evasione fiscale

Recuperi da evasione per 7,4 miliardi. Tutta repressione e zero prevenzione: va bene così?

Recuperi da evasione per 7,4 miliardi. Tutta repressione e zero prevenzione: va bene così?

di Mino Rossi

Nel corso del 2015 l’incasso dall’attività di contrasto all’evasione fiscale è stato di 7,4 miliardi di euro, dei quali 1,8 introitati sugli accertamenti arretrati tramite Equitalia. Il che equivale, nel complesso, a poco meno del 2% delle entrate tributarie totali (i dettagli sono consultabili qui). Ciò detto, vorrei esprimere più di una perplessità sul luogo comune per cui i recuperi da evasione siano la strada giusta nel contrasto all’evasione. Vale a dire: è davvero utile per il Paese concentrarsi in toto sull’aumento di quel 2 per cento, trascurando invece di presidiare il residuo 98 per cento? In altre parole, conviene davvero che la quasi totalità degli uomini anti-evasione siano impegnati nella repressione sul passato (a caccia di “recuperi”), mentre nel contempo sono pressoché zero le risorse dedicate a contrastare l’evasione corrente?

In effetti, dentro un sistema nel quale le entrate tributarie derivano quasi tutte da versamenti spontanei, decisi nel quantum dai cittadini stessi, non ha molto senso per lo Stato abdicare ai controlli di prevenzione sull’oggi, rimanere quindi indifferente alla evasione attuale, per farsi prendere la mano, nel contempo, dall’ingordigia dei recuperi sul pregresso (recuperi limitati per forza di cose a un’evasione “che fu”). A ben guardare, dunque, i miliardi introitati dal contrasto all’evasione (non troppi, in verità) sono il frutto malsano di un approccio profondamente sbagliato che porta molti più guai che vantaggi al sistema Paese. E che, invero, contribuisce in misura determinante a soffocare l’economia, sopratutto dei “piccoli”.

Tale scelta comporta infatti, da parte del Fisco, la rinuncia totale ai veri controlli, che sono quelli “in flagrante”, gli unici che sarebbero in grado, da un lato di evitare gli esiti funesti sulle imprese causati dal ricorso massivo agli accertamenti di tipo presuntivo (tecnica di per sé molto approssimativa e dunque fallace per definizione). E, dall’altro lato, di essere percepiti dal contribuente-tipo come dieci, cento volte più frequenti, e quindi di fare vera deterrenza, con effetti moltiplicativi sugli incassi erariali spontanei (cioè, su quel 98%).

Per questo è davvero auspicabile, nella fiscalità di massa, il varo di un regime su base opzionale che punti a una sensibile intensificazione dei controlli sul presente, la quale potrebbe essere bilanciata, verso chi si sottopone a questo meccanismo (anche accettando adempimenti più stringenti), dalla soppressione dei temutissimi (ma discutibilissimi) accertamenti presuntivi postumi. Io penso che la diffusione di massa dell’evasione, in Italia, sia invero un effetto generato esso stesso dalle illogiche modalità di contrasto tuttora vigenti. Che – per via di normative obsolete ereditate dal passato – vanno nella direzione di creare, piuttosto che eliminare, l’evasione fiscale diffusa. L’approccio più razionale, infatti, non può essere quello in uso oggi, che è finalizzato solo a punire e a castigare. Ma semmai quello diametralmente opposto, consistente nel presidiare serenamente il territorio, facendo percepire la presenza del Fisco mediante normalissimi controlli di prevenzione. Ovvero controlli riferiti agli scambi commerciali avvenuti sotto gli occhi del controllore (o, comunque, entro tempi ravvicinati rispetto alla trasgressione).

E’ vero, in Italia le partite Iva sono un’infinità, oltre 5 milioni, mentre il numero dei controllori, al confronto, è men che simbolico. Tuttavia, di fronte alla rivoluzione in atto delle tecnologie digitali, ma soprattutto, grazie al successo ottenuto di recente con alcune tecniche di prevenzione capillare basate sul coinvolgimento del privato nelle funzioni di controllo, questi vincoli di scala non possono più essere un tabù. A quest’ultimo riguardo, il primo riferimento è agli oltre 12 miliardi annui (sic!) sottratti alla delinquenza fiscale, e risparmiati dallo Stato in termini di minori truffe, grazie proprio alla collaborazione del privato. Stiamo parlando di una colossale evasione abituale, rimasta sottotraccia fino a oggi, perpetrata impunemente da centinaia di migliaia di partite Iva, e per oltre dieci anni sfuggita ai controllori del Fisco. La quale, tuttavia, dal 2010 in avanti è stata sventata con una misura banalissima a costo zero: il visto di conformità del commercialista (introdotto con l’articolo 10 del decreto legge n. 78 del 2009 in materia di false compensazioni – vedasi qui).
Purtroppo, a causa di un contesto normativo vecchio di quarant’anni, oggi l’Agenzia delle Entrate viene chiamata a intercettare le violazioni non all’istante, nel momento in cui esse si realizzano, ma dopo che addirittura sono passati alcuni anni dai fatti. Se però avviene per sistema che si mandano le verifiche solo a fatto compiuto, è già nelle cose la garanzia certa che i buoi siano già tutti scappati. E’ matematico. Giunti a questo punto, invero, nelle mani del Fisco come strumento di reazione resta solo la sterile (e consolatoria) “punizione/vendetta” (in questo caso attuata mediante l’arma cruenta delle presunzioni).

Insomma nella fiscalità di massa siamo purtroppo caduti in un circolo vizioso nel quale le cose stanno pressappoco così: durante l’anno in corso i contribuenti sono completamente incontrollati e quindi liberi di evadere quanto gli pare, mentre per gli anni passati è il Fisco che a sua volta, quasi per contrappasso, è libero di accertare, e addebitare a chiunque, qualsivoglia importo (grazie all’ammissibilità pressoché automatica del metodo ipotetico-presuntivo). In siffatto contesto, pertanto, l’evasione diffusa è indispensabile. Essa è la condizione prima senza la quale un sistema di contrasto in tal modo organizzato non può funzionare.

Sull’altare del tesoretto annuo, pertanto, il meccanismo odierno sacrifica non solo la vera lotta all’evasione (che, al contrario, necessiterebbe di controlli sul presente e addebiti su prove certe), ma anche la propensione a intraprendere degli autonomi. Verso i quali un Fisco così gioca, a prescindere, una funzione inibitoria e fortemente ostativa. Essendo percepito sovente come un orco-castigatore, anteposto persino alle sempre più spinose preoccupazioni di business. E’ pertanto urgente voltare pagina e liberare gli autonomi da questo tappo altamente nocivo. Conviene a loro (alla parte sana di essi, che sono la stragrande maggioranza), ma sopratutto al Fisco e, dunque, all’economia nazionale.

Abrignani: “In ritardo sulle riforme, ma adesso siamo sulla strada giusta”

Abrignani: “In ritardo sulle riforme, ma adesso siamo sulla strada giusta”

di Ignazio Abrignani*

Per spiegare l’insoddisfacente andamento del Pil italiano dall’adozione della moneta unica ad oggi, dobbiamo fare due riflessioni preliminari. La prima è di natura economica: l’Italia non doveva accettare il cambio lira/euro che poi è stato adottato. Non mi spingo fino a dire che il cambio sarebbe dovuto essere alla pari, ma certamente il cambio ha penalizzato fortemente l’economia italiana, dimezzando di fatto gli stipendi e comportando anche una brusca diminuzione dei consumi e un conseguente calo della produzione industriale. Questo errore ha avuto forti ripercussioni sull’economia italiana, soprattutto negli anni immediatamente successivi all’entrata nell’eurozona.

La seconda riflessione è che, rispetto agli altri paesi europei, noi soltanto da pochissimo abbiamo imboccato il sentiero delle riforme. E questo ha fatto la differenza. Una riforma come quella del “jobs act”, molto simile a quella fatta in Germania verso la metà dello scorso decennio, da noi è stata varata soltanto quest’anno. Le riforme dello stato che semplificano la vita dei cittadini, invece, sono ancora in fieri e dovrebbero essere approvate quest’anno. Questo ritardo, a mio avviso, ci ha penalizzato molto.

Se, come noi ci auguriamo, l’Europa continuasse ad avere un trend di crescita, grazie a queste riforme molto probabilmente potremmo riuscire ad agganciare questa ripresa. In ogni caso, la strada intrapresa è quella giusta: cercare di semplificare le regole per rendere tutto più semplice alle imprese e ai cittadini; cercare di far ripartire in l’economia attraverso una minor politica di rigore e una maggior politica di crescita e di consumo.

È comunque evidente che in questo contesto anche la pressione fiscale gioca un ruolo importante. Una pressione che però sconta anche l’alto costo per lo stato dell’apparato burocratico. Per ridurre la pressione fiscale si deve cercare di ridurre questo costo, soprattutto cercando di tagliare la spesa improduttiva (e mi sembra che con questo intervento sulle partecipate in qualche modo ci stiamo andando incontro). Poi bisogna sempre tenere a mente il fatto che la “spending review”, almeno all’inizio, non procura certo crescita, ma decrescita, perché nel momento in cui tagli stipendi e posti di lavoro, riduci necessariamente i consumi. Un altro aspetto fondamentale, infine, è quello del recupero dell’evasione fiscale. Soltanto abbassando il costo dello stato e cercando di far emergere il “sommerso” della nostra economia, si possono creare le condizioni per potersi permettere l’abbassamento (necessario) della pressione fiscale.

* deputato di ALA (Alleanza Liberalpopolare Autonomie) e componente della Commissione Attività produttive, Commercio e Turismo