 banche e non riesce ad ottenere un mutuo, pubblicata venerdì scorso su Repubblica, ne é l’esemplificazione. Il primo esempio di cavallo che beve in modo strano lo si trova nel mercato dei minibond. Questo strumento é stato introdotto ormai più di due anni fa. È stato poi man mano affinato, soprattutto allo scopo di finanziare i piani di sviluppo delle Pmi. Invece che sottostare alla rigida normativa societaria e fiscale applicabile alle emissioni di obbligazioni, le imprese che decidono di quotare in un mercato regolamentato i propri titoli di debito ottengono la piena deducibilità fiscale degli interessi e non devono rispettare i limiti di proporzione tra debito e patrimonio netto previsti dal codice civile.

Il governo Monti e successivamente quello Letta avevano voluto aprire un nuovo canale di approvvigionamento di risorse per le aziende innovative senza necessariamente far ricorso al credito bancario. L’esperimento sta riuscendo discretamente bene, in quanto sono stati finora emessi minibond per 1,2 miliardi di euro ed il mercato è in sicura crescita. Tuttavia il cavallo-impresa non ha bevuto esattamente l’acqua che si aspettava il legislatore. Infatti, secondo una ricerca della società di consulenza Crescendo che ha esaminato le 36 emissioni obbligazionarie fin qui effettuate, sono emersi dati curiosi. Del miliardo e 200 milioni raccolto sul mercato, solo152 sono serviti a finanziare progetti di sviluppo (il 13% del totale) cui possiamo forse aggiungere altri 150 milioni raccolti da società municipalizzate venete per le reti idriche. Il resto o è stato collocato da società quotate per le quali la procedura minibond non era necessaria (73 milioni), oppure per rifinanziare il debito bancario (818 milioni). Insomma, l’eterogenesi dei fini, di cui lo Stato non tiene mai conto, ha funzionato in questo caso a meraviglia, sopperendo sì ad un bisogno, ma non quello che si era immaginato l’estensore della legge. In futuro è possibile che la situazione si riequilibri, ma ad oggi il cavallo ha fatto di testa sua. E qui arriviamo ad un’altra fontana, la BCE, la quale, pur avendo offerto alle banche italiane una quantità enorme di denaro perché queste potessero utilizzarlo per gli impieghi delle imprese, si è trovata di fronte ad un’inaspettata flebile richiesta. Secondo il programma Tltro ( Targeted Longer Term Refinancing Operations) a settembre erano disponibili per gli istituti di credito italiani ben 75 miliardi di euro, ma i primi 10 di loro ne hanno richiesto solo 23.

Ma come, le nostre aziende lamentano il prosciugamento del credito, la Bce mette a sul piatto a tassi di interesse infimi una quantità enorme di denaro e il cavallo bancario non si abbevera? Anche in questo caso le spiegazioni potrebbero essere molteplici. Una, contingente, é che le banche sono in attesa degli stress test (o, se si preferisce, valutazione dei bilanci) che la Bce sta conducendo e quasi completando. Si vorrebbero attendere gli esiti della valutazione prima di decidere se indebitarsi troppo. Tuttavia, nei mesi scorsi il sistema bancario ha già restituito in anticipo una parte sostanziosa del denaro che era stato precedentemente preso a prestito dalla Bce e questo indicherebbe che la questione principale non è la mancanza di liquidità. Piuttosto, il sistema creditizio italiano è assediato dalle sofferenze e perciò in ogni caso le banche sono riluttanti a concedere mutui. Le imprese che non esportano non offrono probabilmente sufficienti garanzie, di conseguenza i tassi che vengono applicati sono tuttora alti o addirittura non si eroga il credito.

Il problema è circolare: finché c’è la crisi non è prudente aprire la borsa del credito, ma senza liquidità diventa più difficile uscire dalla crisi. Ecco dunque che i due cavalli, quello del minibond e quello del Tltro si ricongiungono: i soldi per lo sviluppo sono molto meno utili fino a quando non ci saranno le condizioni che favoriscono la crescita. E quali sono queste condizioni? Il pagamento dei crediti della PA é certamente uno, la riduzione del debito pubblico e un ulteriore abbassamento dello spread, in modo da rendere i BTP meno attraenti per le banche un altro. Inoltre, l’indebolimento dell’euro (facilitato dalle manovre della BCE) potrà aiutare. Ma il fattore principe sono le riforme invocate dallo stesso Draghi: sinché il mercato del lavoro, quello delle professioni e quello dei servizi non saranno liberalizzati, la giustizia non sarà efficiente, le tasse e le spese tagliate, il peso della burocrazia ridotto, la PA sottoposta a criteri meritocratici, inondare di liquidità il mercato avrà effetti limitati. I due cavalli, che siano imprese o banche, arrivati alla fontana chiedono dunque all’unisono una cosa sola: riforme, riforme, riforme.

Burocrazia e tasse vecchi mali del Paese, così la competitività resta una chimera

Burocrazia e tasse vecchi mali del Paese, così la competitività resta una chimera

Giovanni Marabelli – Affari & Finanza

Il dato è impietoso, quasi brutale: 49esimi nel mondo per competitività. Ma, frugando tra le 116 tabelle che lo determinano, c’è da farsi venire i brividi. La fotografia dell’Italia scattata come ogni anno dal World Economic Forum di Ginevra nel Rapporto sulla competitività mondiale 2014 non fa sconti al nostro Paese. Forse lo staff della Sda “Bocconi”, che ha effettuato le valutazioni in Italia, sarà stato più rigoroso di altri “esaminatori”. O forse il campione di imprenditori ed executive che ha assegnato i voti è, come da tradizione della classe dirigente nazionale, ipercritico e un pizzico esterofilo. Ma la realtà rimane tutta in un numero: il 49. E 49esima è la posizione dell’Italia su 144 Paesi complessivamente presi in considerazione, lontanissima dal podio, occupato da Svizzera, Singapore e Usa nell’ordine, seguiti da Finlandia, Germania, Giappone, Hong Kong, Olanda, Regno Unito e Svezia. L’Italia è 49esima come nel 2013, a dimostrare plasticamente la sua immobilità. Dopo essersi inabissata perdendo posizioni su posizioni negli anni scorsi. Nel frattempo, anche in Europa, qualcosa si è mosso: il Portogallo (passato dal 51esimo al 36esimo posto) e la Lettonia (salita dalla 52esima alla 42esima posizione) hanno scavalcato l’Italia. E tra quanti già la precedevano, la Germania si è migliorata di un posto, la Danimarca di due, Lussemburgo e Irlanda di tre, la Lituania di sette e la Repubblica Ceca di nove. I “grandi frenatori” di quanti vogliono fare impresa in Italia, per il campione del Rapporto, nell’ordine sono: burocrazia inefficiente (19,9% degli interpellati), peso della tassazione (18,7%), credito (16,1%), regole del lavoro restrittive nei confronti delle imprese (11,1%), farraginosità delle disposizioni fiscali (8,6%), corruzione (7,2%), instabilità politica (5,8%), infrastrutturazione inadeguata (5,5%), insufficiente capacità innovativa (2%), criminalità (1,7%).

Il nostro Paese, beninteso, conserva punti di forza: è il primo della classe per inflazione sotto controllo (prima che si trasformasse in deflazione) e stato di salute dei distretti, che negli anni pre-euro avevano fatto la fortuna dell’industria tricolore. E si piazza solo poco più in basso per aspettativa di vita e tariffe commerciali, un altro indicatore, questo, a doppio taglio: senza reciprocità, fa vincere il crescente protezionismo altrui. All’opposto, il nostro Paese deve ringraziare il Sudamerica e, se non ci fosse, inventarlo. Solo l’Argentina e il Venezuela, infatti, due volte ognuno, salvano l’Italia dall’ingloriosa maglia nera di 144esimo Paese in quattro indicatori. Vale a dire: efficienza nel dirimere le controversie legali, trasparenza delle scelte governative, effetti della tassazione sugli investimenti, effetti della tassazione sul lavoro. Preoccupanti sono anche altri risultati, francamente imbarazzanti per un Paese che rimane tra le economie mondiali più significative. Scontato, purtroppo, il 139esimo posto per rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, l’Italia risulta 139esima per fiducia nei politici; 134esima per total tax rate sui profitti; 134esima per formazione continua; 138esima per impatto di leggi e regolamentazioni sull’attrazione di investimenti dall’estero; 139esima per facilità di accedere al credito; 130esima per acquisti da parte delle pubbliche amministrazioni di prodotti tecnologicamente avanzati.

L’indagine del Wef si basa su 12 pilastri, a loro volta divisi in settori, che prendono ciascuno in considerazione l’efficienza di diversi indicatori: istituzioni, infrastrutture, sviluppo macroeconomico, sanità ed educazione primaria, educazione superiore e formazione, mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato finanziario, disponibilità tecnologica, dimensione del mercato, sviluppo del business, innovazioni. La faccia migliore dell’Italia, nel complesso, si mostra nella sanità e l’istruzione primaria, che rappresentano autentiche eccellenze, ma una buona posizione è meritata complessivamente anche da educazione superiore e formazione, dimensione del mercato e sviluppo del business. I pilastri più “cedevoli” (per il numero di volte in cui l’Italia finisce dopo la 100esima posizione) sono quelli delle istituzioni, con 11 posti critici, del mercato del lavoro (8) e del mercato delle merci (7), anche se in proporzione a fare peggio è il mercato del lavoro, con 8 indicatori su 10 oltre quota 100. Sul fronte delle istituzioni l’Italia sconta anche la proverbiale (e talvolta comoda) incomunicabilità tra cittadini e istituzioni. Gli italiani lamentano le disfunzioni della giustizia e la scarsa trasparenza del governo, non hanno fiducia nei politici e li accusano di sperperare il denaro pubblico, pensano che le decisioni politiche siano adottate per favorire amici, parenti e sodali e si sentono soffocati dalla criminalità organizzata. Nel mercato del lavoro, bocciano, oltre al peso della tassazione, la disciplina di assunzioni e licenziamenti (per efficienza al 141esimo posto nel mondo), il rapporto tra produttività e retribuzioni, la mancanza di flessibilità nel determinare gli stipendi, le relazioni tra datori di lavoro e dipendenti, la capacità del Paese di attrarre cervelli stranieri e di evitare la fuga all’estero degli italiani più dotati intellettualmente.

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Federico Fubini – Affari & Finanza

Pochi Paesi sono ossessionati come l’Italia dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell’articolo 18 se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24% della Francia, il 28% della Germania, il 44% della Gran Bretagna. Gli imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano altri, magari in Borsa.

Bruno Pellegrino dell’Università della California e Luigi Zingales di Chicago stanno per pubblicare uno studio per il National Bureau of Economic Research, il primo think tank economico degli Stati Uniti, dove mostrano un fallimento. Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales: «Il clientelismo e favoritismo nelle imprese sono le cause ultime della malattia italiana». L’aspetto sorprendente è che non è vero ovunque.

C’è un ceto di imprese italiane fra i 500 milioni e i tre miliardi di fatturato, spesso leader mondiali di settore, che in questi anni sta prosperando. Intercos nella cosmetica, Ima o Gd nel packaging, Interpump nella meccanica, Danieli nell’acciaio e vari altri. Nomi che alla maggioranza degli italiani dicono poco, ma non solo perché non sono a contatto con i consumatori. Se non se ne parla, è perché i loro azionisti e manager non cercano sponde nei partiti o nelle lobby. È gente che sa lavorare, cresce sul serio e, in questo caos di Paese ha rinunciato da un pezzo a esercitare la prerogativa più preziosa: il potere dell’esempio. Preferiscono sparire, volare sotto al radar per non attrarsi guai, piuttosto che mostrare ai colleghi come si fa e tutti gli italiani che vincere si può. Su questo ceto di aziende, medie su scala globale, adesso grava una responsabilità. Devono assumere il ruolo delle grandi imprese che l’Italia non ha più. Nella moda, nel packaging, nella meccanica o nell’alimentare è ora che cadano le logiche di famiglia, le rivalità di distretto o le gelosie di marchio per creare, nel tempo, nuove realtà con muscoli davvero globali. Soggetti aggregatori senza passaporto francese o indiano, ma italiano. È una riforma strutturale che non necessita accordi nelle sedi di partito: forse, per una volta, si può.

Debiti PA, i sindaci pagano a singhiozzo

Debiti PA, i sindaci pagano a singhiozzo

Valeria Uva – Il Sole 24 Ore

C’è un «tesoretto» da un miliardo e 700 milioni di euro destinato a saldare le imprese in arretrato, ma fermo nei cassetti. In parte perché alcuni enti locali si sono decisi a chiedere anticipazioni di liquidità per pagare i debiti solo negli ultimi mesi, in parte (ma la cifra non è quantificabile) perché si tratta di fondi che i Comuni hanno in realtà già pagato, ma che scontano problemi nella rendicontazione. Il risultato è che a oggi, secondo i dati diffusi dal ministero dell’Economia il 23 settembre, almeno il 21% delle risorse erogate ai Comuni non risulta ancora pagato ai privati (in linea, con la media nazionale del 19%). Dei 57 miliardi stanziati per l’operazione “sblocca debiti” ai Comuni sono già andati 8,2 miliardi, attraverso il canale dell’allentamento del patto di stabilità e quello delle anticipazioni di liquidità erogate in quattro tranche (si veda la cartina a fianco). Ne risultano, però, pagati solo 6,5 miliardi, con un buco di 1,7 miliardi. Una liquidità preziosa per i fornitori in attesa da anni. E che invece arriva con il contagocce.

I flussi di cassa
Sul fronte dell’allentamento del patto di stabilità 2013 mancano all’appello 524 milioni; il resto è rappresentato dalle anticipazioni di liquidità, veri e propri prestiti ricevuti da Cdp su cui i Comuni, peraltro, stanno già versando interessi. Che gli enti locali abbiano rallentato i flussi di cassa lo scrive anche il Mef nel comunicato stampa che fa il punto sull’operazione: «Negli ultimi mesi – si legge – le somme messe a disposizione degli enti vengono richieste e assorbite più lentamente, presumibilmente perché la quota maggiore di debito patologico è stata rimossa grazie ai primi finanziamenti». L’Economia cita il caso della terza tranche di finanziamento ai Comuni che «è stata da questi assorbita solo parzialmente: 1,3 su 1,8 miliardi disponibili». L’arretrato maggiore (circa 900 milioni) si riscontra nella ultima tranche erogata soltanto a partire da questa estate. Non stupisce, quindi, che in questo caso solo il 31% dei Comuni sia già riuscito a esaurire anche queste risorse. Ma colpisce, invece, un altro dato: esistono 89 Comuni con debiti 2013 – che hanno «chiesto aiuto» allo Stato solo con questa tranche e solo nell’estate scorsa. Enti anche grandi (Catania da sola ha chiesto quasi 200 milioni, Catanzaro 18 oltre agli otto del Patto di stabilità). Particolarmente critica la situazione nella città etnea che dichiara un tempo medio di pagamenti delle imprese nel 2013 di ben 469 giorni. Tra i Comuni capoluogo più indebitati risulta in affanno anche Reggio Calabria: è pari al 53% lo stato di avanzamento rendicontato. Il Comune attraversa una gravissima crisi di liquidità.

La rendicontazione
Alcune lentezze non sono riconducibili agli enti locali. Per Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, ad esempio, due aree formalmente a zero nei pagamenti, il nodo è tecnico: la rendicontazione fatta su base regionale non specifica le spese sostenute da ogni ente. Conferma l’assessore al bilancio di Aosta, Carlo Marzi: «I tre milioni che avevamo chiesto sono stati tutti utilizzati». Non sempre, però, la registrazione sulla piattaforma della Ragioneria per il monitoraggio del Patto va a buon fine. Ma il problema è più ampio. Parte di quel 20% di enti in affanno potrebbe in realtà aver già saldato ed essere “vittima” di un ritardo nel caricamento dei dati (soprattutto per l’ultima tranche). È il caso, ad esempio, di Torino, che secondo il Mef sarebbe al 90% mentre al «Sole 24 Ore» dichiara un adempimento totale, concluso negli ultimi giorni. O di Salerno, che vanta un 100% di pagamenti (contro il 65% “ufficiale”): «Abbiamo saldato tutto e rendicontato il 21 agosto – spiega l’assessore al Bilancio, Alfonso Buonaiuto – e con l’ultima tranche non abbiamo più debiti arretrati al 2013». Poi c’è Nuoro, che per il Mef risulterebbe ancora a zero. «E invece abbiamo già speso tutti gli spazi finanziari ricevuti e abbiamo rendicontato ad aprile scorso» dichiara l’assessore al bilancio, Salvatore Daga. Come Nuoro sono oltre 600 i Comuni, grandi e piccoli, che nell’ultimo aggiornamento risultano a zero. In controtendenza, infine, ci sono anche i super-adempienti: una manciata di enti che risultano aver pagato più del 100% di quanto ricevuto. Ma il mistero è più facile da svelare: qualche Comune è riuscito a dedicare all’operazione “sblocca-debiti” anche risorse proprie oltre a quelle assegnate dello Stato.

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Roberto Mania – La Repubblica

Licenziati e poi reintegrati. Accade – sempre meno – in Italia, ma anche in tanti altri paesi europei: Austria, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Svezia e pure in Gran Bretagna, paese del common law. E il ritorno nel posto di lavoro non è del tutto escluso nemmeno in Francia, Finlandia, Spagna o Lussemburgo, in caso di licenziamento illegittimo. Insomma la reintegra, come la chiamano i giuslavoristi, «non costituisce un’anomalia tutta italiana». Così scrivono i ricercatori di “Italia Lavoro”, il braccio operativo del ministero nelle politiche attive per il lavoro, in un dossier, “La flessibilità in uscita in Europa”, che fa un’analisi comparativa dettagliata sulle regole dei licenziamenti individuali e collettivi nei paesi europei. Ne esce un quadro di tutele piuttosto estese sulla base di un principio sancito nella Carta sociale europea: i lavoratori licenziati senza valido motivo hanno diritto «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».

Con il suo reintegro in versione ridotta dopo la legge Fornero (vale per i licenziamenti discriminatori e quelli camuffati da motivi economici) l’Italia è in buona compagnia nel prevedere la possibilità che un lavoratore ingiustamente licenziato possa tornare al proprio posto di lavoro. In genere spetta al giudice (anche questa non è un’anomalia italiana) decidere, ma sono previsti casi di ricorso ad un arbitro per la conciliazione (possibile pure da noi). Ciò che distingue molto l’Italia dagli altri paesi è, piuttosto, la durata dei procedimenti giudiziari: in media intorno ai due anni contro i quattro-cinque mesi della Germania, stando ad un’indagine dell’Ocse. È questo che genera incertezza per gli imprenditori. Ed è questa la ragione principale per cui il governo Renzi ha deciso intervenire nuovamente (la legge Fornero è di soli due anni fa) sull’articolo 18 dello Statuto. Non tanto per rendere più flessibile l’uscita dal mercato del lavoro, quanto per rendere più certo il quadro per le aziende che intendano investire in Italia. Perché più che il reintegro in sé, le imprese temono l’incertezza (per i tempi e per le imprevedibili conclusioni diverse da tribunale a tribunale) che può condizionare non poco la loro operatività. La strada dell’indennizzo verso il quale ha scelto muoversi il governo diventa sotto questo profilo più prevedibile.

In Germania, dove la cultura dei giudici è meno pro labour ma il sindacato è più forte e strutturato nelle aziende, prevale Nell’impianto legislativo la conservazione del posto di lavoro. Dunque è il tribunale che può ordinare il mantenimento del rapporto di lavoro in caso di licenziamento nullo o ingiustificato. Tra l’almo, durante il periodo in cui si svolge il processo, il lavoratore ha il diritto di continuare a prestare la sua attività. Queste regole valgono per tutti i lavoratori con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi e nelle aziende con più di dieci dipendenti. Una soglia dimensionale che non ha impedito che in Germania si formasse un sistema produttivo caratterizzato dalla presenza delle grande imprese. Nello stesso tempo è questo un’argomento a sfavore di chi, in Italia, sostiene che il nanismo del capitalismo tricolore dipenda tra l’altro dallo Statuto dei lavoratori che si applica alle aziende con più di quindici dipendenti.

In Francia vige un sistema “misto”. C’è il reintegro in tutti i casi di licenziamenti discriminatori o nei casi di violazione di diritti fondamentali e di libertà pubbliche. Negli altri casi, decisamente più numerosi, di fronte al licenziamento senza giusta causa scatta un risarcimento monetario. In Irlanda, paese nel passato preso ad esempio per la sua flessibilità e non solo per il favorevole trattamento fiscale, prevale il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo. Reintegro previsto anche in Gran Bretagna che affida margini di discrezionalità molto ampi al giudice il quale può reintegrare il lavoratore adibendolo a mansioni diverse da quelle precedenti. È interessante il fatto che queste ipotesi non valgano per i lavoratori che hanno meno di due anni di servizio. Tortuoso anche il procedimento in Olanda dove l’imprenditore deve ottenere dall’autorità pubblica l’autorizzazione (con funzione di deterrenza) per poter licenziare. Il problema dunque non è l’istituto del reintegro più comune, sulla carta, di quanto si pensi, bensì l’efficacia dell’iter che porta alla conclusione dell’eventuale contenzioso.

Strane idee sul futuro del Tfr

Strane idee sul futuro del Tfr

Walter Passerini – La Stampa

Nei giorni scorsi è ventilata la notizia che il governo stia pensando a un provvedimento per anticipare mensilmente il Tfr futuro, vale a dire l’accantonamento annuale che alla fine del rapporto di lavoro si trasforma in liquidazione. Si tratta di quasi 30 miliardi all’anno, di cui, questa è la proposta, la metà finirebbe ogni mese in busta paga, mentre la metà resterebbe in azienda. Ovviamente la mensilizzazione del Tfr potrebbe far gola a molti, con un interrogativo: meglio 1’uovo oggi o la gallina domani?

L’idea nasce dall’esigenza di stimolare i consumi, immettendo nel mercato una liquidità di 13-15 miliardi. Per le imprese, vi sarebbero delle compensazioni, finanziarie e fiscali, dal momento che il Tfr è una pura posta contabile e non viene fisicamente accantonato ogni anno. Per le persone vi sarebbe l’opportunità di avere ossigeno in busta paga (l’ammontare è una mensilità all’anno da suddividere mensilmente), trasferendo la somma o in consumi o in risparmio.

Da qualche tempo una parte di Tfr viene accantonata per la previdenza integrativa, ed è questa la sua destinazione naturale. Alla fine del rapporto di lavoro o del lavoro tout court, il lavoratore avrebbe a disposizione un certo capitale e un’integrazione pensionistica. Con l’aria che tira sulle future pensioni contributive, forse sarebbe meglio essere previdenti, avere pazienza e aspettare, piuttosto che consumare, ritrovandosi poi con un pugno di mosche in mano.