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Il nuovo catasto fa paura, e il Governo lo rinvia

Il nuovo catasto fa paura, e il Governo lo rinvia

di Sara Dellabella – L’Espresso

Rimandata. Dopo un lungo lavoro parlamentare, il governo ha scritto nell’ultimo Documento di economia e finanza che ci vorranno ancora due anni per aggiornare i valori catastali delle abitazioni e riformulare la base imponibile non più sul numero dei vani, ma sulla superficie per metro quadro. La riforma del catasto potrebbe pesare come un macigno su chi possiede una casa. Pochi giorni fa, i ricercatori di ImpresaLavoro hanno infatti stimato che nel 2016 si pagheranno 49,1 miliardi di tasse sul mattone, circa 11,4 miliardi in più rispetto al 2011, quando a gravare sui bilanci familiari c’era l’Ici.

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Globalizzazione, competizione tributaria e la crisi fiscale dello Stato sociale

Globalizzazione, competizione tributaria e la crisi fiscale dello Stato sociale

In questi giorni in cui è molto acuta la querelle tra la Commissione Europea, il Governo della Repubblica d’Irlanda e la Apple vale la pena riprendere in mano un lavoro di Reuven S. Avi Yonah (un giurista della Law School della Università del Michighan) inizialmente pubblicato nel lontano maggio del 2000 nella Harvard Law Review ma di recente aggiornato: Globalization, Tax Competition and the Fiscal Crisis of the Welfare State.

Il paper parte dalla constatazione che l’attuale globalizzazione è molto differente dalla precedente – quella tra il 1870 ed il 1914) in quanto caratterizzata da una mobilità molto più elevata del capitale che del lavoro mentre tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, prima che venissero posti limiti all’immigrazione, il lavoro era almeno tanto mobile quanto il capitale. La mobilità del capitale è il risultato del progresso tecnologico (la possibilità di spostare somme enormi in via elettronica) e della fine dei controlli valutari. La mobilità del capitale è strettamente legata alla competizione tributaria, in base alla quale gli Stati sovrani possono ridurre le tasse e le imposte su soggetti (individui, famiglie ed imprese) nei loro confini al fine di attirare investimenti in portafoglio e diretti. La competizione tributaria, a sua volta, rappresenta una minaccia per il gettito da tasse ed imposte su individui ed imprese che tradizionalmente hanno alimentato i moderni stati sociali.

La risposta iniziale dei Paesi avanzati è stata quella di spostare l’onere tributario dal capitale (più mobile) al lavoro (meno mobile). Quando l’aumento della tassazione sul lavoro è apparso non più sostenibile (senza danneggiare seriamente l’occupazione), si è tentato di ridurre tutele lavoristiche e previdenziali. Ma anche questi tentativi si sono scontrati con opposizioni politiche e sociali. Quindi, la globalizzazione e la competizione tributaria causano crisi fiscali a Paesi che vogliono continuare a fornire ai loro cittadini servizi sociali al tempo stesso in cui le tendenze demografiche, le diseguaglianze, il mercato del lavoro rendono tanto più necessaria una rete di tutele. L’esito è l’aumento delle pressione per reintrodurre controlli sui capitali con il rischio di ridurre crescita e benessere a livello mondiale. Se si vuole mantenere l’internazionalizzazione dei mercati e la rete di tutela sociale occorre ‘limitare la competizione tributaria in modo congruo con la capacità di Stati democratici di determinare il perimetro desiderabile dei loro settori pubblici.

Questo è il punto essenziale. Ed è un punto squisitamente politico. Può la Commissione Europea (organo tecnico) diventare al tempo stesso organo politico e magistratura per decidere su quale competizione tributaria è legittima o non legittima sino a quando gli Stati membri non hanno concluso un trattato in materia?

Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

 

di Francesco De Dominicis – Libero

Il bollino blu sulla crescita zero nel secondo trimestre, sfoderato venerdì dall’Istat, ha riaperto un tema essenziale. Quanto sono attendibili le previsioni economiche? Secondo le statistiche ufficiali, il prodotto interno lordo, in Italia, si attesta per ora allo 0,8%: tutto questo scommettendo sull’assenza di rallentamenti tra giugno e dicembre di quest’anno (e i segnali registrati a luglio e agosto, complessivamente, non sono proprio positivi). Sta di fatto che quel più 0,8% tendenziale è, in ogni caso, un valore decisamente più basso rispetto alla stime del governo. Stime che, come ha spiegato ieri il Centro studi ImpresaLavoro, si rivelano sempre meno precise: dal 2002 al 2016, in 14 casi su 15 le indicazioni ufficiali dell’esecutivo non sono state «azzeccate». E solo due per difetto. Sfortuna? No, la cabala non fa parte di questa faccenda.

Spieghiamo. Torniamo al pil e alle indicazioni di palazzo Chigi. A settembre del 2015, nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che per prassi «accompagna» la presentazione della legge di stabilità, il Tesoro aveva «previsto», per quest’anno, una crescita del pil dell’1,6% (esattamente il doppio rispetto al ritmo a cui viaggia attualmente la nostra economia). Undici mesi fa, più di qualcuno aveve dubitato sulle probabilità che il pil potesse raggiungere una vetta così alta: del resto, il 2014 era stato chiuso in territorio negativo (-0,4%) e il 2015 si apprestava a riportare il pil in positivo dopo diversi anni, ma con uno zero virgola non entusiasmante (a dicembre sarà appena più 0,9%). L’Italia cominciava a respirare, ma l’onda lunga della crisi non era ancora stata superata del tutto. Di qui, i dubbi: uno dopo l’altro, dalle grandi organizzazioni di categoria ai principali enti internazionali (Fmi, Ocse e non solo) hanno smontato i numeri del governo. Ragion per cui, già ad aprile, lo stesso Tesoro ha tagliato le stime del pil, portandolo dall’1,6% all’1,2%. Niente da fare: nella migliore delle ipotesi, messa sul tavolo dallo stesso istituto di statistica, il pil si attesterà all’1%. Basterà, tuttavia, qualche fattore interno o ulteriori turbolenze internazionali, per far crollare anche questa stima. I segnali non lasciano ben sperare: vuoi il clima di fiducia di imprese e consumatori, vuoi l’effetto a catena di problemi internazionali.

C’è da dire che questa ondata di ottimismo eccessivo accomuna il governo di Matteo Renzi ai vari esecutivi che si sono succeduti a partire dal 2002 (Berlusconi un paio di volte, Prodi, Monti, Letta). Nessuno, insomma, è stato infallibile con le stime e le previsioni. Hanno sbagliato tutti: nemmeno il governo di tecnici e di professori guidato da Mario Monti si è distinto per precisione. L’unico anno «preso»? Il 2007 (pil all’1,5%). Siamo al sesto anno consecutivo sballato: dal 2011 le previsioni sono state sovrastimate con scostamenti enormi. «Sulle ipotesi di crescita – spiega ImpresaLavoro – si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo». Il punto è proprio questo: nessuno ha il «coraggio» di dire la verità in anticipo, tant’è che, nel periodo in esame, non sono mai state presentate dai governi stime negative, nonostante il pil sia andato sotto zero per ben cinque volte (2008, 2009, 2012, 2013, 2014). A correggere il tiro – e i conti pubblici, con manovre di bilancio che portano più tasse per i contribuenti – si fa sempre in tempo. Prima, si spara grossa.

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Quattordici errori su quindici: con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2016. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso elaborate dal Fondo Monetario Internazionale.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Con la previsione di crescita dell’1,2% per il 2016 (a fronte di una stima del FMI che si ferma a +0,9%), siamo al sesto anno di fila in cui il governo prevede una crescita superiore a quella che poi effettivamente si registrerà. Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,3% di quest’anno al 4,1% del 2012.

Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

«Il fatto che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo la nostra crescita – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – è preoccupante. Sulle ipotesi di crescita, infatti, si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

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L’apriorismo di Mises

L’apriorismo di Mises

Un paper di Scott Scheall della Arizona State University (il working paper No.2016-23 del Center for Historical Political Economy) fa il punto su un tema molto dibattuto da liberali e liberisti: “Quanto è estremista l’apriorismo di Mises” (“What is Extreme about Mises” )?

Il saggio è breve ma succoso e merita di essere letto in una fase, come l’attuale, in cui anche esponenti (sino a poco tempo fa) del pensiero marxista si autoproclamano liberali. Scheall sottolinea che c’è qualcosa di “estremo nell’apriorismo di Mises”, soprattutto la sua giustificazione epistemologica che basa la teoria economica su alcuni elementi portanti “aprioristici”. I critici di Mises considerano l’epistemologia di Mises come basata su conoscenze ed affermazioni “aprioristiche” . Molti dei suoi sostenitori hanno ignorato o dato poco peso a questa critica. Quindi, la critica è diretta meno verso Mises e piuttosto verso la letteratura secondaria,ignorando che critici di rango hanno considerato estremista l’apriorismo di Mises. Una difesa debole perché l’estremismo apriorista è una virtù dei liberali veramente liberisti. Analogamente, Voltaire si considerava intollerante nei confronti degli intolleranti.

E per sorridere, il caos delle elezioni americane. Se vince Hillary per la prima volta due Presidenti andranno a letto alla Casa Bianca. Se vince Trump per la prima volta un miliardario bianco andrà ad abitare nella casa da cui è stata sfrattata una coppia nera.

Rottamare “#Adesso”

Rottamare “#Adesso”

di Massimo Blasoni – Il Foglio

Bonus e incentivi non paiono bastare a rianimare la timida crescita del nostro paese che difficilmente su base annua arriverà all’1 per cento. Al netto della congiuntura internazionale, nemmeno troppo sfavorevole se pensiamo al basso costo del denaro garantito dalla Banca centrale europea e a un prezzo delle materie prime che rimane contenuto, i consumi interni non ripartono. La prossima legge di Stabilità rappresenta per il governo e per il paese un passaggio fondamentale, ma guardare oltre l’“#adesso”, come consiglia di fare il Foglio, è altrettanto importante. Il dibattito di questi giorni sembra concentrarsi molto sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego e sul tema previdenziale. In un paese con il tasso di occupazione del 57 per cento (in Germania è del 75 per cento) il primo problema non può essere, però, quello di mandare più persone in pensione, anche se in molti casi sarebbe giusto. Dobbiamo accettare l’idea che gli sforzi vanno concentrati più che sul welfare immediato su iniziative che consentano il rilancio del paese. Questo vuol dire innanzitutto aiutare le imprese, non per fare un favore ai ricchi, ma perché questo è l’unico strumento per ripartire e dunque creare condizioni di migliore equità sociale per tutti negli anni a venire. Disperdere oggi le risorse per dare risposte a richieste puntuali significa paradossalmente accettare il lento declino del paese.

Per il medio termine serve dunque un New Deal liberale, soprattutto fiscale, in grado di rimettere in moto occupazione, investimenti e quindi consumi interni. Nessuno ha la bacchetta magica ma ci sono alcune cose che si possono fare subito e che disegnano una prospettiva di lungo periodo per la nostra economia. Proviamo a elencare alcune proposte, alternative tra loro e in luogo di quelle in discussione.

Il governo ha già in agenda una riduzione dell’Ires dall’attuale 27,5 per cento al 24. Secondo i documenti di finanza pubblica questo sconto costerà circa 3 miliardi di euro su base annua. È possibile e auspicabile osare di più, spingendosi ad abbassare la tassazione sui redditi di impresa al 18 per cento. Uno sforzo, questo, che richiederebbe risorse ulteriori per 6,5 miliardi di euro e porterebbe il nostro sistema economico ad avere un’imposizione sulle imprese più favorevole di quelle di Germania, Francia e Spagna. Secondo l’ultimo report sulla tassazione delle aziende elaborato da Kpmg, il “Basic Corporate Tax Rate” italiano è oggi del 31,4 per cento, leggermente al di sotto di quello francese (33,3) ma sensibilmente superiore a quello di Germania (29,7) e Spagna (25). Un taglio di 9,5 punti percentuali offrirebbe alle nostre imprese e agli investitori internazionali un livello di tassazione molto simile a quello attuale del Regno Unito (20 per cento). Può sembrare un paradosso ma potremmo diventare uno dei paesi più attrattivi di Europa per gli investimenti.

Il super-ammortamento al 140 per cento per l’acquisto dei beni aziendali, introdotto dal governo l’anno scorso, è un’ottima misura. Spinge le aziende a investire e consente, proprio in ragione degli investimenti, di ridurre il peso fiscale. Perché non avere molto più coraggio? Portare il super-ammortamento al 280 per cento e allargare la platea delle tipologie dei beni ricompresi costerebbe circa 2,5 miliardi. Si generano, però, effetti moltiplicatori: chi era in dubbio se investire è spinto a farlo perché gli conviene e questo significa innovazione e miglioramento della produttività: le cose di cui abbiamo più bisogno.

Cuneo fiscale e disoccupazione giovanile sono altri due grandi “mali” del nostro paese. È possibile creare le condizioni per cui assumere un giovane in Italia sia molto più vantaggioso che nel resto delle grandi economie europee? Certamente sì, agendo sulla leva previdenziale e immaginando contributi molto bassi all’inizio della vita lavorativa e che salgono al crescere dell’età. Si avvantaggerebbero sia le imprese sia i lavoratori, entrambi meno tassati. Ridurre di dieci punti percentuali l’aliquota contributiva sui giovani neoassunti può generare un fabbisogno finanziario iniziale di 2,5 miliardi annui. Siccome poi, però, le aliquote salirebbero, l’Inps finirebbe per incassare le stesse risorse con tempistiche diverse.

Nel lungo periodo, insomma, il fabbisogno finanziario si annullerebbe e la misura sarebbe interamente autofinanziata. Con l’aggiunta che un’intera generazione di Neet potrebbe finalmente avere una prospettiva di occupazione. Dovendo richiedere qualche margine di temporanea flessibilità, forse è meglio farlo investendo sui giovani.

Sul lato dei consumi, larga parte della manovra sarà assorbita dalla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia. Volendo giocare in contropiede, anche dando un segnale chiaro all’Europa, si potrebbe addirittura ipotizzare di andare oltre, non fermandosi al blocco degli aumenti delle aliquote Iva ma decidendo già oggi una loro riduzione per stimolare gli acquisti. Tagliare un punto di Iva costerebbe 4,2 miliardi di euro all’anno.

Ovviamente, se il coraggio a questo governo non mancasse, occorrerebbe affrontare il tema, che ora pare abbandonato, dell’eccessiva pressione Irpef nel nostro paese. Un taglio drastico sarebbe indispensabile. Attuarlo vorrebbe dire forzare la mano scommettendo sul futuro. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale: non è il tempo dei timidi aggiustamenti.

Mazzata sugli immobili: le tasse aumentano del 30%

Mazzata sugli immobili: le tasse aumentano del 30%

di Laura Cesaretti e Antonio Signorini – Il Giornale

Il nuovo fronte di guerra interna nel Pd è sul fisco. «Noi stiamo riducendo le tasse. Per i cittadini, troppo poco. Per alcuni politici, invece, le stiamo riducendo troppo. Non è fantastico?», scrive Matteo Renzi nella sua ultima e-news. E mette nel mirino la minoranza interna al suo partito, che – dice – con le sue uscite gli fa «mettere le mani nei capelli». È stato infatti Roberto Speranza, due giorni fa, a contestare le scelte del governo: «Inseguire ancora la riduzione fiscale rischia di essere un errore per la ripresa», dice il leader dell’area bersaniana, secondo il quale, invece di ridurre le tasse occorre puntare sugli investimenti. «Autorevoli esponenti della maggioranza (precisamente esponenti della minoranza del mio partito) – sferza il premier – intervengono per dire che bisogna smetterla di ridurre le tasse. Perché una parte dei politici italiani pensa che ridurre le tasse sia un errore». Per lui, invece, «ridurre le tasse è una priorità per l’Italia», e «numeri alla mano» è quanto il suo governo sta facendo e «continuerà a fare», rivendica facendo l’elenco: dagli 80 euro agli incentivi del Jobs Act, dall’Imu e Irap agricola alla Tasi sulla prima casa. Fino alla riduzione della tassa aeroportuale che ha consentito l’importante investimento di Ryan Air in Italia. Speranza, punto sul vivo, replica piccato: «Il tema del fisco è molto serio e non si può affrontare con le caricature come in queste ore fa purtroppo il segretario del Pd nei confronti della sua minoranza interna», scrive su Facebook. «Per me – prosegue – se togli la tassa sulla prima casa anche ad un miliardario, come purtroppo abbiamo fatto, commetti un errore grave».

La minoranza Pd difende un regime fiscale che ha introdotto una patrimoniale di fatto, concentrata sugli immobili e che costa ai contribuenti 11,4 miliardi di euro all’anno. Il calcolo arriva da un’analisi fatta ieri dal Centro studi ImpresaLavoro. Le misure introdotte dal governo, quelle criticate da Speranza, hanno comportato un calo del gettito fiscale dagli immobili del 6%. Quest’anno si attesterà a 49,1 miliardi. Ma rispetto al 2011 le tasse sulla casa sono cresciute del 30,2% pari, appunto, a 11,4 miliardi. Ad avere subito il maggiore incremento dal 2011 a oggi è la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata, mentre gli atti di trasferimento sono calati del 29% e quelle sul reddito immobiliare sono rimaste stabili, nonostante l’introduzione della cedolare secca sugli affitti. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio», che ha generato «incertezza deprimendo consumi e domanda interna».

 

Senza Tasi le tasse sulla casa scendono sotto 50 miliardi

Senza Tasi le tasse sulla casa scendono sotto 50 miliardi

da Repubblica

L’assenza della Tasi porta una tregua fiscale sugli immobili: secondo un’analisi pubblicata dal Centro Studi ImpresaLavoro, quest’anno – dopo il livello record raggiunto nel 2015 con un gettito di 52,3 miliardi di euro), gli introiti per le casse pubbliche derivanti dalla tassazione degli immobili si fermeranno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. “La pressione fiscale risulterà a fine anno comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento”, annotano gli estensori della ricerca.

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Le Olimpiadi hanno reso i carioca più felici?

Le Olimpiadi hanno reso i carioca più felici?

Con la chiusura il 21 agosto delle Olimpiadi di Rio è tempo di bilanci e di meditare sulla proposta di tenere a Roma i Giochi nel 2024.

E’ arduo pensare che sotto il profilo economico e finanziario siano positivi. Si tratterebbe di un eccezione clamorosa alle esperienze degli ultimi lustri. Le Olimpiadi non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Lo ha ricordato il primo agosto un editoriale del New York Times Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Indubbiamente ci possono ritorni politici, spesso a caro prezzo. Le Olimpiadi di Roma del 1960 vengono considerate come una delle determinante (non la principale) dell’ingresso dell’Italia in quello che allora si chiamava il consesso delle Nazioni.

I Giochi rendono più ‘felici’ coloro che li ospitano. Il 17 luglio, il DIW di Berlino ha pubblicato un discussion paper (il No. 1599) in cui nove accademici della London School of Economica, della Sorbona, e delle Università di Chicago, del Michigan e di Cornell University a Ithaca si chiedono se le Olimpiadi aumentano la felicità dei cittadini delle città dove si svolgono. La ricerca raffronta Londra, Berlino e Parigi nell’anno dei Giochi londinesi tramite una complessa indagine statistica e sociologica, con questionari discussi con 26.000 persone nel 2011, 2012 e 2013. In breve , c’è un forte balzo in avanti per i cittadini di Londra che, su una scala da 1 a 10) hanno visto aumentare la loro felicità da 1 a 4, nei mesi ‘olimpionici’ . L’effetto è stato di breve periodo: dopo nove mesi si era di nuovo in fondo alla scala.