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Canton Ticino, perché il muro contro muro è nefasto

Canton Ticino, perché il muro contro muro è nefasto

Formiche.net – di Massimo Blasoni

L’esito del voto referendario nel Canton Ticino può sorprendere soltanto chi s’illude che, in tempi di crisi economica, il tema dell’immigrazione non condizioni pesantemente l’opinione pubblica europea, comunitaria e non. Ieri il 58% dei votanti si è di fatto espresso contro l’utilizzo dei circa 62mila italiani transfrontalieri (un quarto circa dell’intera forza lavoro nel Cantone), chiedendo di istituire per legge una corsia preferenziale per i residenti in Svizzera nell’assegnazione dei posti di lavoro. Tutto il mondo è Paese, e gli svizzeri non fanno eccezione. Questa consultazione, promossa dal partito della destra nazionalista, conferma come anche i cittadini tra i più abbienti del Continente siano sempre più disposti a irrobustire col loro voto le ricette populiste. Occorre però chiedersi se proprio in area moderata non vada cercata la colpa dei notevoli dividendi elettorali incassati dalle forze populiste più estreme in vari Paesi. Insomma, l’espressione di voto è anche figlia del rilevantissimo numero di migranti economici che stazionano nelle nostre città, della lentezza nel discernere tra chi ha effettivamente diritto all’asilo e del non aver posto un adeguato accento sui doveri oltre che sui diritti.

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Governance fiscale: Perdoniamoli, non sanno quello che fanno!

Governance fiscale: Perdoniamoli, non sanno quello che fanno!

di Uccio Silvestri

Ricordate “il lato oscuro dell’accertamento”? Lo aveva evocato il 1^ marzo scorso la direttrice delle Entrate, Rossella Orlandi, agitando quasi una minaccia verso chi, contattato con le buone (tramite cartolina postale), si era rifiutato di pagare nonostante un maxi-sconto sulla sanzione (si veda qui). Ora si scopre che per la illustre direttrice si è trattato di una svista, non all’altezza del prestigioso ruolo. Perché esattamente due anni fa questi ponti d’oro erano stati lanciati, dalla legge di stabilità 2015, verso quella stessa categoria di partite Iva che già in passato, nel 90% dei casi, aveva fatto orecchie da mercante. Senza mai abboccare, neppure di fronte alla notifica, assai più minacciosa, di un vero e proprio accertamento (peraltro, in quel caso, a prezzo aumentato del 70-80 per cento, mancando ivi gli sconti sulle sanzioni).

Tornando alla Orlandi, il riferimento è alla recente ammissione di fallimento della operazione di compliance relativa al cosiddetto spesometro. Alla quale hanno aderito – secondo i deludenti dati rivelati il 1^ marzo scorso – solo 817 soggetti su 13.626 (il 6%). Questi esiti, tuttavia, erano scontati. Bastava tener presente le informazioni, interne alle stesse Entrate, pubblicate da un documento della Corte dei Conti del 31 ottobre 2013 (deliberazione n. 8/2013/G). E, infatti, su questa base, non fu difficile per un esperto azzeccare il pronostico con due anni di anticipo: “squadrature in elenco clienti: un buco nell’acqua in arrivo” era il titolo dell’ultimo paragrafo pubblicato il 10 novembre 2014 (vedi qui). “Siamo di fronte a un ennesimo abbaglio che non porterà mai nulla nelle casse dello Stato” si legge un mese dopo, all’interno di questo articolo.

Il primo errore, per l’appunto, lo aveva fatto il Governo nel disegno di legge di stabilità per il 2015. Il ddl, infatti, puntò sui recuperi da spesometro, pronosticando incassi facili e iscrivendo, fra le entrate certe in arrivo (a copertura di nuove spese), quasi un miliardo all’anno. Per meglio capire come stanno le cose è utile leggere qui, pagine da 225 a 229, la Relazione tecnica relativa all’articolo 44, commi da 11 a 18, dell’originario ddl. Il commento tecnico ufficiale corrisponde in toto al testo confluito nei commi da 634 a 642, dell’articolo 1 della legge n. 190 del 2014. La predetta legge di stabilità, tuttavia, ignorò il fatto che qualche anno addietro una identica operazione (riguardante gli elenchi clienti 2006-2007) era già stata effettuata dalle Entrate. Ma con esiti disastrosi. E in riferimento proprio agli addebiti da squadratura in elenco fornitori (oggi l’elenco fornitori è stato ribattezzato con il nome di “spesometro”). Una operazione che, in via bonaria, aveva fruttato appena 130 milioni di incassi (il 2%) su un totale addebitato di 8,3 miliardi. Non solo, ma il fatto più grave è che, all’epoca, il 90% degli accertamenti notificati non furono né pagati, né – soprattutto – furono impugnati dai destinatari, nonostante gli addebiti (per la ragguardevole cifra di 7,5 miliardi) avessero in pancia tanto di sanzione piena.

Tutto questo, peraltro, avvenne mica per una quantità sparuta di contribuenti. Su un totale di 92mila imprese inadempienti, ben 78mila (l’equivalente di uno stadio gremito) avevano tenuto, tutti allo stesso modo, un comportamento vistosamente abnorme, nel senso che, semplicemente, avevano ignorato l’accertamento. Segno incontrovertibile che in questo caso non avevi di fronte la parte sana delle imprese (cioè, i “veri” commercianti, gli artigiani, gli industriali), ma cosiddette “teste di legno” o scatole vuote. E’ stata pertanto una forma di “distrazione grave” non accorgersi, nella legge di stabilità, che dietro questo fenomeno si nasconde una platea fittizia, che mai potrà reagire alla stregua di un imprenditore in carne e ossa. Il caso dei 78mila nullatenenti che si son fatti beffa dell’accertamento, invece, rivela che alle spalle del fenomeno massivo, svelato grazie alla Corte dei Conti, si nasconde una realtà sommersa meglio nota come “evasione da riscossione”. Un fenomeno grave, ormai diffusissimo. Delinquenza fiscale allo stato puro che da oltre 15 anni cresce vertiginosamente di anno in anno, per via della più totale impunità garantita dal sistema vigente. Impunità ottenuta da fronde incontrollate di colletti bianchi capaci di blindare a monte l’intangibilità del proprio patrimonio con l’antica e banale tecnica della intestazione fittizia. Una brutta storia tutta italiana che, per gli ultimi tre lustri, pesa a conti fatti molto più di un centinaio di miliardi sul bilancio dello Stato. Ecco spiegato il perché, dopo 15 anni di Equitalia, lo Stato si ritrova ad aver incassato poche briciole dal contrasto all’evasione: il 4,4 per cento di quanto inizialmente addebitato. E’ andata molto meglio all’Inps, a esempio, che vanta un tasso di riscossione coattiva che è triplo rispetto alle Entrate. Come dire che nel recupero crediti tramite Equitalia, l’Inps è stata “più fortunata” intercettando solo un terzo della quantità di nullatenenti che ha invece incrociato l’Agenzia delle Entrate – si veda qui. Ed ecco perché, ora, siamo arrivati al punto che le Entrate dovranno mandare al macero ben 700 miliardi di crediti inesigibili, tutti intestati a soggetti fittizi (vedi qui). Non ha avuto molto senso, pertanto, l’aver tappezzato il Paese con 800 miliardi di accertamenti, e poi di cartelle Equitalia e poi ancora di pignoramenti, quando, alla fine della fiera, vieni a scoprire che, praticamente, il 90 per cento del lavoro è stato svolto a vuoto.

E’ un fenomeno che è sfuggito di mano alla Governance fiscale degli ultimi anni, ed è tuttora ignorato dalla politica e dalla stessa Amministrazione finanziaria. La quale si limita a reagire, oggi come 15 anni fa, con la inutile tiritera dell’azione repressiva postuma, che, ovviamente, interviene a cose fatte, quando ormai i buoi sono scappati da un pezzo. Non vi poteva essere arma più innocua verso questo tipo di delinquenza fiscale. Su questo tema, peraltro, il segnale di allarme era stato lanciato dalla Corte dei Conti, ben oltre il perimetro dell’elenco fornitori, almeno cinque anni fa (si veda la alla deliberazione n. 8/2011/G del 13 luglio 2011). I numeri parlano da soli. Guardando dentro il documento contabile si apprende che su un totale di 1,7 milioni di accertamenti (il cento per cento di quanto notificato nel quinquennio 2006-2010), 650mila (38%) sono stati ignorati dai destinatari. Il che, in termini di valore, ha significato, altresì, che su un totale addebitato di 202 miliardi (sanzioni comprese), la quota degli accertamenti per evasione fiscale rimasti privi di reazione, e dunque “nati morti” all’origine, è stata di 99 miliardi, pari al 49 per cento del totale.

La desolante diatriba su Gianni Morandi che fa la spesa di domenica

La desolante diatriba su Gianni Morandi che fa la spesa di domenica

Formiche.net – di Massimo Blasoni

Accadono episodi che raccontano questo Paese più di tante analisi, fotografando in un istante i motivi per i quali l’Italia è da troppo tempo un Paese bloccato, ricurvo sul proprio ombelico, ormai avvitato in un declino economico senza prospettive. È successo infatti che il cantante Gianni Morandi si sia permesso di pubblicare su Facebook una foto che lo ritrae con un sacchetto della spesa in mano, accompagnandola con la scritta: «Buona domenica! Ho accompagnato mia moglie al supermercato». Apriti cielo: il popolo rancoroso del web non gliel’ha perdonata, subissandolo di insulti e invettive. La sua colpa? Essersi dedicato agli acquisti in un giorno che, nonostante la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, costoro vorrebbero a serrande abbassate a tutela dei poveri commessi costretti a lavorare quando invece avrebbero diritto a riposarsi. Ci si sarebbe attesi una reazione tosta da parte dell’artista e invece quest’ultimo si è invece prostrato davanti ai suoi 2 milioni e 200mila “amici” in scuse per lesa festività. Così aggiornando in fretta e furia il testo di una sua celebre canzone in “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte. Ma, per carità, non di domenica”.

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Le imprese non possono più aspettare

Le imprese non possono più aspettare

di Massimo Blasoni*

La promessa di Matteo Renzi di ridurre i debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese risale a più di due anni fa. Una promessa come molte altre non mantenuta e i cui effetti hanno un notevole impatto sul sistema imprenditoriale. Per un’azienda anticipare in banca per mesi i propri crediti verso lo Stato non solo è molto costoso ma ne appesantisce la posizione finanziaria e ne abbassa il merito creditizio. Insomma, se si usano le proprie linee di credito per far fronte ai ritardi di pagamento della PA (i propri dipendenti e fornitori vanno pagati) è più complesso trovare risorse per investire o ampliare la produzione. Questa è una di quelle vicende che mettono in evidenza una volta in più il gap che ci separa da Paesi come Germania e Danimarca: lì lo Stato è serio e paga in pochi giorni. Peraltro, pagare più rapidamente, atteso che le somme spesso sono già impegnate, non rappresenterebbe un particolare maggior costo per lo Stato: le lentezze sono spesso frutto di una burocrazia infinita oppure sono causate dal diverso impiego che le amministrazioni locali fanno di quelle somme. Chi ci rimette, però, sono sempre gli imprenditori e i loro dipendenti. Il rischio è che definitivamente si rompa il patto di fiducia tra Partite IVA e Stato: se l’imprenditore non paga una qualche tassa alla data prefissata scattano Agenzia delle Entrate, Equitalia e ganasce varie, lo Stato invece paga i propri debiti quando vuole e resta assolutamente impunito.

*imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro

Il futuro nero delle pensioni

Il futuro nero delle pensioni

di Massimo Blasoni – Metro

Mentre il governo si appresta a varare un provvedimento che permette ad alcuni lavoratori di andare in pensione con tre anni di anticipo, permangono forti dubbi sulla sostenibilità nel lungo periodo del nostro sistema pensionistico. Da molti anni la spesa per la previdenza rappresenta la voce più importante dell’intera spesa pubblica: nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi, pari al 31,5% dei complessivi 826 miliardi di euro. Il dato è certamente influenzato dall’elevata quota di anziani nella popolazione italiana ma non spiega perché altri Paesi con identici problemi demografici (ad esempio Germania e Giappone) registrino percentuali decisamente più contenute. Sta di fatto che le diverse riforme italiane del sistema previdenziale hanno via via ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Poco o nulla è stato invece fatto invece per contenere – o addirittura ridurre – il livello degli assegni pensionistici.

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Rottamare “#Adesso”

Rottamare “#Adesso”

di Massimo Blasoni – Il Foglio

Bonus e incentivi non paiono bastare a rianimare la timida crescita del nostro paese che difficilmente su base annua arriverà all’1 per cento. Al netto della congiuntura internazionale, nemmeno troppo sfavorevole se pensiamo al basso costo del denaro garantito dalla Banca centrale europea e a un prezzo delle materie prime che rimane contenuto, i consumi interni non ripartono. La prossima legge di Stabilità rappresenta per il governo e per il paese un passaggio fondamentale, ma guardare oltre l’“#adesso”, come consiglia di fare il Foglio, è altrettanto importante. Il dibattito di questi giorni sembra concentrarsi molto sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego e sul tema previdenziale. In un paese con il tasso di occupazione del 57 per cento (in Germania è del 75 per cento) il primo problema non può essere, però, quello di mandare più persone in pensione, anche se in molti casi sarebbe giusto. Dobbiamo accettare l’idea che gli sforzi vanno concentrati più che sul welfare immediato su iniziative che consentano il rilancio del paese. Questo vuol dire innanzitutto aiutare le imprese, non per fare un favore ai ricchi, ma perché questo è l’unico strumento per ripartire e dunque creare condizioni di migliore equità sociale per tutti negli anni a venire. Disperdere oggi le risorse per dare risposte a richieste puntuali significa paradossalmente accettare il lento declino del paese.

Per il medio termine serve dunque un New Deal liberale, soprattutto fiscale, in grado di rimettere in moto occupazione, investimenti e quindi consumi interni. Nessuno ha la bacchetta magica ma ci sono alcune cose che si possono fare subito e che disegnano una prospettiva di lungo periodo per la nostra economia. Proviamo a elencare alcune proposte, alternative tra loro e in luogo di quelle in discussione.

Il governo ha già in agenda una riduzione dell’Ires dall’attuale 27,5 per cento al 24. Secondo i documenti di finanza pubblica questo sconto costerà circa 3 miliardi di euro su base annua. È possibile e auspicabile osare di più, spingendosi ad abbassare la tassazione sui redditi di impresa al 18 per cento. Uno sforzo, questo, che richiederebbe risorse ulteriori per 6,5 miliardi di euro e porterebbe il nostro sistema economico ad avere un’imposizione sulle imprese più favorevole di quelle di Germania, Francia e Spagna. Secondo l’ultimo report sulla tassazione delle aziende elaborato da Kpmg, il “Basic Corporate Tax Rate” italiano è oggi del 31,4 per cento, leggermente al di sotto di quello francese (33,3) ma sensibilmente superiore a quello di Germania (29,7) e Spagna (25). Un taglio di 9,5 punti percentuali offrirebbe alle nostre imprese e agli investitori internazionali un livello di tassazione molto simile a quello attuale del Regno Unito (20 per cento). Può sembrare un paradosso ma potremmo diventare uno dei paesi più attrattivi di Europa per gli investimenti.

Il super-ammortamento al 140 per cento per l’acquisto dei beni aziendali, introdotto dal governo l’anno scorso, è un’ottima misura. Spinge le aziende a investire e consente, proprio in ragione degli investimenti, di ridurre il peso fiscale. Perché non avere molto più coraggio? Portare il super-ammortamento al 280 per cento e allargare la platea delle tipologie dei beni ricompresi costerebbe circa 2,5 miliardi. Si generano, però, effetti moltiplicatori: chi era in dubbio se investire è spinto a farlo perché gli conviene e questo significa innovazione e miglioramento della produttività: le cose di cui abbiamo più bisogno.

Cuneo fiscale e disoccupazione giovanile sono altri due grandi “mali” del nostro paese. È possibile creare le condizioni per cui assumere un giovane in Italia sia molto più vantaggioso che nel resto delle grandi economie europee? Certamente sì, agendo sulla leva previdenziale e immaginando contributi molto bassi all’inizio della vita lavorativa e che salgono al crescere dell’età. Si avvantaggerebbero sia le imprese sia i lavoratori, entrambi meno tassati. Ridurre di dieci punti percentuali l’aliquota contributiva sui giovani neoassunti può generare un fabbisogno finanziario iniziale di 2,5 miliardi annui. Siccome poi, però, le aliquote salirebbero, l’Inps finirebbe per incassare le stesse risorse con tempistiche diverse.

Nel lungo periodo, insomma, il fabbisogno finanziario si annullerebbe e la misura sarebbe interamente autofinanziata. Con l’aggiunta che un’intera generazione di Neet potrebbe finalmente avere una prospettiva di occupazione. Dovendo richiedere qualche margine di temporanea flessibilità, forse è meglio farlo investendo sui giovani.

Sul lato dei consumi, larga parte della manovra sarà assorbita dalla sterilizzazione delle clausole di salvaguardia. Volendo giocare in contropiede, anche dando un segnale chiaro all’Europa, si potrebbe addirittura ipotizzare di andare oltre, non fermandosi al blocco degli aumenti delle aliquote Iva ma decidendo già oggi una loro riduzione per stimolare gli acquisti. Tagliare un punto di Iva costerebbe 4,2 miliardi di euro all’anno.

Ovviamente, se il coraggio a questo governo non mancasse, occorrerebbe affrontare il tema, che ora pare abbandonato, dell’eccessiva pressione Irpef nel nostro paese. Un taglio drastico sarebbe indispensabile. Attuarlo vorrebbe dire forzare la mano scommettendo sul futuro. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale: non è il tempo dei timidi aggiustamenti.

Quel lusso che non possiamo più permetterci

Quel lusso che non possiamo più permetterci

di Massimo Blasoni – Metro

Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa?

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Immigrazione, governo pigro

Immigrazione, governo pigro

di Massimo Blasoni – Panorama*

Per frenare i flussi diretti nel nostro continente correttamente la Commissione Europea ha correttamente proposto iniziative di sviluppo nei Paesi di origine dei migranti. Resta però una grande incertezza sui tempi e sull’entità dei finanziamenti e per il momento continuano gli sbarchi sulle nostre coste. Bloccata o quasi la rotta balcanica, in questa fase siamo la porta di accesso all’Europa. Ma quanto ci costa l’emergenza? Una stima per il 2016, prudenziale, è contenuta nel Def, il Documento di ecoomia e finanza proposto dal governo e approvato dal Parlamento. Secondo il governo il costo è di 4 miliardi e 115 milioni, cioè un miliardo e mezzo in più rispetto a quanto abbiamo speso l’anno scorso. Gli importi si dividono tra soccorso in mare, spese di accoglienza, sanità e istruzione a cui si aggiungono gli altri costi dei ministeri degli Interni e della Giustizia.

La solidarietà è lodevole e spesso necessaria, nulla da dire, tuttavia camminando per le nostre città è difficile non avere la sensazione che i profughi siano davvero molti, in prevalenza giovani maschi e forse non tutti in fuga da una guerra. È evidente che l’emergenza non è stata gestita bene ed è diventata dopo dieci anni un fenomeno ormai strutturale. Le fotosegnalazioni sono troppo lente ed è infinita la prassi che consente ai richiedenti asilo di fermarsi nel Paese anche in caso di diniego e sino agli esiti dell’appello. Tutto ciò con spese legali e mantenimento a carico della collettività. Non va dimenticato poi che il numero dei profughi sbarcati è nettamente superiore a quello degli oltre 100mila presenti nelle strutture di accoglienza. È un fatto: quelli che non risiedono nei vari Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e Cas (Centri di accoglienza straordinaria) o sono andati all’estero o si sono “persi” nel nostro Paese. Ben pochi per il momento si sono visti riconosciuto il diritto d’asilo, un po’ per la lentezza della nostra burocrazia, un po’ perché obbiettivamente non ne avevano diritto essendo migranti economici e non profughi.

L’Europa non si è dimostrata particolarmente solidale con il nostro Paese nella gestione della crisi. Sia chiaro, la concessione al nostro governo di maggiore flessibilità di bilancio per questi fini da parte di Bruxelles rappresenta semplicemente l’autorizzazione a spendere i nostri denari. Il concreto contributo europeo all’Italia è stato unicamente di 120 milioni nel 2015 e le previsioni per il 2016 sono in linea. Una cifra irrisoria se pensiamo che i costi superano i 4 miliardi. Non è così per tutti. Per la Turchia sono stati stanziati 3 miliardi di euro per gestire l’emergenza siriani. Di questi uno è a carico del bilancio europeo, il resto a carico degli Stati membri. Fatti due conti il nostro apporto supera i 300 milioni. Il fatto è che nel nostro Paese non solo aumentano gli sbarchi ma in assenza di rimpatri il numero dei migranti fisicamente presenti cresce senza un freno. Le soluzioni ovviamente non sono facili ma non è nemmeno accettabile rinviare ogni azione ad iniziative tutte ancora da definire sui territori di provenienza dei migranti. Ci sono in Europa governi pigri ed altri più autorevoli. Difficile non ascrivere il nostro alla prima categoria.

* Da “Panorama” del 21 luglio 2016

Perché assumere è vietato

Perché assumere è vietato

Massimo Blasoni – Metro

«Divieto di assumere»: non si tratta di un paradosso ma del tentativo di spiegare il comune sentire percepito da imprese e lavoratori nel nostro Paese. I licenziamenti e le mancate assunzioni di questi anni non sono solo – giova ribadirlo – la conseguenza di una strutturale crisi economica, né possono essere semplicemente imputati all’aggressività delle imprese. Sono, anzi, il frutto di un sistema antiquato, barocco e fortemente burocratizzato che pone in capo a chi deve assumere e creare occupazione un quesito amletico: mi conviene o è meglio rinunciare? Non si assume essenzialmente perché le leggi che regolano i rapporti di lavoro sono eccessivamente rigide e, oltre al costo economico, vi è un costo normativo ormai insostenibile. A tal punto che il divorzio tra datore di lavoro e dipendente risulta ormai più difficile e oneroso di quello tra coniugi.

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Università davvero all’italiana

Università davvero all’italiana

di Massimo Blasoni – Metro

Come fanno le Università a finanziare la ricerca se spendono in stipendi quasi tutti i loro fondi? Semplice, non lo fanno. Non stupisce così che i nostri atenei stentino a brillare nelle graduatorie internazionali. Nel Qs World Universities Ranking 2014-2015 l’Università italiana al primo posto è Bologna, piazzata al 182esimo (nel 2010 era la 176esima), seguita dalla Sapienza di Roma al 202esimo posto e dal Politecnico di Milano al 229esimo. Ai primi tre posti troviamo il Mit di Boston, Cambridge in Inghilterra e Harvard sempre negli Stati Uniti. La classifica tiene conto della capacità di produrre cervelli, della didattica, dei costi per gli studenti, delle pubblicazioni accademiche, del livello occupazionale degli studenti, della capacità di internazionalizzazione delle università. Tutti settori in cui non eccelliamo.

Che dire poi della proliferazione – quasi sempre ingiustificata – di mini Facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati talora dall’esigenza politica di accontentare un territorio in cambio di rinnovate alleanze, talora per giustificare questa o quella cattedra spesso ottenuta attraverso la procedura, tutta italica, dell’«idoneità multipla»? Tra il 2000 e il 2006 le Università hanno bandito 13.232 posti per professori. Ne sono usciti 26.004 idonei. Più professori, più corsi, più fondi, più potere. A tutto discapito della qualità dell’offerta. In Italia ci sono decine di corsi di laurea che non arrivano nemmeno a 15 iscritti (qualcuno con un solo studente) e comportano costi elevatissimi e una quantità d’offerta inversamente proporzionale al suo pregio. In Italia esistono più di 20 Facoltà di agraria, in Olanda una sola. Facile pensare che lì sia concentrata l’eccellenza.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio, vecchia battaglia di Luigi Einaudi, avrebbe costretto le Università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti tanto dei corsi di laurea che della ricerca. Oggi invece una laurea conseguita in una nota Università vale tanto quanto quella ottenuta dall’unico studente iscritto a Camerino. Così i migliori tendono ad andare all’estero, le aziende non assumono chi non ha le abilità richieste e ai laureati tocca adattarsi a lavori che non c’entrano nulla con la loro preparazione.