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La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda

La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda

di Paolo Viana – Avvenire

Prenotazione delle visite via web, informazione online sulle cure disponibili, trasmissione telematica delle ricette da medico a farmacista. Il digital divide non è un muro invalicabile solo per chi ha una certa età, ma rappresenta un problema per tutta la Sanità italiana: lo attesta il rapporto del Censis e di Impresa Lavoro sulla sanità digitale che e stato presentato ieri a Roma e che ci offre una poco rassicurante immagine della solita Italietta aggrappata alle scartoffie. Certo, tra non  molto, si ridurrà la distanza che ci separa dai Paesi dell’Ue che investono di più in questo campo ma solo perché il Regno Unito, con il suo 4% (contro il nostro 1,2%) uscirà dalle statistiche comunitarie. Al contrario, investire nell’eHealth significa «rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca a  sumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute»: non siamo ancora alla centralità della persona che soffre, ma siamo già oltre l’approccio ragionieristico che usa falcidiare – indiscriminatamente – sprechi e diritti.

Siamo, però, ancora e solo ai buoni propositi: la realtà è invece quella che viene radiografata da questo rapporto, che vede la sanità italiana «ben al di sotto della media Ue» sia nella ricerca di informazioni online sui temi della salute da parte di cittadini (27° su 28 Paesi Ue + Islanda e Norvegia), sia nella prenotazione di visite mediche via web (12°, con il 10% contro il 36% della Spagna), sia nella percentuale di medici di famiglia che inviano attraverso la rete le prescrizioni ai farmacisti (17° con il 9% contro il 100% della Danimarca e il 99% della Croazia), sia, infine, nella condivisione delle informazioni tra medici e altri professionisti sanitari (su questo fronte siamo 14°). Se continueremo così, nel 2020 l’eHealth assorbirà solo l’1,36% del budget sanitario: si può raggiungere il 2% – limite più basso della media dei Paesi europei – solo investendo duemila milioni più di oggi, mentre per staccare il gruppo di coda l’investimento aggiuntivo dovrebbe superare i cinquemila; solo portandolo a 7.767 milioni, quindi con una spesa destinata alla sanità digitale di 15.243 milioni contro i 1.385 di oggi il ritardo sarebbe davvero colmato.

Censis e ImpresaLavoro sottolineano che un cambio di policy garantirebbe tra l’altro la riduzione delle prescrizioni e delle prestazioni non necessarie, una razionalizzazione delle spese e un miglioramento della stessa attività diagnostico-terapeutica: il Fascicolo Sanitario Elettronico e la Telemedicina permetterebbero di ottimizzare l’erogazione dei servizi e anche gli errori medici sarebbero meno frequenti. Si prevede anche un miglioramento nella gestione delle patologie croniche. Peraltro questo cambio di passo non può essere solo finanziario o infrastrutturale: secondo il rapporto, il vero “nodo” che strangola il sistema sanitario italiano è organizzativo e di governance – «la Sanità Digitale ha bisogno di svilupparsi ad un passo che la burocrazia non regge», scrivono Censis e ImpresaLavoro, spingendo implicitamente verso una rinazionalizzazione del sistema della salute – oltre che culturale, poiché non vi è investimento, si ammette, che non sia a rischio se non si riuscirà a garantire una vera partecipazione degli utenti al processo. E si torna al “solito” digital divide.

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

Dopo la Brexit e verso la Legge di Bilancio: quale Spending Review?

L’Associazione BuonaCultura e il Centro Studi ImpresaLavoro invitano al Convegno

DOPO LA BREXIT E VERSO LA LEGGE DI BILANCIO: QUALE SPENDING REVIEW?

Sulle linee del libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo
La Buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review

Giovedì 14 luglio 2016 – ore 18:00
CHORUS CAFE’ – Auditorium Conciliazione
Via della Conciliazione, 4 – ROMA

Introducono
Valerio Toniolo, Presidente Associazione Buonacultura
Simone Bressan, Direttore Centro Studi ImpresaLavoro

Intervengono
Giuseppe De Rita, Presidente Fondazione Censis
Michel Del Buono, Banca Mondiale, Nazioni Unite
Vincenzo Russo, Università di Roma La Sapienza
Salvatore Zecchini, Presidente Comitato Ocse Pmi

Concludono
Giuseppe Pennisi, Cnel, ImpresaLavoro
Stefano Maiolo, Nucleo di Valutazione Regione Lazio

R.S.V.P.
info.buonacultura@gmail.com
info@impresalavoro.org

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

“La politica italiana per l’innovazione”: il libro di Salvatore Zecchini edito da ImpresaLavoro

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IL LIBRO

Malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi.  Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

“La politica italiana per l’innovazione. Criticità e confronti”, disponibile su Amazon in versione cartacea e digitale e arricchito da un Poscritto di Giuseppe Pennisi (Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) sulla strategia di politica industriale in Italia e nei maggiori Paesi europei, è stato pubblicato nella collana “Biblioteca di ImpresaLavoro” curata dal centro studi presieduto da Massimo Blasoni e diretto da Simone Bressan. Si tratta di un lavoro essenziale per individuare le pecche nel sistema italiano provare a correggerle, traendo indicazioni da misure attuate all’estero e riadattabili al nostro caso.

Il lavoro condensa in una visione d’insieme una miriade di misure e strumenti che sono stati impiegati da diversi ministeri ed autorità sul territorio italiano, e disseminati in innumerevoli provvedimenti ad iniziare dagli ultimi anni del primo decennio. Nelle conclusioni, infine, si formula un insieme di proposte per il miglioramento della politica italiana sul tema, auspicando un maggiore coordinamento  tra le diverse componenti del Governo nella programmazione di obiettivi e strumenti, in congiunzione con l’incremento della quota di PIL destinata a R&I. L’aumento delle risorse non sarebbe però sufficiente  senza un profondo cambiamento della cultura sociale in tutte le sue articolazioni per renderla ben disposta al cambiamento, all’innovazione e alla competizione.

L’AUTORE

Salvatore Zecchini. Completati gli studi di economia presso le università Columbia University (MBA) e Wharton School of Finance, Department of Economics (PhD program), ha lavorato come economista presso il Servizio studi della Banca d’Italia, fino a divenirne uno dei Direttori. Ha partecipato ai lavori del Comitato Monetario e del Comitato di Politica Economica della CEE, collaborando in particolare alla costruzione tecnica del Sistema Monetario Europeo. Nominato Executive Director del Fondo Monetario Internazionale, si è occupato della crisi debitoria internazionale e della riforma della sorveglianza multilaterale. È stato successivamente all’OCSE, divenendo direttore del programma di assistenza di politica economica ai paesi post-comunisti e Vice Segretario Generale. Quindi Consigliere economico del Ministro del Tesoro-Bilancio, consulente del Ministro delle Attività Produttive e del Ministro dello Sviluppo Economico, presidente del GME e dell’Istituto per la Politica Industriale. Presidente del OECD Working Party on SME and Entrepreneurship e del suo Steering Group on SME finance. Docente all’Università di Roma Tor Vergata ed autore di saggi, libri ed editoriali nella stampa.

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Per ulteriori informazioni è possibile contattare la Sede di Roma del Centro Studi ImpresaLavoro:
Via dei Prefetti, 30 – tel. 06 62280527 – info@impresalavoro.org

Donne, management e mercato del lavoro

Donne, management e mercato del lavoro

di Giuseppe Pennisi

Nonostante la loro elevata qualità, i paper del Dipartimento del Tesoro (Direzione Generale Analisi Economica) del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono relativamente poco conosciuti, rispetto, ad esempio, il vero e proprio fiume in piena dei lavori del servizio studi della Banca d’Italia. Sono utili anche in quanto rappresentano un input alla politica economica. Per riceverli, basta iscriversi al mail dt.research@tesoro.it  da dove vengono inviati con cadenza mensile.

Non trattano solo di argomenti di finanza pubblica e simili, ma anche temi di più vario rilievo di politica economica. Ne abbiamo scelti due che riguardano il tema di donne in posizioni manageriali in Italia oggi – materia sempre incandescente e dove analisi asettiche sono particolarmente utili.

Uno dei due riguarda la discriminazione vera od apparente di donne manager. Il titolo è eloquente: “Are women in supervisory positions more discriminated against? A multinomial approach”. Ne sono autori Marco Biagetti e Sergio Scicchitano, i quali utilizzano un approccio a due stadi. In un primo stadio esaminano se differenze di genere incidono su stipendi e carriere di lavoratrici in posizioni non dirigenziali. In un secolo quello di donne a vari livelli di management. È un’analisi statistica empirica tramite una procedura statistica raffinata. Le conclusioni possono sorprendere: ai livelli non dirigenziali le differenze salariali e i segni visibili di discriminazioni aumentano con il passare degli anni (se non sono promosse a gradi direzionali). Diminuiscono invece se riescono a diventare dirigenti. Tuttavia, c’è un processo di “selezione negativa” che rende molto difficile salire il gradino.

L’altro lavoro, sempre di Sergio Scicchitano (“Exploring the gender wage gap in the managerial labour market: a counterfactual decomposition analysis”), evidenzia invece, sulla base di una ricca documentazione statistica, come il divario di genere, persista ai livelli manageriali, principalmente in termini di retribuzioni, ed abbia la forma di una U, ossia solo poche donne, una volta entrate nei gradi manageriali, riescono a raggiungere le vette retributive. La gran parte resta nella palude.

Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto

Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto

Nella prospettiva della Strategia Europa 2020 il processo di digitalizzazione della sanità italiana appare ancora in ritardo rispetto alla maggioranza dei Paesi UE sulla base degli indicatori disponibili. Le performance insufficienti rispecchiano il basso livello di spesa eHealth dell’Italia, pari nel 2015 all’1,2% della spesa sanitaria pubblica, rispetto alla media UE compresa fra il 2 e il 3%, con punte vicine al 4%.

Per inquadrare nel medio periodo le prospettive della Sanità Digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario, lo studio esamina tre scenari al 2020 della spesa. Il primo scenario di tipo più conservativo ipotizza il raggiungimento a fine periodo di un target del 2% di spesa eHealth su spesa sanitaria pubblica. Il secondo scenario ipotizza un target intermedio pari al 3%. Il terzo scenario prende in esame un target più espansivo del 4%, come indicazione di un deciso salto di qualità dell’impegno pubblico nel settore.

I risultati dell’analisi mostrano che il Servizio Sanitario Nazionale debba realizzare nei prossimi anni un deciso cambio di passo nelle risorse finanziarie da investire in Sanità Digitale, per stare al passo con i Paesi europei più avanzati in questo settore. I tre scenari considerati indicano che l’accelerazione dell’impegno finanziario al 2020 richieda risorse aggiuntive per la Sanità Digitale comprese in un range fra 2 e 7,8 miliardi di Euro, rispetto al fabbisogno tendenziale di 7,5 miliardi, per arrivare ad un impegno complessivo stimato fra 9,5 e 15,2 miliardi di Euro.

Senza questo cambio di policy, il Servizio Sanitario Nazionale non potrà valersi pienamente dei benefici attesi dai servizi e dagli strumenti di Sanità Digitale, che – attraverso una più evoluta condivisione delle informazioni e una più avanzata interazione fra pazienti, medici, operatori e strutture sanitarie – consentono un guadagno di efficienza, un’ottimizzazione nell’erogazione dei servizi, una riduzione dell’errore medico, un incremento della sicurezza del paziente, un miglioramento della gestione delle patologie croniche.

Peraltro la questione degli investimenti è un fattore necessario ma non sufficiente per lo sviluppo della Sanità Digitale e per il conseguimento dei benefici connessi. Occorre affrontare contestualmente il tema del ridisegno complessivo del sistema salute, quello del digital divide, quello della costruzione di una governance nazionale dell’innovazione e di una strategia architetturale complessiva, quello della definizione di una chiara politica della sicurezza e della privacy. Mentre resta ancora aperta a livello internazionale la questione di una corretta misurazione e valutazione dei benefici e dei ritorni dell’investimento in Sanità Digitale.

Clicca qui per scaricare il paper completo curato da Censis e ImpresaLavoro

Indice della Libertà Fiscale 2016: in vendita su Amazon

Indice della Libertà Fiscale 2016: in vendita su Amazon

indice_web_copNel 2015 il Centro studi ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro. Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

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Verso la Legge di Bilancio

Verso la Legge di Bilancio

di Giuseppe Pennisi – Formiche

Quest’anno la Legge di stabilità, che ha sostituito la quella finanziaria ma ha avuto vita relativamente breve, sparisce e viene assorbita dalle Leggi di bilancio. Un ottimo fascicolo tecnico predisposto dai servizi di bilancio della Camera e del Senato illustra gli aspetti tecnico-contabili del cambiamento. Da un lato, il cambiamento amplia la flessibilità del bilancio in fase sia di formazione sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia delle spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede per le prime la possibilità di variazione degli stanziamenti, nell’ambito di limiti relativi alla natura economica della spesa e all’invarianza complessiva dei saldi. Dall’altro, rende più rigorosa l’applicazione di serie coperture delle spese proposte nel documento.

Come tutti i cambiamenti, anche questo comporta l’approfondimento e l’apprendimento di nuove procedure. Se – come ogni anno – il negoziato tra le parti politiche (e con le forze sociali) sui contenuti del bilancio inizia in giugno, entra nel vivo in luglio e, dopo una pausa in agosto, diventa frenetico in settembre, quest’anno, nella premessa della trattativa, c’è il risultato delle elezioni amministrative e, nella prospettiva a breve termine, c’è il referendum sulla riforma istituzionale, in cui il presidente del Consiglio è impegnato in prima persona. Lasciamo da parte l’esito delle elezioni amministrative (già commentato ampiamente) e soffermiamoci sulle date essenziali. Il disegno di legge di bilancio deve essere varato dal Consiglio dei ministri entro il 30 settembre e presentato alle Camere. In occasione delle celebrazioni dei settant’anni dalla nascita della Repubblica, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha anticipato che il referendum si terrà il 2 ottobre, san Francesco Patrono d’Italia.

L’accavallarsi (quasi) di disegno di Legge di bilancio e di una riforma istituzionale su cui il governo ha impegnato il proprio futuro ha implicazioni che meritano delle riflessioni. Da un canto, il disegno di Legge di bilancio è l’occasione – forse la sola – per il governo di accontentare aspettative, anche le più legittime, di un elettorato sempre più anziano e di far prospettare che ciò avverrà tramite emendamenti – supportati dall’esecutivo – durante l’iter parlamentare. Da un altro, il maggior rigore nella copertura delle spese (e la situazione di finanza pubblica e del debito pubblico del Paese) rendono tutto ciò più difficile che nel passato. Inoltre, in un contesto in cui la crescita economica non prende vigore e la disoccupazione non flette, scontentare le attese che l’elettorato ritiene legittime può avere effetti molto significativi quando gli stessi elettori andranno a votare a un referendum che ha comunque assunto colori plebiscitari. Non è un caso che in giugno siano state riprese trattative sul riassetto delle pensioni e si è ventilato un programma di rilancio delle infrastrutture tale da includere pure il ponte sullo stretto di Messina. Due temi a cui parti differenti – e anche divergenti – dell’elettorato sono molto sensibili.

L’anno scorso la Legge di stabilità è stata presentata all’insegna di una forte richiesta di flessibilità alle autorità europee. Questo sarà molto più difficile. Tra l’altro, lo spiega bene il lavoro di Paul De Grauwe e Yuemei Ji Flexibility versus stability: a difficult trade-off in the eurozone (Ceps working paper No 422, 2016), non solo per quanto detto a maggio dalla Commissione europea, ma perché la flessibilità di un Paese altamente indebitato rischia di mettere a repentaglio l’intera costruzione dell’area dell’euro. Parimenti, in una fase in cui pare si scivoli in recessione, un rilancio degli investimenti pubblici è senza dubbio necessario, purché vengano scrutate con attenzione le priorità relative, come ribadito nel recente documento della Banca mondiale (No 7674) Priorítizing infrastructure investment. A framework for government decision making.

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

di Matteo Basile – Il Giornale

Taci, il capo ti ascolta. O almeno potrebbe. E potrebbe fare pure di peggio. Spiare, controllare, intromettersi. Tenerti sotto controllo. Avere un accesso diretto alla tua casella di posta elettronica, al tuo smartphone ma anche monitorare la tua produttività e addirittura avere un quadro preciso del tuo stile di vita e delle tue abitudini. Potrebbe, almeno in teoria e, chissà, forse in un futuro prossimo potrà farlo davvero. Perché la tecnologia unita alla volontà delle aziende di aumentare la produttività in periodo di crisi economica potrebbe portare a questo e altro.

Negli ultimi anni in tema di spioni aziendali è successo un po’ di tutto, per nostra fortuna soprattutto all’estero. Emblematico il caso di una segretaria negli Stati Uniti, licenziata perché in una mail indirizzata ad un’amica aveva scritto «Il mio capo è un idiota». E lui, il capo, che controllava la corrispondenza, non l’ha presa bene. Ma se in America le leggi possono consentire episodi di questo tipo, anche in Europa, dove la legislazione è più stringente in tema di spionaggio aziendale, episodi analoghi non sono del tutto assenti. A Londra, pochi mesi fa, i giornalisti del Daily Telegraph hanno trovato sotto le loro scrivanie una scatoletta con scritto «OccupEye». È bastata una ricerca sul web per scoprire che quelle scatolette misteriose contenevano sensori di movimento e temperatura capaci di rivelare ai datori di lavoro se una scrivania era occupata o meno. Niente altro che una spia in grado di monitorare quanto e come i dipendenti stavano alla loro postazione. Sollevazione generale inevitabile, proteste durissime, scuse dell’azienda e provvedimento ritirato. Ma la convinzione che sì, un giorno, l’eccezione potrebbe anche diventare norma. E potrebbe pure essere peggiore. Succede già oggi infatti che molti minatori e camionisti australiani indossino il cappellino «SmartCap» che, attraverso sensori simili a quelli necessari per effettuare un elettroencefalogramma, verifica che i lavoratori siano svegli e reattivi. Tornando al Regno Unito, i magazzinieri dei supermercati della catena «Tesco» indossano un braccialetto che traccia i loro spostamenti e la percentuale di lavoro svolto: benefit se si finisce in anticipo il proprio compito, penalità se si va in pausa senza preavviso. Ma il top si è raggiunto in Messico dove la «InterMex» ha obbligato i dipendenti a scaricare un’applicazione che tramite gps comunica in tempo reale ai vertici dell’azienda tutti gli spostamenti e i movimenti dei dipendenti. Una sorta di braccialetto elettronico come quelli installati ai carcerati in regime di semilibertà, tanto che un’impiegata ha denunciato l’azienda. E ha pure vinto. Troppo, senz’altro. Ma sarà questo il futuro che ci aspetta sul posto di lavoro?

Forse, ma non ora. Perché in Italia la legislazione parla chiaro e non consente nulla di simile. Anche se il Jobs Act ha leggermente allargato le maglie dei controlli sui lavoratori da parte dei propri capi. «Si è modificata le norma del 1970, quando esistevano solo telecamere e registratori ma non c’erano computer, posta elettronica e smartphone», spiega l’avvocato Aldo Bottini, presidente dell’Associazione nazionale avvocati giuslavoristi e tra i massimi esperti del settore. Alcune cose si possono fare ma con limiti e confini ben precisi. «Con le nuove norme si mantiene il principio per cui non si possono installare strumenti tecnologici di monitoraggio con l’unica finalità del controllo dell’attività lavorativa – spiega il legale -. Per installare strumenti tipo telecamere serve ancora un accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa. La novità è che il principio non si applica agli strumenti di lavoro come pc e smartphone che non sono assoggettati all’autorizzazione. Di fatto attraverso questi strumenti si può legittimamente controllare l’attività del lavoratore a patto che lo stesso venga informato della possibilità in maniera chiara e completa. È lo stesso principio che vige in tutta Europa. L’unica novità è che le aziende dovranno dotarsi di un’adeguata policy per l’utilizzo il controllo, il funzionamento e le eventuali conseguenze nell’abuso di tutti questi strumenti».

Il problema dunque, alla fine rischia di ricadere sulle aziende, costrette a districarsi tra norme e cavilli burocratici che complicano non poco la vita. «La legislazione italiana è un incubo, il numero di norme è elevatissimo e spesso in aperta contraddizione», attacca Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del centro studi «ImpresaLavoro». «Accanto alle sacrosante norme per la tutela della privacy ne servirebbero anche altre a tutela della produttività e di chi fa impresa». Un altro problema per le aziende sono i furbetti del certificato medico, quelli che cioè tendono a darsi malati con eccessiva leggerezza se non con cadenza regolare. «Ci sono pessime abitudine da parte di alcuni medici un po’ troppo benevoli nel fornire certificati – spiega Blasoni -. Le verifiche sono assolutamente labili e chiedere un intervento è pressoché inutile. Questo finisce per essere un ulteriore gravame per chi deve districarsi quotidianamente tra tasse, cavilli e burocrazia. Spesso si è arrivati a contese con dipendenti indifendibili che grazie all’intervento dei sindacati e a sentenze sconcertanti sono riusciti ad essere reintegrati».

Già, i sindacati. Organo a tutela del lavoratore sfruttato o maltrattato oppure ultima spiaggia per chi fa il furbo ma sa che in un modo o nell’altro, alla fine, avrà le spalle coperte? «Non scherziamo, chi commette una truffa non solo è indifendibile ma da attaccare – racconta Guglielmo Loi, della segreteria nazionale della Uil -. L’importante è agire sempre nell’ambito delle regole, dall’ultimo impiegato fino al massimo dirigente. Deve essere chiaro quali sono i limiti e quali i doveri. Un lavoratore deve essere informato con precisione quando entra in possesso di un’apparecchiatura aziendale». Anche perché il controllo sul dipendente, alla fine, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Capita spesso che il telefono aziendale resti acceso ed operativo per motivi di servizio ben oltre l’orario di lavoro. In caso di controllo eccessivo un dipendente potrebbe decidere di rendersi irreperibile finito il suo orario e, a quel punto, nessuno potrebbe lamentarsi».

Alla fine, come spesso accade, a far la differenza è il buonsenso. Ma nel dubbio è sempre meglio comportarsi secondo le regole. Perché il Grande Fratello è tra noi e, forse, guarda proprio noi. Anche sul posto di lavoro.

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

di Massimo Blasoni – Metro

Che in Italia vada ridotto il carico fiscale son tutti d’accordo. Il problema è capire quali tasse tagliare e in che misura. L’ultima legge di Stabilità prevede ad esempio che l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società (Ires) passi l’anno prossimo dal 27,5% al 24,5%. A leggere alcune dichiarazioni del governo tale norma potrebbe però essere modificata. Insomma, l’aliquota attuale non si toccherebbe per agire sull’Irpef o contribuire a scongiurare l’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia. Anche questi sono obbiettivi sacrosanti ma sarebbe un errore non continuare l’azione a favore delle imprese che è stata avviata con la riduzione dell’Irap sul lavoro.

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