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Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Vi sono aspetti quasi paradossali della nostra società a cui siamo talmente abituati che finiamo per accettarli, come fossero ineluttabili. Così è dell’eccesso di burocrazia, il vero macigno che frena la crescita del nostro Paese e la vita delle imprese. È questo il primo problema del nostro sistema produttivo, più ancora della pur pesantissima pressione fiscale.

In un Paese normale dovremmo immaginare frotte di funzionari pubblici pronti a stendere tappeti rossi a chi è disponibile a investire o a dare vita a una start up. Percorsi agevolati, autorizzazioni all’esercizio pressoché immediate, adempimenti ridotti e non tortuosi. Un atteggiamento dovuto se pensiamo che gli occupati in Italia sono oggi meno di quelli del 2008 e che in ogni caso il nostro tasso di occupazione è dieci punti inferiore a quello della media UE. Se vogliamo maggiore occupazione devono nascere nuove imprese e quelle esistenti debbono poter lavorare, visto che è ben difficile ipotizzare significativi ampliamenti degli organici nella pubblica amministrazione, che anzi deve dimagrire.

Invece il nostro imprenditore spesso si trova alle prese con il Processo di Kafka. Servono 269 ore – fonte Doing Business- solamente per pagare le tasse. Quasi due mesi di lavoro da perdere con bolli e scartoffie sono un enorme peso per un artigiano, che rischia anche di essere irriso dal suo omologo francese che per questi adempimenti deve utilizzare 137 ore. Se il nostro imprenditore vuole costruire un nuovo capannone sa che disgraziatamente lo aspetteranno 227 giorni per la concessione contro i 64 richiesti in Danimarca. Anche i tempi per l’allacciamento alla rete elettrica sono tra i peggiori d’Europa: ben 124 giorni contro i 28 della Germania. Nell’import-export i moduli da compilare sono decine, dalla scheda di trasporto alla comunicazione all’Agenzia delle Entrate passando per la dichiarazione Intrastat. E il cahier de doléance potrebbe continuare per pagine.

Conosco i temi, ho dato vita a un’azienda che oggi occupa quasi duemila persone. Situazioni come queste hanno spinto tanti imprenditori a mandare tutto quanto a quel paese e ad andarsene all’estero. Anche perché le attese dovute alla burocrazia qualche volta sono infinite: rimangono eclatanti gli oltre quarant’anni che l’imprenditore della grande distribuzione Caprotti ha dovuto attendere per aprire un supermercato a Galluzzo. Accanto ai casi noti sono innumerevoli quelli di tanti altri, di cui magari si parla per un giorno solo e che spesso costano la chiusura dell’azienda. Viene da chiedersi perché il sistema non possa essere semplificato e i controlli fatti a posteriori. Insomma realizzo un’opera o avvio un’attività sulla base di un progetto certificato dai miei professionisti e poi lo Stato controlla, superando costosi indugi.

Il tempo è la variabile che separa un’idea dalla sua attuazione e molto spesso segna la differenza fra successo e insuccesso. Raramente l’ufficio pubblico vedrà come obiettivo preminente la rapidità nel rilascio di qualche permesso o la riduzione di orpelli e procedure. Non vi è una visione socio-economica, a cui l’ufficio non è tenuto, ma solo una formale e in ordine a questo la politica ha enormi responsabilità. Al contrario, lo Stato è molto sollecito quando deve incassare. Prima l’Agenzia delle Entrate poi Equitalia non fanno sconti. Di più: arriviamo al paradosso per cui a seguito di un accertamento l’imprenditore deve comunque anticipare un terzo delle imposte contestate per guadagnarsi il diritto a fare ricorso. Tutto questo in un contesto in cui premi diretti o indiretti spingono talvolta ad accertamenti inizialmente rilevantissimi. Cifre che poi magari si sgonfiano ma che potenzialmente hanno distrutto l’azienda e limitato il suo merito creditizio. In ogni caso a queste contese la nostra partita Iva deve dedicare altro tempo sottratto alla produzione.

Non tutti gli imprenditori sono dei santi, è ovvio. Occorre però scommettere sul nostro sistema produttivo, non con incentivi ma con regole più semplici. L’economia globale è ben più competitiva che solidale e soprattutto non fa sconti.

Non reagiamo alla crisi

Non reagiamo alla crisi

di Massimo Blasoni – Metro

La crisi è l’effetto dei nostri errori passati e dell’incapacità di riformare il presente. Non è vero che sia solo di natura economica: sia il declino sia l’incapacità di reagirvi sono il frutto di qualcosa di più complesso. Formalismi e burocrazia sembrano le uniche patenti di credibilità e invece frenano le idee e l’innovazione. Tutto sembra difficile da realizzare, soprattutto se è nuovo, e gli elementi migliori spesso migrano all’estero (come hanno fatto, negli ultimi dieci anni, ben 896.510 nostri connazionali).

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I nuovi “poteri” in arrivo per Renzi e Padoan

I nuovi “poteri” in arrivo per Renzi e Padoan

di Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario

Le riforme più incisive sono sovente quelle incrementali che, a piccoli passi e senza farsi troppo notare, modificano equilibri consolidati. Dato che maiora premunt (ballottaggi, Brexit, consolidamento finanza pubblica, “gridi di dolore” dal Mezzogiorno e non solo), pochi hanno notato che il 15 giugno la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento alla normativa di aggiornamento (e attuazione) della nuova Legge di bilancio tale da potere mutare gli equilibri di poteri all’interno dell’esecutivo. È proprio uno quei cambiamenti incrementali che possono cambiare il funzionamento della gestione della finanza pubblica.

Andiamo con ordine. Da qualche anno lo strumento principale per la politica di finanza pubblica è la Legge di stabilità (che ha sostituito la Legge finanziaria del 1978). La Legge di stabilità ha avuto vita breve, e anche piuttosto tormentata. Dal prossimo settembre, di Legge di stabilità non si parlerà più. Entrerà pienamente in vigore la Legge di bilancio, la cui architettura e i cui punti fondamentali sono stati approvati nel 2009, ma di cui si stanno mettendo a punto gli strumenti attuativi tramite una serie di emendamenti al testo di sette anni fa.

Non solamente, la Legge di bilancio fonde in un unico documento normativo quanto, in passato, era dapprima nella Legge finanziaria e successivamente nella Legge di stabilità (ossia la manovra di finanza pubblica per rispettare gli obbiettivi concordati in sede europea) e quanto veniva proposto, discusso, emendato e approvato nel Bilancio di previsione (e negli Stati di previsione dei singoli Ministeri). La nuova legge amplia soprattutto le flessibilità del bilancio in fase sia di formazione, sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia tra spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede, per le prime, possibilità di variazione degli stanziamenti, nei limiti relativi alla natura economica della spesa e dell’invarianza complessiva dei saldi.

Nella normativa di aggiornamento e attuazione, in discussione alla Camera, sono stati aggiunti alcuni aspetti (dei quali taluni nel 2009 erano ancora nel grembo degli Dei) come l’introduzione dell’indice di Benessere equo e sostenibile (Bes, un indicatore elaborato dal Cnel e dall’Istat) e del Bilancio di Genere. Ancora più significativo è il rendere permanente la revisione della spesa o spending review: in primavera, i Ministeri specificheranno gli obiettivi di contenimento della spesa e le valutazioni verranno effettuate secondo modalità quali quelle indicate nella Guida Operativa recentemente pubblicata dal Centro Studi ImpresaLavoro; in tal modo si elimineranno, o almeno ridurranno, i defatiganti negoziati in settembre a ridosso della Legge di bilancio.

Ma andiamo al punto cruciale approvato il 15 giugno in Commissione e che da domani 21 giugno sarà in aula, prima di passare all’esame del Senato. La misura rafforza le funzioni di controllo da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze (in pratica della Ragioneria Generale dello Stato): se nel corso di un esercizio finanziario emergono scostamenti dalla previsioni, il Mef-Rgs, “sentito il Ministero competente”, provvede a spostare le risorse da un capitolo all’altro del dicastero. Nel caso che gli stanziamenti del Ministero “sotto vigilanza” si rivelassero insufficienti (o eccessivi), su proposta del Mef, e “previa delibera del Consiglio di Ministri”, il Presidente del Consiglio “provvederà con proprio decreto” alle revisioni.

La misura può essere interpretata sotto diversi aspetti. Da un lato, accentua la funzione del Presidente del Consiglio: non solo coordinatore, ma, “sentito il Consiglio dei Ministri” e dopo interazione tra Mef e dicasteri interessati, dotato di funzione d’intervento dirette sull’attuazione del bilancio dello Stato. Una caratteristica che, pur senza mutare la Costituzione, rende il Presidente del Consiglio molto simile a un Cancelliere, in materia di finanza pubblica e non solo. Ciò può piacere e non piacere. Tuttavia, occorre ricordare che l’autonomia dei singoli Ministeri (pur vigilati, per aspetti differenti, da Rgs, Corte dei Conti e quant’altro) non ha sempre avuto aspetti positivi. Nei cinque anni, ad esempio, in cui ho servito come componente del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali e Paesaggistici (questa era la denominazione dell’epoca), mi sono confrontato con ben 254 “Contabilità speciali” di cui si era dotato il dicastero, dove , nonostante il “pianto greco” di mancanza di risorse dal 1990 al 2008 la spesa per restauri, investimenti, supporto ai beni librari e via discorrendo era stata mediamente pari al 44% delle risorse assegnate. Le Contabilità speciali “inguattavano” impegni di spesa che sovente non erano neanche basati su contratti.

Bolletta elettrica: il record nostrano

Bolletta elettrica: il record nostrano

di Massimo Blasoni – Metro

Menomale che state leggendo questo mio intervento la mattina presto in metro e non invece la sera, magari a letto dopo aver acceso la lampadina sul comodino. La bolletta costa, ma forse non sapete quanto. Elaborando i dati Eurostat, il nostro Centro studi ha calcolato che negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno visto crescere addirittura del 25,56% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici. Prendendo in considerazione i 28 Paesi europei scopriamo peraltro che, in questo stesso periodo, il prezzo dell’energia domestica è diminuito solo in sei nazioni: Ungheria (-30,63%), Malta (-23,52%), Repubblica Ceca (-6,25%), Slovacchia (-4,24%), Cipro (-2,17%) e Svezia (-1,90%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è invece cresciuta n maniera consistente: +56,65% in Lettonia, +51,96% nel Regno Unito, +47,91% in Grecia, +40,43% in Portogallo, +30,73% in Spagna, +25,29% in Francia e +22,52% in Germania.

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Italiani in fuga: quasi un milione di emigrati negli ultimi dieci anni (più di 136mila nel solo 2014)

Italiani in fuga: quasi un milione di emigrati negli ultimi dieci anni (più di 136mila nel solo 2014)

Negli ultimi dieci anni gli italiani emigrati all’estero sono stati complessivamente 896.510, di cui 136.328 soltanto nel 2014 (+8,42% rispetto all’anno precedente): una cifra più che raddoppiata rispetto ai 65.029 connazionali che avevano lasciato il Paese nel 2005. È il dato principale che emerge da una analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

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Nel periodo 2005-2014 ben 114.341 connazionali si sono trasferiti in Germania (17.236 nel 2014, +25,74% rispetto all’anno precedente), 84.955 nel Regno Unito (14.991 nel 2014, +6,65% rispetto all’anno precedente), 62.902 in Francia (10.334 nel 2014, +8,62% rispetto all’anno precedente), 73.613 in Svizzera (11.051 nel 2014, +4,88% rispetto all’anno precedente) e 39.687 in Spagna (4.701 nel 2014, +3,61% rispetto all’anno precedente). Nello stesso periodo di tempo 44.528 nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti (5.951 nel 2014), 19.305 in Cina inclusa Hong Kong (2.944 nel 2014), 11.510 in Australia (1.873 nel 2014) e 9.479 in Canada (1.307 nel 2014). A trasferirsi all’estero nel 2014 sono stati soprattutto giovani tra i 15 e i 34 anni: in tutto 51.906, con un incremento del 10,33% rispetto al 2013 e in numero più che raddoppiato rispetto al 2005 (quando erano stati 24.832). Le loro mete preferite sono state il Regno Unito (7.675 emigrati, +4,65% rispetto al 2013), la Germania (7.453, +27,49%), la Svizzera (4.242, +8,08%) e la Francia (3.714, +3.80%) e gli Stati Uniti (2.162, +10,48%).

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«Cresce costantemente negli ultimi anni il numero degli emigrati italiani – ha spiegato l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – e quel che preoccupa è l’elevato numero di giovani che scelgono di costruirsi un futuro lontano dal nostro paese. Negli ultimi dieci anni il numero di italiani under 35 che cercano fortuna altrove è più che raddoppiato: è certamente un segno di un mondo sempre più globale ma anche e soprattutto di un paese che non riesce a rappresentare un’opportunità per crescere e realizzarsi».

La famiglia in una società che invecchia

La famiglia in una società che invecchia

Nel contesto di un più vasto studio sulla “prassi globali per contrastare la povertà e migliorare l’equità”, la Banca Mondiale ha esaminato il tema “dell’invecchiamento e della solidarietà familiare in Europa” in un paper (Policy Research Working Paper No.7678) , diffuso, per ora, solamente in via telematica agli abbonati ai servizi dell’istituzione con sede a Washington. Il documento prende avvio dalla constatazione che “all’inizio del ventunesimo secolo”, le relazioni inter-generazionali rimangono un aspetto essenziale della crescita e della sostenibilità del modello sociale europeo.

Tramite una vasta rassegna della letteratura, vengono messi a confronto i differenti strumenti di “scambio intergenerazionale” attuati in Europa. Ne deriva una tassonomia, in base alla quale i Paesi europei sono divisi in tre gruppi: a) quelli nordici (tra cui vengono inclusi anche Francia e Belgio che hanno una strumentazione abbastanza simile a quelle degli altri della categoria); b) quelli meridionali (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e c) quelli dell’Europa centrale ed orientale aderenti all’Unione Europea. Una conclusione di rilievo: “l’intensità delle attività dei nonni” nei Paesi dell’Europa meridionale è tale da “rappresentare un’alternativa a servizi pubblici, spesso molto carenti per la cura dei bambini. Vivere insieme è anche una strategia utilizzata dalle famiglie per aiutarsi a vicenda”.

Inoltre, nei Paesi dell’Europa meridionale, le donne dedicano maggior supporto, e maggior tempo, alla cura degli anziani e dei mariti di quanto non facciano gli uomini, i quali invece forniscono maggiori aiuti economici ai figli. “I livelli di istruzione e di reddito” inoltre sono fortemente correlati alle tipologia di supporto familiare: contrariamente alle impressioni superficiali, sono le famiglie a reddito alto e medio alto a fornire più risorse e più tempo agli anziani, ai figli ed ai nipoti, mentre “il supporto informale” è molto debole nei ceti a basso reddito.

Il documento solleva, indirettamente, molti interrogativi per quanto attiene alla politica seguita dall’Italia. Non sarebbe preferibile un sistema tributario basato su quozienti familiari per meglio permettere quel supporto intra-familiare che sembra essere una delle caratteristiche del Paese? Misure come gli 80 euro ai dipendenti a basso reddito ed i 500 euro ai diciottenni (senza differenziazione di reddito o di ricchezza) sono efficienti ed efficaci e vanno nella direzione dove sta andando il resto d’Europa o ci distanziano ancora di più dalle “buone prassi” altrui?

Bolletta energetica: costi per le famiglie cresciuti del 25,56% negli ultimi cinque anni

Bolletta energetica: costi per le famiglie cresciuti del 25,56% negli ultimi cinque anni

Negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno visto crescere i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici del 25,56%: è questo il risultato di una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dei prezzi dell’energia elettrica per le famiglie in tutta Europa. L’analisi ha preso in considerazione i prezzi medi dell’energia fornita a consumatori domestici e il loro andamento dal 2010 ad oggi. Rispetto a cinque anni fa tra i 28 paesi oggetti del monitoraggio solo in sei nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-30,63%), Malta (-23,52%), Repubblica Ceca (-6,25%), Slovacchia (-4,24%), Cipro (-2,17%) e Svezia (-1,90%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti: + 56,65% in Lettonia, +51,96% nel Regno Unito, +47,91% in Grecia, +40,43% in Portogallo. Tra le grandi economia cresce l’onere per le famiglie anche in Spagna (+30,73%), Francia (+25,29%), Germania (+22,52%) e, come detto, Italia (+25,56%).

andamento energia

Nel nostro paese, quindi, il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da € 0,1943 per kWh del 2010 a € 0,2439 kWh del 2015. Stimando nel 2015 un consumo medio annuo per famiglia di 2.579 kWh (fonte: osservatorio facile.it) si ottiene un costo a carico di ogni famiglia per la sola bolletta elettrica di 629€ su base annua. A livello europeo solo in Irlanda, Germania e Danimarca l’energia costa di più che nel nostro paese. Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia risparmierebbe 203,61€ su base annua; 73,50€ se vivesse nel Regno Unito e 25,66€ se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: + 131,40€.

costo energia

Si tratta di costi comprensivi di tasse e accise che nel nostro paese rappresentano il 38,79% del prezzo finale. Un dato superiore sia alla media dell’Area Euro (37,85%) che dell’Unione Europea (32,62%). L’incidenza delle imposte è più elevata che da noi in Danimarca (68,38%), Germania (51,53%) e Portogallo (49,54%). Il fisco pesa meno nella bolletta delle famiglie in tutte le altre economie continentali: Regno Unito (4,76%), Spagna (21,37%) e Francia (34,10%).

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Come far decollare il Mezzogiorno?

Come far decollare il Mezzogiorno?

E’ molto che non si parla di Mezzogiorno, se non lamentando il progressivo degrado. Gli indicatori economici prodotti periodicamente dall’ISTAT e da istituti di ricerca documentano non solo come sta aumentando il divario tra Pil pro-capite del Sud e delle Isole ed il resto del Paese e la ripresa dell’emigrazione alla ricerca di lavoro, ma anche un vero e proprio processo di desertificazione dell’industria manifatturiera. Mentre è proprio la manifattura ad essere il tassello per lo sviluppo del Mezzogiorno. In effetti, il Sud e le Isole non sembrano avere più quella centralità nella politica economica italiana che avevano quando all’inizio degli Anni Novanta, il “rapporto Amato” produsse una serie di proposte (peraltro mai attuare) per porre il problema al centro della politica economica del Paese indicando anche azioni e strumenti specifici.

Il Quinto Rapporto della Fondazione Ugo La Malfa su Le Imprese Industriali del Mezzogiorno include non solo una dovizia di statistiche ed analisi ma anche un paper di Giorgio La Malfa (intitolato “Per Il Rilancio delle Politiche Meriodionalistiche”) con proposte specifiche di politica economica. La più interessante ed innovativa riguarda l’individuazione di pochi – essenzialmente uno per regione – poli di attrazione e di localizzazione degli investimenti che presentino e garantiscano condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi insediamenti industriali. In particolare m questi poli di sviluppo dovrebbero avere: a) collegamenti efficaci stradali e ferroviari con porti, aeroporti e mercati di sbocco; b) disponibilità in loco di servizi come acqua, elettricità, collegamenti in banda larga, etc.; c) un sistema a tutta prova di sicurezza delle infiltrazioni della criminalità; d) una presenza di terminali di grandi aziende di credito, che dovrebbero essere poste in concorrenza tra loro in questa aree; e) collegamenti con le Università del territorio che consentano di sviluppare tempestivamente le competenze richieste e f) se possibile, agevolazioni fiscali.

Si può dire che non è un’idea nuova. Ricorda sotto molto aspetti l’approccio della unbalanced growth negli Anni Sessanta e soprattutto i lavori sui poli di sviluppo di François Perroux dell’ISEA (Istituto Studi Economia Applicata) sempre di quegli anni. In quel clima, circa cinquant’anni fa, poli di sviluppo sono stati creati nel Mezzogiorno; in quel periodo c’è anche stata una riduzione del divario tra il Sud e le Isole ed il resto del Paese. Purtroppo i ‘poli’ di allora sono adesso archeologia industriale perché non si è rimasti al passo con i cambiamenti della tecnologia, con le necessarie trasformazioni della specializzazione produttiva ed il processo di internazionalizzazione dei mercati. Perché non riprovare, tenendo conto delle nuove condizioni dell’economia internazionale?