Editoriali

Ricetta liberista senza esitazioni

Ricetta liberista senza esitazioni

Massimo Blasoni – Metro

Mentre la teoria keynesiana ha sempre privilegiato il consumo secondo logiche sostanzialmente meccanicistiche (illudendosi che fosse sufficiente elargire risorse per mettere in moto lo sviluppo), gli economisti liberali – da Jean-Baptiste Say fino a Joseph Schumpeter e Israel Kirzner – hanno insistito correttamente a più riprese sul ruolo imprescindibile dell’iniziativa imprenditoriale. Questa economia dell’offerta, basata sull’idea che senza produzione e senza una produzione ispirata dalla ricerca della soddisfazione del pubblico non ci può essere crescita né sviluppo, fu anche alla base della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta. Senza la cosiddetta supply-side economics, che valorizzava appunto il ruolo delle imprese e della creatività del lavoro, non ci sarebbe stata, ad esempio, la Silicon Valley e tutto quello sviluppo di informatica e telematica che ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere e produrre.

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Lo spirito d’impresa? Accettare le sfide

Lo spirito d’impresa? Accettare le sfide

Massimo Blasoni – Metro

In che misura il coraggio di affrontare sfide nuove e dall’esito (anche occupazionale) non scontato sono utili per la produttività? Senza troppo filosofeggiare, credo sia inconfutabile l’assunto per cui non c’è impresa senza rischio. L’esigenza di competere per sopravvivere o per sviluppare è un fattore stimolante. Non è bene essere temerari, però nemmeno il restare statici. Il mercato genera selezione, obbliga a competere. E l’imprenditore deve essere veloce, per lui il fattore tempo è tutto. Non è così nella Pubblica Amministrazione, che governa la politica più che esserne governata. In questo settore è maturato nei decenni un approccio ai temi che non è quello dei mercati e che in sanità si definisce col termine “medicina difensiva”: la verifica di regolarità diventa ossessiva e l’obiettivo di chi deve produrre l’atto amministrativo non è la tempestività della risposta ma l’autotutela.

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Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Massimo Blasoni – Libero

Alla luce dei nuovi interventi della Banca Centrale Europea ad incrementare la già rilevantissima liquidità immessa da oltre un anno nell’economia, forse le cose potranno cambiare. Ad oggi però in Italia gli effetti, con riferimento all’erogazione del credito alle famiglie e soprattutto alle imprese, sono stati modesti. Un dato confermato da Bankitalia anche a gennaio: si è registrata a inizio 2016 una variazione percentuale negativa, seppur minima, su base annua, dello 0,1%.

Nel report dell’istituto di Palazzo Koch è interessante la scomposizione con riferimento alle rilevazioni sui prestiti alle famiglie e a quelli alle società non finanziarie, in altre parole le nostre imprese. L’erogazione del credito alle famiglie a gennaio è cresciuta dello 0,8% su base annua. È ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, l’anno è iniziato con un -0,9% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. Va molto meglio alle attività produttive dei principali competitor europei.

I motivi del perdurare del credit crunch in Italia sono in parte imputabili alla debolezza delle nostre banche. Queste, il dato è di gennaio, hanno bruciato capitalizzazione in borsa per oltre 185 miliardi rispetto ai livelli pre-crisi e sono condizionate da più di 200 miliardi di sofferenze lorde. Certo non possiamo chiedere alle nostre banche di finanziare imprese prive dei necessari requisiti. Tuttavia non è differibile l’obiettivo di garantire nuova liquidità al sistema produttivo. Vi è grande sfiducia nelle obbligazioni e la nostra borsa non pare un’alternativa per garantire sufficiente sviluppo al sistema imprenditoriale. Soprattutto alle aziende di non grandi dimensioni. Sono solo 356 le imprese quotate alla Borsa Italiana ed è difficile pronosticare a breve un esponenziale allargamento di questa platea.

Perché allora non ipotizzare un fondo di garanzia nazionale per gli investimenti delle imprese? Il bail in impedisce i salvataggi di Stato, non altre forme di partecipazione. Certo si tratta di un’operazione complessa e i vincoli europei e di debito non sono pochi. È necessario però tentare. Le imprese italiane sono già gravate da costi dell’energia, imposizione fiscale e deficit di infrastrutture che ne condizionano la competitività. Senza credito per nuovi investimenti non ci saranno né ripresa né nuova occupazione.

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

di Massimo Blasoni*

Alla luce dello studio di ImpresaLavoro appena pubblicato, l’analisi dell’andamento degli occupati in Italia segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obbiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti.

I numeri dell’occupazione, però,  confermano come sia complesso slegare l’andamento del mercato del lavoro da quello dell’economia più in generale: con una crescita economica così debole, anche in presenza di incentivi molto vantaggiosi, si avranno riflessi occupazionali limitati.

*Presidente del centro studi ImpresaLavoro

Senza credito niente impresa

Senza credito niente impresa

Massimo Blasoni – Metro

L’erogazione del credito in Italia resta modesta. Il Quantitative Easing varato dalla Bce ha calmierato lo spread del debito sovrano ma non è riuscito a incrementare il trasferimento di risorse alle famiglie e soprattutto alle imprese. La stretta creditizia è confermata da Bankitalia, che ha registrato a fine 2015 una variazione percentuale negativa su base annua dello 0,3%. Scomponendo il dato si scopre che a dicembre i prestiti alle famiglie erano cresciuti dello 0,8% su base annua: un aumento impercettibile. Ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, il 2015 si è infatti si è concluso con un -0,7% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. I dati Bce ci dicono che nello stesso anno la situazione è invece migliorata sia in Francia (+1,6%) sia in Germania (+3,3%).

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Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Caro Renzi, i conti non sono un’opinione

Massimo Blasoni – Metro

È proprio vero che la matematica è un’opinione. Almeno per il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che l’altro giorno ha esultato per il +0,8% di crescita del Pil italiano nel 2015. Intendiamoci, si tratta pur sempre di un dato positivo perché segna finalmente un’inversione di tendenza rispetto alla decrescita registrata negli ultimi anni: -2,8% del 2012, -1,7% del 2013 e -0,4% nel 2014. Basterebbe però alzare lo sguardo oltre i confini nazionali per decidersi a conservare le bottiglie di champagne per occasioni migliori. L’anno scorso tutti i nostri principali competitor europei hanno infatti registrato una crescita decisamente più marcata del proprio Prodotto interno lordo: +1,2% in Francia, +1,7% in Germania, + 2,2% nel Regno Unito e addirittura +3,2% in Spagna.

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Più occupati tra gli extra Ue

Più occupati tra gli extra Ue

Massimo Blasoni – Metro

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. L’Italia è uno tra questi. Analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili, quelli del 2014, si scopre infatti che il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). In Europa, solo Grecia e Croazia hanno un mercato del lavoro meno efficiente del nostro.

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Blasoni: Meno Stato e più privato, così l’Italia riparte

Blasoni: Meno Stato e più privato, così l’Italia riparte

di Massimo Blasoni – Panorama

Cosa può fare lo Stato per riacquistare credibilità ed efficienza da tempo perdute? Deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione, lasciando all’iniziativa dei privati la gestione di settori e funzioni che via via le sono stati sottratti da una macchina politico-burocratica costosa, improduttiva e inefficiente. In estrema sintesi, è questa la proposta contenuta nel mio saggio “Privatizziamo!” (www.privatizziamo.it), pubblicato da Rubbettino e da poco uscito in libreria.

In queste pagine ho cercato di abbinare l’esperienza quotidiana di imprenditore alla mia antica passione liberale, avanzando una tesi tanto rivoluzionaria quanto praticabile: rendere privato pressoché tutto quello che oggi lo Stato gestisce con un intervento diretto nella produzione di beni e servizi. Lasciamogli il compito di legiferare, regolamentare e vigilare. E rimanga ovviamente pubblica la gestione della difesa, della sicurezza e della giustizia. Tutto il resto però ritorni a famiglie e imprese.

Mi chiedo ad esempio perché debba esserci una differenza di status tra dipendenti pubblici e privati. Perché un impiegato all’anagrafe e il lavoratore di un’azienda devono avere regole del gioco così diverse? Un Sindaco che voglia ben amministrare il proprio Comune oggi non è in grado di assumere, licenziare, premiare il merito o anche solo trasferire personale da un ufficio all’altro. Una volta che l’organismo politico ha adottato le proprie decisioni, la loro attuazione potrebbe essere esternalizzata o realizzata da organici privatizzati.

Quella che provo a disegnare è insomma la fisionomia di uno Stato leggero, che spende meno e che quindi può tassare di meno. Per questo consiglio in particolare la lettura del mio libro a quanti ancora credono nella necessità di aziende pubbliche. Perché l’Inps deve gestire, male, i nostri versamenti contributivi e non possiamo invece scegliere la migliore offerta sul mercato? Perché non viene dismesso l’enorme e improduttivo patrimonio immobiliare pubblico e le nostre imprese sono gravate da miriadi di adempimenti burocratici che ne riducono la competitività?

L’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti (a proposto, a quando finalmente la privatizzazione di Trenitalia?), pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è frutto di un ordine necessario. Il costo dell’intermediazione politica – fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti di fornitura – genera costi impropri che vengono fatti pagare a tutti noi. In Italia, a farla (letteralmente) da padrone, è insomma uno Stato che si improvvisa imprenditore e immobiliarista e che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa. Per superare queste inefficienze va finalmente riconsegnata a famiglie e aziende la libertà di scegliere come e quando spendere le proprie risorse. E c’è un solo modo per farlo: Privatizziamo!

 

Così l’Italia #cambiaverso?

Così l’Italia #cambiaverso?

Massimo Blasoni – Metro

Intervenendo lunedì scorso ai lavori della commissione Affari economici e finanziari del Parlamento Europeo, Mario Draghi ha rivendicato come circa la metà della ripresa degli ultimi due anni sia stata determinata dalla politica di stimolo della Bce. «L’altra metà della crescita del Pil della zona euro – ha aggiunto – è stata dovuta al basso prezzo del petrolio. È sempre più chiaro che i governi dovrebbero sostenere questa ripresa con investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Nell’Unione Europea gli investimenti pubblici sono infatti calati di 47,7 miliardi rispetto ai massimi registrati nel 2009 (454,9 miliardi). Un dato ancora più marcato nell’area euro: dai 337,7 miliardi del 2009 si è passati ai 275,3 miliardi del 2014. In termini reali siamo quindi tornati ai valori del 2005, con investimenti pubblici pari 2,9% del Pil nell’Unione Europea a 28 (rispetto al 3,7% del 2009).

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È uscito “Privatizziamo!”, il libro di Massimo Blasoni

È uscito “Privatizziamo!”, il libro di Massimo Blasoni

Cosa può fare lo Stato per riacquistare agli occhi dei cittadini credibilità ed efficienza da tempo perdute? Deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione, lasciando all’iniziativa dei privati la gestione di settori e funzioni che via via sono stati le sono stati sottratti da una macchina politico-burocratica costosa, improduttiva e inefficiente. In estrema sintesi, è questa la proposta contenuta in “Privatizziamo!” (www.privatizziamo.it), il saggio scritto da Massimo Blasoni, edito da Rubbettino Editore e uscito in questi giorni in libreria.

Imprenditore di prima generazione, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione e gestione di strutture socio-sanitarie, Blasoni è anche  presidente del Centro studi ImpresaLavoro. In questo libro unisce la sua esperienza da uomo d’azienda e la sua passione liberale per tratteggiare un futuro possibile per il nostro Paese fatto di meno regole, meno Stato, meno tasse e quindi più libertà per i privati.  La ricetta è tanto semplice da sintetizzare quanto articolata nella sua proposta: per Blasoni devono restare interamente pubblici solo esercito, giustizia e polizia, in quanto garanti di sicurezza e legalità per il cittadino; tutto il resto è privato. Con il gettito tributario lo Stato acquista per i cittadini alcuni servizi – direttamente o attraverso l’assegnazione di voucher – e prestazioni di interesse collettivo sul libero mercato ma la mano pubblica si sveste del compito di produrre e gestire direttamente larghe fette della nostra economia. Quello che Blasoni disegna è uno stato leggero, che spende meno e quindi può tassare di meno ma che comprende come l’istruzione scolastica, le infrastrutture o le politiche sociali rappresentino un costo che non può essere singolarmente sopportato dal cittadino, ma che viene ripartito su tutti i beneficiari sulla base del principio di solidarietà. Solo che, a differenza di quanto avvenuto sin ora, il pubblico non pretende di garantire il diritto alla salute o all’istruzione e contemporaneamente di erogarlo.

«L’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo» spiega Blasoni nell’introduzione del suo libro. «Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo Stato non è frutto di un ordine necessario». Il costo dell’intermediazione politica, fatta di consigli d’amministrazione, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti di fornitura, genera costi impropri che si trasformano in ulteriori tasse per i cittadini: per superare queste inefficienze c’è solo una ricetta ed è quella di riconsegnare a famiglie e imprese la libertà di scegliere come e quando spendere le proprie risorse. Una soluzione che è sopratutto un monito: Privatizziamo!