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Perché il pubblico impiego fa da ammortizzatore sociale e da freno all’Italia

Perché il pubblico impiego fa da ammortizzatore sociale e da freno all’Italia

di Renzo Rosati – Il Foglio

In Calabria oltre un occupato su cinque – il 22,03 per cento – è pubblico, cioè retribuito con denaro dei contribuenti. Appena sotto Val d’Aosta (21,01), Sicilia (19,95), Sardegna (19,3), Molise (18,06), Campania (17,89), Basilicata (17,89), Puglia (17,48). L’intero Mezzogiorno, più la Val d’Aosta, ha come maggior datore di lavoro Stato ed enti locali: sei punti più della media nazionale (13,9 per cento), il doppio di regioni Lombardia, Veneto e Piemonte. Sono le cifre di un rapporto, su dati Istat e della Ragioneria dello stato, di ImpresaLavoro, centro studi indipendente che analizza l”influenza sull’economia delle dinamiche del lavoro.

Rispetto a queste statistiche i sindacati e la sinistra ribattono sempre che gli impiegati pubblici in Italia non sono più numerosi che altrove, come pure la spesa in rapporto al pil. Né che le loro paghe superino quelle private. Davvero? In rapporto alla popolazione la media italiana è effettivamente del 5,18 per cento, rispetto all’8,5 della Francia, al 7,9 del Regno Unito, al 6,4 della Spagna, al 5,7 della Germania. Egualmente per pagare i 3,142 milioni di pubblici dipendenti si sono spesi 163 miliardi nel 2015, poco più del 10 per cento della ricchezza prodotta, in linea con Francia e Regno Unito, meno di Francia e Svezia. Mentre le retribuzioni in media sono state 34,300 euro lordi rispetto 32,300 dei privati, e in vent’anni sono aumentate del 70,8 per cento contro il 58,9 nel privato.

Ma queste cifre non dicono molto se non si raffrontano ad almeno due altri dati di fatto. Il primo è la concentrazione di lavoro pubblico al sud e nelle regioni a statuto speciale. Il secondo e l’efficienza del pubblico impiego, cioè il ritorno in termini di servizi di cio che paghiamo come contribuenti. Ebbene, in Italia oltre al sud la fanno da padrone le regioni a statuto speciale: Val d`Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna, Nel senso letterale: hanno la più alta concentrazione di pubblici dipendenti (in Val d’Aosta quasi il 10 per cento dei residenti, neonati inclusi) e ne assumono quanti vogliono a differenza che nel resto d’Italia e d’Europa. Ovvero, si comportano come le economie pianificate dell’est europeo prima della caduta del muro di Berlino. Certo con risultati contrastanti: nel sud l’impiego pubblico è evidentemente una forma indebita di ammortizzatore sociale, che però il resto d’Italia paga a vita a differenza della cassa integrazione. Al nord si tratta di un’emanazione del potere locale, che sfugge al controllo dello Stato, e tuttavia fa funzionare i servizi. Ma è proprio sui servizi, cioè su quanto gli oltre tre milioni di dirigenti, funzionari e impiegati giovino ai contribuenti e all’economia italiana, che li pagano, che vanno misurate le statistiche.

Nella relazione “Efficienza della Pubblica amministrazione in Italia” pubblicata nel 2016 dalla Commissione europea, il nostro paese risulta al 23mo posto su 28. Bruxelles lamenta, testualmente: “Efficienza ed efficacia del settore pubblico italiano inferiore alla media europea; eccessiva durata delle procedure burocratiche; età media dei dipendenti pubblici più alta nella Unione europea; 18 per cento in possesso di laurea; 34 per cento non in possesso del diploma di istruzione secondaria; inefficienza del settore pubblico come ostacolo alla crescita delle imprese e degli investimenti esteri; inefficienza delle società a partecipazione pubblica locali; sistema degli appalti pubblici con il più alto tasso Ue di procedure negoziate senza bando di gara e di appalti aggiudicati in base a una singola offerta; cattivo utilizzo dei fondi strutturali europei; lunga durata dei procedimenti giudiziari civili”.

Da questo orecchio né la Cgil di Susanna Camusso, né i grillini mattatori del populismo italiano, né la magistratura (essa stessa dominus del pubblico impiego), vogliono proprio sentirci. Il sindacatone della sinistra, fautore della concertazione nazionale della Pubblica amministrazione, e baluardo, contesta sistematicamente ogni cifra sull’assenteismo come le ultime rese note dall’Inps: nel 2015 tra malattie e permessi vari extra ferie sono stati 19,3 giorni l’anno a persona nel pubblico, contro i 13 del privato, una differenza che costa allo stato 3,7 miliardi. I Cinque stelle li abbiamo visti all’opera a Roma: ampie rassicurazioni ai dipendenti capitolini e contratti a pioggia. Quanto ai magistrati, negli ultimi mesi tra Tar e Consiglio di stato hanno riammesso nelle graduatorie dei precari della scuola ben 30 mila titolari di “legittima aspettativa” alla cattedra di ruolo, riportando le liste di attesa a 80 mila. Si tratta di diplomati alle magistrali che “legittimamente” intendono concorrere al posto fisso nelle elementari, specialmente al sud dove non ci sono cattedre, Notoriamente poi gli impiegati pubblici non possono essere licenziati, a differenza di Gran Bretagna, Spagna e Germania (la stessa riforma del ministro competente Marianna Madia prevede casi estremi). E queste sono altre ganasce che stringono l’Italia.

 

 

Dipendenti Pa: sono 3,14 milioni. Regioni a statuto speciale al top per numero in rapporto ai residenti, in Calabria un occupato su 5 è dipendente PA

Dipendenti Pa: sono 3,14 milioni. Regioni a statuto speciale al top per numero in rapporto ai residenti, in Calabria un occupato su 5 è dipendente PA

In rapporto alla popolazione residente i 3 milioni e 142mila dipendenti pubblici italiani sono inferiori a quelli delle altri grandi economie europee ma la loro distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, nemmeno rispetto al numero degli occupati. È questo il dato più significativo che emerge da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Istat e della Ragioneria Generale dello Stato.

A fronte di una media italiana del 5,18%, sono le Regioni a Statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 11.519 dipendenti, pari al 9,05% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (78.344 dipendenti, pari al 7,40% dei residenti), Friuli Venezia Giulia (82.380, pari al 6,75% dei residenti) e Sardegna (109.036 dipendenti, pari al 6,58% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (380.284 dipendenti pari al 6,46% dei residenti).

In fondo a questa particolare classifica si collocano invece regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come la Lombardia (4,02%) e il Veneto (4,51%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (4,82%), Piemonte (4,86%), Emilia Romagna (5%), Puglia (5%) e Marche (5,17%).

La classifica elaborata da ImpresaLavoro cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. Al primo posto troviamo la Calabria, con il 22,03% (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Valle d’Aosta, con il 21,01% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (13,99%): Sicilia (19,95%), Sardegna (19,30%), Molise (18,06%), Campania (17,89%), Basilicata (17,87%) e Puglia (17,42%) seguite a distanza ravvicinata dal Friuli Venezia Giulia (16,62%) che registra uno dei valori più alti di tutto il Centro-Nord. In coda alla classifica troviamo invece Lombardia (9,44%), Veneto (10,80%), Emilia-Romagna (11,59%) e Piemonte (11,90%).

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici (9,05%) superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (7,90%). Mentre la media italiana (5,18%) risulta più bassa di quella di Spagna (6,40%) e Germania (5,70%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca.

Le cose cambiano, ma solo marginalmente, quando ImpresaLavoro prende in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, solo le percentuali di Calabria e Valle d’Aosta sono superiori a quella della Francia (20%). La percentuale di dipendenti pubblici in Italia (13,99%) è invece inferiore a quella di Regno Unito (17%) e Spagna (16%), superando solamente il dato della Germania (11%).

I socialismi, la distribuzione del reddito e l’efficienza

I socialismi, la distribuzione del reddito e l’efficienza

Il saggio è stato scritto prima che Trump entrasse alla Casa Bianca e pubblicato sull’ultimo numero della serie dei Working Papers (No. 6278) di uno dei maggiori istituti di ricerca economica e sociologica europea, il CESifo di Monaca di Baviera. E’ di estrema attualità non solo negli Usa ma in tutti i Paesi europei. Ne sono autori tre professori dell’Istituto di Ricerche Economiche norvegese, Ingvild Almás, Alexander W. Capellen e Bertil Tungoddon. Il titolo è accattivante: “Cutthroat Capitalism versus Cuddly Socialism: Are Americans More Meritocratic and Efficiency-Seeking than Scandinavians?” (“Capitalismo con il coltello tra i denti e socialismo che fa le coccole: sono gli americani più meritocratici e alla ricerca dell’efficienza degli scandinavi?”).

Come è noto, c’è una differenza abissale tra ineguaglianza di reddito e politiche redistributive tra gli Stati Uniti e la Scandinavia. Per individuare se c’è una corrispondente differenza in preferenze della società, i tre studiosi hanno condotto il primo esperimento quantitativo , utilizzando campioni rappresentativi degli Stati Uniti e della Norvegia. L’esperimento utilizza le infrastrutture di un vasto mercato internazionale telematico e quelle di una delle maggiori agenzie di raccolta dati a livello mondiale. Inoltre, nell’esperimento (quattro differenti casi) gli americani ed i norvegesi effettuano scelte distributive in situazioni in cui hanno informazioni complete sulle determinanti delle diseguaglianze e il costo delle ridistribuzione. Il risultato è che americani e norvegesi hanno differenze significative in materia di giustizia sociale, ma non in tema di efficienza. Inoltre in ambedue i Paesi, le considerazioni di equità sociali sono più importanti di quelle di efficienza nell’accettare l’ineguaglianza.

Rigore e troppi tagli allo sviluppo

Rigore e troppi tagli allo sviluppo

di Paolo Bricco

Tutto e il contrario di tutto. Ogni disquisizione sul binomio debito-investimenti amalgama in un composto unico la politica e l’economia, accende gli animi anti-europeisti e rafforza allo stesso tempo i sentimenti filo-comunitari.

Il fiammifero dell’austerity è in mano ai piromani di ogni fazione. O perché, secondo alcuni, non la si rispetta religiosamente. O perché, secondo altri, la si applica sadicamente. Proviamo a partire da alcuni numeri che sono il cuore del caso italiano, nei caratteri storici di lungo periodo e nella specificità modellata dalla crisi che si è attivata, con la sua forza dirompente e pervasiva, nel 2008.

L’EUROPLACENTA
Il debito pubblico lordo italiano, in rapporto al reddito nazionale, cresce. Nel 2008, anno dell’inizio della grande crisi, era il 102,4% del Pil. Nel 2015, si è attestato al 132,3 per cento. La montagna non incantata sale sempre di più: per la Banca d’Italia, se nel 2008 il debito totale era pari a 1.671 miliardi, sei anni dopo – nel 2014 – è diventato 2.136 miliardi di euro e, adesso, 2.229 miliardi di euro (dato al novembre del 2016). Il problema è che, negli anni, la differenza fra spese ed entrate è esplosa: secondo il Centro Studi Impresa Lavoro, nel 2008 ammontava a poco meno di 38 miliardi e, nel 2014, è diventata quasi 72 miliardi.

In un contesto così complicato, il principale elemento – insieme di stabilizzazione e di destabilizzazione – è rappresentato dalle spese per gli interessi: nel 2008 erano al 4,9% del Pil e, dopo il picco del 5,2% del 2012, sono tornate gradualmente a scendere, fino al 4,2% del 2015. Stare dentro all’euro garantisce una placenta difensiva. Lo si coglie osservando la dinamica degli ultimi anni della lira: per esempio, nel 1997 questa voce della finanza pubblica era pari al 9,2% del reddito nazionale, nel 1998 al 7,9%, nel 1999 al 6,4% e, nel 2000 e nel 2001, al 6,1 per cento. Allo stesso tempo, la placenta dell’euro ha una qualità differente a seconda del Paese. Perché, per noi, anche in anni di relativa tranquillità come quelli del primo euro, vale lo “svantaggio Italia”: secondo la Banca d’Italia, nel 2002 in Italia la spesa per interessi è al 5,5% del Pil, contro il 2,9% della Germania e della Francia e il 3% dell’area euro; nel 2008, primo anno della grande crisi, è al 4,9% del Pil, a fronte del 2,7% tedesco, del 2,8% francese e del 2,5% dell’area euro. Nel 2011, anno dello spread a 500 punti fra il Btp-Bund tedesco a 10 anni, l’Italia è al 4,7% e, nel 2012, anno in cui si dispiega nella sua pienezza l’attività del Governo Monti, è al 5,2%, a fronte del 2,3% della Germania e del 2,6% della Francia e dell’area euro.

Nel suo rapporto con la capacità di creare ricchezza complessiva, il costo sostenuto per pagare il debito è più alto: spendiamo di più perché il nostro profilo è meno efficiente e più rischioso agli occhi degli investitori. Siamo uno Stato che gli investitori internazionali percepiscono non immune dalla ipotesi di bancarotta. E spendiamo di più anche in termini quantitativi: nel 2008 la spesa per interessi sfiora gli 80 miliardi di euro, nel 2009 e nel 2010 scende a poco meno di 70 miliardi, nel 2011 ritorna a 77 miliardi, nel 2012 sale a quasi 84 miliardi, per poi sedarsi di nuovo negli anni successivi (nel 2013 è a 77 miliardi, nel 2014 a 74 miliardi e nel 2015 a 69 miliardi). Negli anni che rappresentano il cuore della grande crisi – fra il 2008 e il 2015 – l’Italia spende in interessi sul debito 600 miliardi di euro, contro i 485 miliardi della Germania e i poco meno di 400 miliardi della Francia.

Questo gap ha un effetto duplice: imbolsisce la finanza pubblica con passività relative maggiori rispetto a quelle dei Paesi concorrenti, cambiando gli equilibri dei conti e riducendo – almeno a livello teorico – la possibilità di usare la leva della spesa.

IL PARADOSSO DELL’ELEFANTE
L’elefante è o non è un elefante? Il debito che cresce è una condizione di obesità fisiologica oppure è un elemento dell’immaginario che viene delimitato e definito da un senso di incubo del tutto irrazionale? L’Italia è un caso classico da manuale per le discettazioni teologiche fra economisti. Ma è anche il Paese in cui tutti noi viviamo. Per il mainstream l’accumulazione del debito pubblico porterebbe – o, meglio, porterà – all’implosione dell’intera architettura economica. In qualche maniera, secondo la concezione quasi antropomorfica di questa visione, lo Stato è assimilabile a una famiglia che, per potere tornare a consumare e a investire, deve prima ridurre drasticamente il suo debito. Per la minoranza keynesiana, invece, la spesa pubblica, che del debito è uno degli alimentatori, resta lo strumento principale con cui riattivare il circuito economico. Il tema delle grandezze economiche fissate dalle tecnocrazie e dalle élite politiche è il cuore dell’Unione europea dell’austerity, che vigila sulla quotidianità e sulle policy dei singoli Paesi affinché le passività pubbliche dei singoli Stati rimangano sotto determinate asticelle quantitative. Ed è una delle maggiori criticità ideali – prima che ideologiche – sull’attuale fisionomia della comunità europea.

Facciamo però un passo indietro. Come è composta la nostra spesa pubblica? Senza volere leggere, come nei fondi del caffè, il futuro della sostenibilità del debito pubblico, che tipo di natura ha il nostro debito? Qual è la matrice originaria della nostra spesa pubblica? Prendiamo la sua componente più virtuosa: gli investimenti. Secondo una elaborazione compiuta dal Centro Europa Ricerche sui dati Istat, è il 2009 – con il classico slittamento di un anno che caratterizza il recepimento delle tendenze economiche da parte della realtà statale – a segnare uno spartiacque nell’attività della mano pubblica. In quell’anno gli investimenti fissi lordi della pubblica amministrazione valgono 54,2 miliardi di euro e pesano per il 3,4% sul Pil. Da allora, si assiste a un declino rapido e costante: nel 2015, il valore è di 36,8 miliardi di euro, il 2,2% del Pil. All’interno degli investimenti fissi lordi, la voce più stabile è rappresentata dalle costruzioni (opere stradali, fabbricati, ferrovie, porti e aeroporti) che, nella composizione, è scesa dal 56,9% del 2009 al 54,3% del 2015. I prodotti di proprietà intellettuale, per esempio gli investimenti diretti in R&S, in software e in database o il loro acquisto sul mercato, sono aumentati dal 20,6% al 28,5 per cento. A calare sensibilmente – dal 12 all’8,6% – sono gli impianti e i macchinari e sono le spese militari (dal 10,6% all’8,6%).

Nel gioco del biliardo fra i numeri, appare utile porre in relazione la dinamica degli investimenti con la dinamica della spesa pubblica totale. La quale, dal 2008 al 2015, è salita da 781 a 828 miliardi di euro. Quarantasette miliardi in più. Il 6% in più. Negli stessi anni, gli investimenti sono scesi di un quarto secco. Gli investimenti in percentuale della spesa pubblica totale sono scesi dal 6,74% al 4,44% e, in percentuale di quella in conto capitale, dal 66,31% al 54,11 per cento. L’influente saggio di Mariana Mazzucato, Lo Stato Innovatore (Laterza), non è proprio sul comodino delle classi dirigenti italiane, brave a fare correre la spesa corrente e a fare lievitare il debito, a patto però che gli investimenti scendano.

IL CONFRONTO EUROPEO
L’Europa dell’austerity investe. Naturalmente, in misura bipolare. Germania e Francia aumentano il loro livello di investimenti fissi lordi. Spagna e Italia vanno in direzione opposta. L’aggregato dell’Unione europea a 15 Stati mantiene a un livello stabile questo particolare tipo di spesa: nel 2008 era pari a 393 miliardi di euro (il 3,3% del Pil), nel 2009 è salita a 408 miliardi per poi scendere gradualmente a 371 miliardi nel 2015, con la prospettiva di una risalita che, nel 2018, dovrebbe riportare la cifra consolidata a 391 miliardi di euro, secondo le stime della Commissione europea contenute in “European Economic Forecast- Autumn 2016”. La Germania, dal 2008 al 2015, ha destinato agli investimenti una quota compresa fra il 2,1 e il 2,3% del Pil: con Pil crescente, questo ha comportato anno dopo anno miliardi di euro in più in investimenti, fino ai 64,4 del 2015, con la prospettiva di sfondare nel 2018 il tetto dei 75 miliardi. La Francia, senza farsi condizionare dall’andamento dell’economia nazionale, ha stanziato ogni anno sostanzialmente la stessa cifra, compresa fra gli 80 e gli 84 miliardi di euro (fra il 3,5% e il 4% del Pil). La Spagna, uno degli epicentri della crisi europea, ha dimezzato gli investimenti: dai 51,5 miliardi del 2008 (il 4,6% del Pil) e dai 55,1 miliardi del 2009 (addirittura il 5,1% del Pil) ai 27 miliardi del 2015 (il 2,5%), che scenderanno a 26 miliardi nel 2018. L’Italia li ha, appunto, ridotti di un quarto.

LA COMPOSIZIONE DELLA RICCHEZZA
Il Pil procapite è sceso dai 27.841 euro del 2008 ai 26.551 euro del 2014: 1.290 euro in meno. Il punto è la composizione di questo reddito, evidenziata dal centro studi ImpresaLavoro: la quota privata è scesa dal 48% del 2008 al 45% del 2014. Dunque, aumenta la nostra dipendenza dalla spesa pubblica. Che, però, è una spesa pubblica non finalizzata soprattutto agli investimenti, ma rivolta in particolare al mantenimento della macchina burocratica e all’erogazione dei servizi che tutto sono, tranne che uniformi e di qualità coerente.

Il problema è questo. Tanti soldi al cavallo, che beve e mangia enormi quantità di acqua e di biada, con prestazioni però assolutamente diverse – nella gara strategica dell’erogazione dei servizi ai cittadini e alle imprese – a seconda dei posti. Il working paper del Fondo Monetario Internazionale “Does Public Sector Inefficiency Constrain Firm Productivity: Evidence from Italian Provinces” taglia la testa al toro, con la avalutatività oggettiva delle analisi econometriche, a ogni disquisizione o dibattito sul differente livello di qualità dei servizi.

Spiega a questo proposito l’economista Paolo Ermano, che lavora all’Università di Udine e collabora con il centro studi Impresa Lavoro: «Un’impresa che opera in un settore la cui dipendenza dal pubblico è più alta della media dei settori analizzati e che si trova in una provincia con un livello di efficienza superiore alla media delle provincie analizzate vede, per ogni euro speso in stipendi, aumentare la produttività dell’11,3% e il valore aggiunto sull’output dell’8,6%, rispetto al caso in cui operasse in una provincia a scarsa efficienza».

L’EQUAZIONE, LE ELITE E GLI ITALIANI
In Italia, il bianco convive con il nero. A fronte di un debito pubblico superiore ai 2mila miliardi di euro, ci sono 8.730 miliardi di euro di attivi (dato al 2014), come spiega il rapporto della Banca d’Italia La ricchezza delle famiglie italiane. Con la sua capacità di produrre contraddizioni, dunque, il nostro Paese ribalta il motto “Il convento è ricco, i monaci sono poveri”. Da noi i monaci sono (per ora) ricchi, perché i monaci – gli italiani – hanno scaricato sul convento – i conti pubblici – gli scontrini non pagati da consumatori e le evasioni e le elusioni fiscali realizzate con le loro aziende, le pensioni a cinquant’anni senza alcuna corrispondenza con i contributi versati e i prepensionamenti a 48 anni, che negli anni Ottanta e Novanta hanno costituito il principale ammortizzatore sociale del sistema consociativo fra le forze politiche, le rappresentanze degli imprenditori e i sindacati. Da noi, la spesa pubblica è eccessiva. I servizi pubblici sono pencolanti – e pericolanti – fra le poche eccellenze e le moltissime mediocrità. Da noi, c’è il calo degli investimenti. Il problema non è tanto che il debito pubblico cresca e che il Pil abbia dinamiche asfittiche. Il problema è che, con il pilota automatico, vengono tagliate le spese pubbliche a più alta produttività e che nessuno – nessuno – è mai riuscito a incidere sullo Stato quale pessimo fornitore di servizi.

Nel 1977 Laterza pubblicava l’Intervista sul non governo a Ugo La Malfa di Alberto Ronchey. La Malfa e Ronchey, in merito ai pesi storici che gravavano sulla Italia a loro contemporanea, citavano Comte: «I morti governano i vivi».Quarant’anni dopo, i morti congiurano insieme ai vivi. L’insostenibilità delle cose non è tanto – o soltanto – nelle equazioni matematiche. L’insostenibilità è nel meccanismo di finanza pubblica che si nutre – e allo stesso tempo viene nutrito – dal fallimento storico delle nostre classi dirigenti e – in fondo – dall’irresponsabilità civile della maggioranza degli italiani.

Contenziosi in materia di lavoro: con una durata pari alla media europea, disoccupazione giù di 5,7 punti percentuali

Contenziosi in materia di lavoro: con una durata pari alla media europea, disoccupazione giù di 5,7 punti percentuali

La disoccupazione in Italia potrebbe calare di 5,7 punti percentuali se solo i contenziosi in materia di lavoro avessero una durata in linea con la media europea (e quindi dimezzata). Il dato emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dagli “Staff Report, Article IV Consultation / Italy” pubblicati annualmente dal Fondo Monetario Internazionale.

Nel report dell’anno 2014 l’organismo sovranazionale sosteneva che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia avrebbe aumentato le probabilità di impiego di circa l’8 per cento. Secondo il FMI, infatti, il nostro sistema giudiziario, da sempre molto più lento della media europea, avrebbe necessitato già al tempo di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio, quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovavano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Nell’ultimo report, pubblicato a luglio 2016, l’ente sovranazionale ha indicato nuovamente tra le linee guida per l’Italia la necessità di mettere in atto ulteriori riforme al sistema giudiziario, apprezzando comunque le azioni adottate di recente per il miglioramento della qualità del sistema stesso con conseguente riduzione della durata media dei processi.

In Italia la durata media delle cause è di un anno e 2 mesi, come risulta a ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal Ministero della Giustizia. Va precisato che quest’ultimo, rispetto alle precedenti pubblicazioni, ha variato la modalità di divulgazione dei dati quindi il confronto attuale è diverso da quello che è stato possibile effettuare in passato. Il calcolo dell’indicatore di lunghezza media complessiva è comunque aggiustato sulla base dei suggerimenti provenienti dalla letteratura scientifica, che considerano anche l’effettiva percentuale di cause che si interrompono dopo il primo grado. In particolare, sono state considerate le rilevazioni ufficiali riferite ai 26 distretti giudiziari italiani negli anni 2014-2016: numero di nuovi procedimenti, numero di procedimenti conclusi e numero di procedimenti ancora pendenti. I dati sono stati successivamente incrociati con quelli relativi alla disoccupazione su base territoriale rilevata dall’Istat per l’anno 2015.

La correlazione tra la lunghezza dei processi per contenziosi in materia di lavoro e il tasso di disoccupazione è dimostrata dall’analisi del divario in termini di efficienza nei singoli distretti giudiziari. Si oscilla dai 6 mesi di Trento (con un tasso di disoccupazione del 6,8%) e dagli 8 mesi di Genova e Trieste (con tassi di disoccupazione rispettivamente dell’8,3% e dell’8,1%) per arrivare ai 2 anni e 2 mesi di Messina (con il 22,5% di disoccupazione). A Milano, dove la disoccupazione è all’8%, il tempo medio delle cause per lavoro è di 7 mesi. La lunghezza dei contenziosi è invece superiore ai 2 anni anche a Catanzaro (22,4% di disoccupazione) e a Catania (16,2% di disoccupazione). In questa particolare classifica è proprio il Sud Italia a uscirne più penalizzato con valori sistematicamente più alti della media nazionale per entrambe le variabili prese in considerazione. La durata di questo tipo di processi supera infatti l’anno e mezzo a Cagliari (1 anno e 7 mesi), a Bari e a Potenza (1 anno e 8 mesi), a Reggio Calabria (1 anno e 9 mesi) e a Caltanissetta (1 anno e 10 mesi).

«Per chi vuole investire e fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo per determinare la riuscita o il fallimento della propria attività» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa di definire cause e contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza. Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori (stranieri e non), deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico».

L’Italia delle privatizzazioni mai completate

L’Italia delle privatizzazioni mai completate

di Massimo Blasoni

Completare il piano di privatizzazioni? In Italia resta una chimera. Di perdita effettiva del controllo pubblico di Poste, Enav o Ferrovie dello Stato ci si limita a parlare senza far seguire fatti concreti. Addirittura non manca qualche nostalgico della stagione d’oro delle partecipazioni statali. Le prime privatizzazioni italiane firmate Amato e Draghi datano 1992. All’epoca lo Stato controllava quasi interamente il sistema bancario e interamente quello ferroviario e aereo, le autostrade, il gas, l’elettricità e l’acqua, la telefonia, larga parte dell’industria siderurgica e altro ancora. Quel piano di privatizzazioni fu dettato dall’urgenza dei conti pubblici. Nacque così la stagione delle grandi dismissioni bancarie e assicurative, dal Credito Italiano alla Banca Commerciale Italiana. Poi fu la volta di Ciampi e di Telecom Italia. Nel 1999 il governo D’Alema privatizzò le autostrade e porzioni di Enel, conservandone però il controllo. Resta ancora molto da fare, soprattutto occorre convincersi che tra i compiti dello Stato non deve esservi la gestione delle imprese.

Di recente, per un paio d’anni, si è parlato di quotare e dismettere fino al 40% del capitale di Ferrovie dello Stato, ancora interamente in mano al Ministero dell’Economia. Adesso l’obiettivo sembra limitarsi a portarne in Borsa soltanto la divisione a lunga percorrenza (Frecce e Intercity), rendendo flottanti solo quote di minoranza. La controllata Rete Ferroviaria Italiana, che gestisce i binari, dovrebbe invece restare saldamente in mano pubblica. Si tratta di un’operazione dai tempi ancora indefiniti e che comunque dovrebbe portare nelle casse dello Stato solo un miliardo dei 3-4 inizialmente previsti. Non va dimenticato che FSI vive di interventi pubblici, riceve circa 12 miliardi all’anno tra sussidi alla rete ferroviaria, ai servizi, agli investimenti e al fondo pensioni. Per quanto riguarda invece Poste, lo Stato al momento ne controlla il 64,7% tramite Ministero delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Nell’ottobre 2015 una prima tranche di privatizzazione ne ha collocato sul mercato il 35,3%, ottenendo un ricavo di 3,1 miliardi. La collocazione della tranche successiva (29,7%) continua ad essere rinviata, dovrebbe valere tra i 2 e i 3 miliardi. E che dire della dismissione o chiusura delle ottomila società partecipate di Comuni e Regioni? Tutto langue nei Ministeri.

Resta da rispondere al quesito: perché completare le privatizzazioni? Citerò due ragioni. La gestione politica di una società pubblica spesso non ha come obiettivo l’efficienza e su di essa pesano costi impropri volti a creare consenso e a mantenere clientele, con svantaggi e disavanzi a carico dei consumatori/contribuenti. La seconda ragione è che le privatizzazioni consentono allo Stato di introitare il denaro derivante dalle cessioni senza che per questo motivo venga a cessare il servizio a vantaggio dei cittadini. Si tratta di risorse di cui avremmo grande bisogno ad esempio per ampliare e innovare la rete di infrastrutture viarie e digitali del nostro Paese. Risorse utilissime, che ovviamente occorre spendere bene. Esattamente quello che non si è fatto con i proventi delle privatizzazioni del passato, finiti perlopiù ad alimentare il fiume inesauribile della spesa corrente.

Le Regioni a statuto speciale Eden dei dipendenti pubblici

Le Regioni a statuto speciale Eden dei dipendenti pubblici

di Adriano Scianca – La Verità

Ma che ci dovrà fare mai, la Valle d’Aosta, con il doppio dei dipendenti pubblici della Lombardia? Parliamo di dati in percentuale rispetto agli abitanti, sia chiaro, eppure tutti questi impiegati dispersi in mezzo alle placide montagne sembrano un po’ messi lì a caso, soprattutto se li paragoniamo ai dipendenti pubblici in servizio nella Regione della capitale economica d’Italia. Non è peraltro l’unico paradosso della Pubblica amministrazione italiana. Ne emergono un bel po’, infatti, dalla ricerca del centro studi ImpresaLavoro (presieduta dall’imprenditore Massimo Blasoni) su elaborazione di dati Istat e della Ragioneria generale dello Stato.

In rapporto a popolazione residente, i 3 milioni e 142.000 dipendenti pubblici italiani sono inferiori a quelli delle altri grandi economie europee ma la loro distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, nemmeno rispetto al numero degli occupati. A fronte di una media italiana del 5,18%, sono le Regioni a statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 11.519 dipendenti, pari al 9,05% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (78.344 dipendenti, pari al 7,40% dei residenti), Friuli Venezia Giulia (82.380, pari al 6,75% dei residenti) e Sardegna (109.036 dipendenti, pari al 6,53% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (380.284. dipendenti, pari al 6,46% dei residenti). In fondo a questa particolare classifica si collocano invece Regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come la Lombardia (4,02%) e il Veneto (4,51%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (4,82%), Piemonte (4,86%), Emilia Romagna (5%), Puglia (5%) e Marche (5,17%).

La classifica elaborata da ImpresaLavoro cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. Al primo posto troviamo la Calabria, con il 22,03%: praticamente, dalle parti della Sila, più di un occupato su quattro è un impiegato statale.Un vero e proprio «lavorificio» che sembra creato più per sistemare le persone che per amministrare una regione che, pure, di problemi da risolvere ne avrebbe. Subito dietro si colloca ancora la Valle d’Aosta, con il 21,01% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (13.99%): Sicilia (19.95%), Sardegna (19,30%), Molise (18,06%), Campania (17,89%), Basilicata (17,87%) e Puglia (17,42%) seguite a distanza ravvicinata dal Friuli Venezia Giulia (16,62%) che registra uno dei valori più alti di tutto il Centro-Nord. In coda alla classifica troviamo invece Lombardia (9,44%), Veneto (10,80%), Emilia-Romagna (11,59%) e Piemonte (11,90%).

In compenso viene smentito il luogo comune per cui l’Italia avrebbe più dipendenti pubblici del resto dei Paesi industrializzati. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la solita Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici (9,05%) superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (7,90%). Mentre la media italiana (5,18%) risulta più bassa di quella di Spagna (6,40%) e Germania (5,70%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca. Le cose cambiano, ma solo marginalmente, quando ImpresaLavoro prende in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, solo le percentuali di Calabria e Valle d’Aosta sono superiori a quella della Francia (20%). La percentuale di dipendenti pubblici in Italia (13,99%) è invece inferiore a quella di Regno Unito (17%) e Spagna (16%), superando solamente il dato della Germania (11%).

Insomma, l’impressione è che il vero gap, rispetto alle altre pubbliche amministrazioni, non sia tanto nella sostanza, quanto nell’organizzazione. E poi c’è il nodo, tutto italiano, delle Regioni a statuto speciale. Vere sanguisughe, per lo Stato. È di giovedì scorso il rifiuto, da parte delle Regioni «speciali» di farsi carico dei tagli alla sanità, cosa che potrebbe mettere a rischio l’erogazione dei nuovi Livelli essenziali di assistenza per tutte le altre Regioni. È stato calcolato che su mille euro versati al fisco dal cittadino di una Regione a Statuto ordinario ne rientrano più o meno 200. A un residente di una regione a Statuto speciale tornano invece ben 900. Ora scopriamo che hanno anche un esercito di dipendenti pubblici che a confronto la Germania è il Gabon. Qualcosa, nella Pubblica amministrazione, va rivista.

I prezzi in Italia

I prezzi in Italia

La Banca centrale europea ha pubblicato a gennaio un utile saggio sull’andamento dei prezzi in Italia (“Changing Prices….Changing Times; Evidence for Italy”, Working Paper n. 2002 ) di Mario Porqueddo e Silvia Fabiani. Distribuito dalla Bce, è anche scaricabile dal sito dell’Istituto. Lo studio parte dall’assunto che il meccanismo della formazione dei prezzi e del loro aggiustamento ha importanti implicazioni macro-economiche specialmente per le fluttuazioni cicliche, i tassi di cambio reali e la politica monetaria.

La letteratura empirica è peraltro diventata molto vasta. Una particolare importanza ha lo studio condotto dal Sistema europeo di banche centrali “Inflation Persistent Network” e che esamina il grado di rigidità dei prezzi misurato in termini di frequenza, ampiezza e direzione degli aggiustamenti. Nell’area dell’euro, la flessibilità dei prezzi è risultata molto eterogenea a seconda dei prodotti: la frequenza degli aggiustamenti è stata dal 28% per i generi alimentari sino al 78% per i prodotti dell’energia. Nel quadro europeo, l’Italia è stato uno dei Paesi dell’area dell’euro più rigidi: solo il 10% dei prezzi dei prodotti cambiavano ogni mesi mentre nell’eurozona l’indicatore si poneva al 15%

Il lavoro analizza se in Italia i meccanismi di formazione e di aggiustamento dei prezzi sono mutati nel corso del periodo preso in considerazione. In particolare, se in un contesto di protratta stagnazione economica e una doppia recessione che ha depresso i consumi, c’è stata o meno una maggiore flessibilità dei prezzi nominali, anche al ribasso. Nel lavoro, la flessibilità viene misurata dal durata del periodo in cui i prezzi tendono a restare stabili o, di converso, la frequenza e la direzione del cambiamenti. L’accento è sulla natura (e la direzione) degli aggiustamenti durante le due recessioni del 2008-09 e del 2011-20113. Il campione riguarda 960.000 prezzi per 49 categorie di beni e servizi. Tralasciando la parte metodologia, le principali conclusioni sono le seguenti:

a) tra il 2006 ed il 2013 la durata media di prezzi stabili è stata tra i 4 ed i 6 mesi, circa 3 mesi meno che nel periodo 1996-2001. Circa il 15% dei prodotti è cambiato ogni mese in media, mentre i prezzi dei servizi sono rimasti stabili per circa un anno;

b) Esiste una differenza in flessibilità nominale a seconda della categoria dei prodotti. I prezzi dei prodotti energetici e circa un terzo di quelli degli alimentari non trattati cambiano in pratica ogni mese, a differenza dell’11% degli alimentari trattati e del 6% di quelli dei servizi.

Accise, ImpresaLavoro: gettito aumentato di 5 miliardi negli ultimi 5 anni

Accise, ImpresaLavoro: gettito aumentato di 5 miliardi negli ultimi 5 anni

Il gettito per accise nel nostro paese è aumentato di 5 miliardi tra il 2011 e il 2016, una vera e propria stangata nascosta tra i consumi di famiglie e cittadini. A renderlo noto è una ricerca effettuata dal Centro Studi ImpresaLavoro.

Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello stato 20,4 miliardi nel 2011. Gli aumenti successivi hanno fatto crescere questa cifra del 24,7% in soli 5 anni portando il gettito del 2016 a poco più di 25 miliardi di euro, una cifra sostanzialmente stabile negli ultimi anni (25,6 miliardi nel 2015; 26,2 miliardi nel 2014; 24,3 miliardi nel 2013). Numeri che dovrebbero far riflettere e convincere il governo a non inasprire ulteriormente il prelievo statale su questo comparto nel tentativo di corrispondere alle richieste della Commissione Europea sull’equilibrio della nostra finanza pubblica.

Il prezzo della nostra benzina è già oggi il terzo più caro d’Europa. Con 1,5437 euro al litro, il costo del nostro carburante è del 11,52% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 9,27% in più rispetto alla Francia e il 10,50% in più rispetto alla Germania. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Olanda e Grecia con un costo al litro rispettivamente di 1,5720 e 1,5460 euro.

Il prezzo pagato dai consumatori finali risente fortemente della componente relativa a tasse e accise. Nel nostro paese il prelievo statale rappresenta il 65,22% del prezzo finale contro il 62,34% della media europea e il 54,45% della Spagna, il 62,82% della Germania e il 63,34% della Francia.

Attualmente incidono sul prezzo del carburante ben 17 diverse accise, deliberate dal 1935 ad oggi. Paghiamo con la benzina le voci di spesa più disparate: dalla Guerra di Etiopia all’acquisto di autobus ecologici; dal Rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 all’emergenza migranti causata dalla crisi libica. Senza dimenticare che attraverso l’aumento delle accise si sono affrontate le principali emergenze italiane: dal più recente terremoto in Emilia (2012) fino ai terremoti in Friuli (1976) e Irpinia (1980) o alle alluvioni di Firenze (1966) e Liguria (2011). In molti casi si tratta chiaramente di voci di emergenze concluse ma su cui comunque continuiamo a versare allo stato importanti risorse ogni qualvolta facciamo il pieno di benzina alla nostra auto.

“Il ricorso all’aumento delle accise sui carburanti – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – è un sempreverde italiano. Non c’è Governo o Ministro dell’economia che non sia ricorso a questo espediente per fare cassa. Un prelievo straordinario e giustificato spesso da emergenze contingenti che finisce per trasformarsi in una tassa perenne, silenziosa e per questo meno dibattuta ma che incide sui bilanci delle famiglie italiane indipendentemente dal loro reddito e, quindi, con poca equità.”

Ogni anno la benzina ci costa rincari per 1 miliardo di euro

Ogni anno la benzina ci costa rincari per 1 miliardo di euro

di Francesco Borgonovo – La Verità

Come spesso accade, siamo i migliori carnefici di noi stessi. Ieri, con abile mossa propagandistica, Padoan e il direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, hanno tenuto una conferenza stampa per dire che grazie alla «lotta all’evasione› nel 2016 sono stati recuperati 19 miliardi. Probabilmente, viene da dire, sarebbero stati anche di più se con le grandi multinazionali della tecnologia si fosse tenuto un atteggiamento diverso, invece di regalare sconti agli amici potenti. Ma tant’è. Quello dell’anno passato, per l’erario, è stato «un gettito record», poiché sono stati incassati «oltre 450 miliardi secondo le prime stime, rispetto ai 436 miliardi del 2015 e ai 419 del 2014». Viene un po’ difficile credere che le tasse non siano aumentate, visto che sono entrati più soldi in cassa (la lotta all’evasione, da sola, non basta a spiegare il dato reso noto ieri). Insomma,quando si parla di tasse non c’è molto da fidarsi delle dichiarazioni che arrivano dall’alto e il motivo è semplice: non passa anno senza che il costo del carburante aumenti a causa di nuove gabelle.

Non è solo colpa dell’Europa, ovviamente. I politici italiani agiscono cosi da sempre: quando non sanno dove prendere denaro, corrono ad aumentare le accise. Le tabelle realizzate dal centro studi ImpresaLavoro mostrano i vari aumenti (ben 17) messi in atto nel corso dei decenni, a partire da quello, ormai famigerato, utile a finanziare la guerra d’Etiopia del 1935-1936. Le motivazioni sono le più diverse: dalla crisi di Suez del 1956 al disastro del Vajont del 1963, fino all’acquisto di autobus ecologici (2005) e sostegno ai terremotati dell’Emilia (2012). Ma al di là delle curiosità storiche, nello studio dell’associazione presieduta dall’imprenditore Massimo Blasoni ci sono parecchi altri dati. Numeri che fanno arrabbiare, poiché danno la misura di quanto incida sulle nostre esistenze questo Stato ormai ridotto a invadente moloch burocratico.

«Il gettito per accise nel nostro Paese è aumentato di 5 miliardi tra il 2011 e il 2016», scrivono i ricercatori di ImpresaLavoro. «Una vera e propria stangata nascosta tra i consumi di famiglie e cittadini. Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello Stato 20,4 miliardi nel 2011. Gli aumenti successivi hanno fatto crescere questa cifra del 24,7% in soli 5 anni portando il gettito del 2016 a poco più di 25 miliardi di euro, una cifra sostanzialmente stabile negli ultimi anni (25,6 miliardi nel 2015; 26,2 miliardi nel 2014; 24,5 miliardi nel 2013)». E come se non bastassero i 5 miliardi in più prelevati ai contribuenti nell’ultimo quinquennio, ora si pensa ad altri aumenti. Tutto questo fa ancora più infuriare quando si va a paragonare la situazione italiana a quella degli altri Paesi. Già oggi (dunque senza ulteriori possibili rincari) il prezzo de nostra benzina è il terzo più caro del Vecchio Continente.

«Con 1,5437 euro al litro», dice ImpresaLavoro, «il costo del nostro carburante è del 11,52% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 9,27% in più rispetto alla Francia e il 10,50% in più rispetto alla Germania». A precederci in cima alla classifica dei prezzi ci sono soltanto l’Olanda (1,572 euro al litro) e la Grecia (1,546 euro). Sul costo finale, l’incidenza delle tasse e delle accise è micidiale: nel nostro Paese lo Stato influisce per il 65,22% del prezzo finale contro il 62,34% della media europea e il 54,45% della Spagna, il 62,82% della Germania e il 63,34% della Francia. Non stupisce che altri Paesi più ricchi paghino meno il carburante, visto che noi continuiamo a versare denari per emergenze già ampiamente concluse (nella realtà, perché nella mente confusa dei burocrati sono ancora in atto).

«Il ricorso all’aumento delle accise sui carburanti», commenta Massimo Blasoni, «è un sempreverde italiano. Non c’è governo o ministro dell’Economia che non sia ricorso a questo espediente per fare cassa. Un prelievo straordinario e giustificato spesso da emergenze contingenti che finisce per trasformarsi in una tassa perenne, silenziosa e per questo meno dibattuta ma che incide sui bilanci delle famiglie italiane indipendentemente dal loro reddito e, quindi, con poca equità». Difficile dargli torto. Tanto più che il discorso degli aumenti non vale soltanto per la benzina, ma pure per il diesel. Da noi costa il 12,06% in più rispetto alla media europea; il 10,59% rispetto alla Francia, addirittura il 17,07% rispetto alla Germania. Solo in Svezia e nel Regno Unito (per motivi diversi) il diesel costa di più: di nuovo, siamo sul podio dei peggiori del continente, almeno per quanto riguarda il costo del carburante.

È interessante notare, poi quale sia l’incidenza delle tasse sul prezzo finale del diesel, perché in questo frangente diamo veramente il meglio. Le tasse pesano sul costo finale per il 62,28%, e peggio di noi riesce a fare solo la Gran Bretagna. Siamo al terzo posto fra i Paesi con il diesel più costoso, ma al secondo per maggior numero di tasse. Veramente un bel record, un risultato di cui essere estremamente fieri. I nostri vicini austriaci, per dire, pagano il diesel il 24,48% in meno rispetto a noi. Per non parlare della benzina, che in Austria costa il 30,6% in meno rispetto all’Italia (gli sloveni si devono accontentare: pagano il pieno «solo» il 18,97% in meno di noi se si tratta di benzina; il 17,4.2% nel caso del diesel). Che Padoan decida o meno di aumentare il prelievo, il quadro della situazione è piuttosto cupo. Paghiamo ancora la guerra in Libano del 1983 e la missione in Bosnia del 1996. Altri spiccioli da destinare a Bruxelles sarebbero solo l’ultima delle fregature.