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Debiti Pa: ImpresaLavoro al Tg5

Debiti Pa: ImpresaLavoro al Tg5

Il Tg5 commenta i dati del Centro Studi ImpresaLavoro sullo stock dei Debiti che la Pubblica Amministrazione ha con le imprese italiane e sul suo costo per le nostre aziende.

Gli “enti inutili” vanno soppressi

Gli “enti inutili” vanno soppressi

di Massimo Blasoni – Metro

In attesa dell’esito dei ballottaggi nei Comuni più importanti, proviamo a ipotizzare un sistema istituzionale non solo senza Province ma che si articoli in appena sei Regioni (invece di 20) e mille Comuni (invece di 8.100). La soppressione di un così grande numero di enti renderebbe possibile la gestione dei servizi e delle funzioni oggi appannaggio dei vari livelli del governo locale? Sono convinto di sì ed è quanto ho provato a spiegare nel libro “Privatizziamo!”.

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Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Ci vuole valutazione per ridurre la spesa pubblica

Salvatore Zecchini * – Il Foglio

Il populismo di proposte quali il reddito di cittadinanza di cui ha parlato il Foglio ieri e la recente pubblicazione del volume di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La Buona spesa – Guida operativa alla spending review” (edito dal Centro studi ImpresaLavoro) riaccendono l’attenzione sulla spesa pubblica. Questa ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso, con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha oscillato tra il 49,1 per cento del Pil nel 2011 e il 51,2 per cento nel 2014 (50,5 nel 2015), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota serve a remunerare il debito pubblico (4,2 per cento del Pil nel 2015), un’altra a migliorare il potenziale economico attraverso investimenti in capitale fisso (2,3 per cento nel 2015) e capitale umano (8 per cento per istruzione e ricerca), e un 2 per cento circa alla difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile attorno al 42 per cento del Pil. Ad eccezione della spesa per interessi, che è guidata dalla Banca centrale europea e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa quella sociale, si presta logicamente a una revisione, anche quella definita come “non aggredibile”. Infatti, ben poco rileva che gran parte abbia carattere obbligatorio, perché nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Dal 2011 i governi hanno dovuto intraprendere la strada della revisione sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’Ue e della Bce, il rischio di insostenibilità del debito in presenza di stagnazione o recessione economica, e l’acuta intolleranza di imprese e famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale. Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 per cento del Pil dal 2012 al 2015 (43,5 per cento nel 2015), mentre la spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente. Le quattro esigenze, pur essendo distinte, sono collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Tuttavia, ridurre la spesa pubblica in una fase in cui famiglie ed imprese tendono a spendere meno può apparire come una mossa azzardata e controproducente per la crescita. Nondimeno, questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più efficaci per la crescita di medio periodo, ovvero per la competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse delle nuove generazioni. Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia: una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce, delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è percorribile e in quali tempi? Se una riforma costituzionale della politica, delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente, i tempi indubbiamente sarebbero lunghi. Occorre, pertanto, iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito assume un ruolo fondamentale la valutazione economica, benché sia resa molto ardua dalle carenze di informazione e di competenze tecniche nella Pa. Non si sa ancora abbastanza per valutare la gestione degli enti decentrati, dei servizi pubblici locali, società partecipate, meccanismi delle commesse pubbliche, performance delle scuole, gestione di ospedali, Asl, università, etc.. La capacità di valutare della Pa, inoltre, è limitata dalla scarsa conoscenza delle metodologie, mentre l’impiego di esperti indipendenti è visto con timore.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 miliardi nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 miliardi del 2016 ai 28,7 miliardi del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale più che su Regioni e Comuni e, in particolare, su consumi intermedi e personale, toccando sia le retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del Def si desume anche che parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello presente della spesa ma sulla sua espansione futura.

A parte i dubbi sulla fattibilità, i tagli si accompagnano a nuove spese, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, Regioni e Comuni sono toccati meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina accumulando debiti occulti, con ritardi nei pagamenti ai fornitori o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni di ogni singola voce di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali, sulla riorganizzazione della Pa, al centro come in periferia, sulla sua responsabilizzazione e sulle sanzioni. La valutazione non può, d’altronde, esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento. Diversi altri strumenti potrebbero essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla determinazione della leadership nel ridurre sostanzialmente spesa e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa che è carente nella nostra particolare democrazia.

* Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico di ImpresaLavoro

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

di Salvatore Zecchini*

La recente pubblicazione del Documento di Economia e Finanza del Governo, nonché del libro di Pennisi e Maiolo “La buona spesa”, riaccende l’attenzione sull’urgenza di ridurre la spesa pubblica, in particolare quelle parti frutto di sprechi ed inefficienze, al fine di acquisire margini per interventi mirati ad accrescere il potenziale produttivo del Paese.

La spesa pubblica ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha costantemente oscillato tra poco sotto (49,1% nel 2011) e poco sopra il 50% del PIL (50,5% nel 2015; 51,2% nel 2014), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito rispetto alle imprese, famiglie e settore estero.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota tra il 4,8 e 4,2 % del PIL è diretta alla remunerazione del debito pubblico (4,2% nel 2015) e una quota attorno al 2% del PIL (2,3% nel 2015) è destinata alla formazione di capitale nella forma di investimenti fissi utili per migliorare il potenziale di crescita. Inoltre una quota pari all’8% serve per investire in capitale umano attraverso il sistema di istruzione e ricerca, e un 2% circa in spese per la difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile negli ultimi 3 anni, collocandosi nell’ordine del 42% del PIL (42,2% nel 2015).

Lasciando da parte la spesa per interessi, che è guidata dalla BCE e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa la spesa sociale, si presta logicamente a passare sotto l’esame di una revisione di spesa, anche la spesa definita come “non aggredibile”, che Piero Giarda ha stimato in 500 mld circa. Infatti, ben poco rileva che una parte sostanziale della spesa ha carattere obbligatorio, perché all’esecutivo nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Una volta definito l’ambito di revisione della spesa, bisogna affrontare il problema della finalità della revisione, perché questa ne condiziona e delimita il campo di applicazione, la portata e le modalità. Revisione non vuol dire tagli, specialmente se indiscriminati, ma ottenere lo stesso risultato, o uno migliore, al minor costo.

Dal 2011 i governi hanno perseguito la strada della revisione di spesa sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’UE e della BCE, il rischio di insostenibilità del livello di debito accumulato in un contesto di tendenza alla stagnazione se non all’arretramento della produzione di reddito, e l’acuta intolleranza mostrata da gran parte delle imprese e delle famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale.  Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 % del PIL dal 2012 al 2015 (43,5% nel 2015), mentre il livello in valore assoluto della spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente.

Quindi, attualmente la revisione della spesa è dettata da quattro esigenze distinte ma collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Il DEF usa termini meno espliciti, o eufemismi, parlando di controllo della spesa e sua razionalizzazione per acquisire margini per la riduzione delle imposte.

Ridurre la spesa pubblica in una fase in cui si evidenziano carenze di domanda aggregata, particolarmente nei settori imprese e famiglie, può apparire  come una mossa azzardata e controproducente per la crescita.

Questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra, tuttavia, né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché in via di principio si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più produttive di effetto sulla crescita di medio periodo, ovvero su competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività tra i dipendenti pubblici, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse supremo delle nuove generazioni.

Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista in una economia apparentemente di mercato, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia. Una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è o no percorribile, e in quali tempi? Una riforma costituzionale della politica, dell’articolazione delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente per un paese così piccolo, anche se disomogeneo, come il nostro. I tempi indubbiamente sarebbero lunghi; tuttavia, occorre iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito primario di revisione profonda della spesa assume un ruolo fondamentale la valutazione economica. Le sue modalità e le sue precondizioni richiedono tuttavia diverse precisazioni.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 mld nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 mld del 2016 ai 28,7 mld del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale piuttosto che sugli enti decentrati (Regioni e Comuni) e, in particolare, sui consumi intermedi e sul personale, toccando sia l’ammontare delle retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del DEF si desume anche che una parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello della spesa ma sulla sua espansione futura. Alla luce delle reazioni tra i settori colpiti e dalle pronunce della magistratura sui ricorsi sorgono, nondimeno, dubbi sulla realizzabilità di tale programma. Se, invece, si attuasse sarebbe un grande risultato perché per la prima volta si arriverebbe a tagliare circa 100 mld in 5 anni.

Tuttavia, ai tagli si accompagnano nuove spese programmate, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, le Regioni e i Comuni sono coinvolti meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina dei tagli accumulando debiti occulti, come i ritardi nei pagamenti ai fornitori, o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni delle singole voci di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali e sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione, al centro come in periferia. Donde la necessità di una profonda riforma istituzionale. Tagli lineari di spesa sono invece inaccettabili anche sul piano politico, sebbene siano stati usati in questi anni.

Né si possono limitare i risparmi solo agli acquisti di beni e servizi per consumi intermedi, ma devono investire ogni comparto di spesa. Una giustificazione si trova nella analisi fatta sotto il governo Monti con il contributo di Giarda, che arrivava a stimare un eccesso di spesa tra il 20% e il 30% del totale aggredibile, ossia ai valori del 2015 si tratta di riduzioni tra 60 e 90 miliardi.

Le difficoltà di una riduzione oculata di spese stanno, oltre che sul piano degli interessi di parte, nella carenza delle condizioni per una valutazione accurata di ogni singola voce o ente, in quanto vi sono ancora molti vuoti di conoscenza. Non si sa ancora abbastanza per una valutazione sulla gestione degli enti decentrati, sui servizi pubblici locali, sulle società partecipate, sui meccanismi delle commesse pubbliche, sulla performance delle scuole, sulla gestione degli ospedali etc..

Per una valutazione adeguata degli investimenti bisognerebbe predisporre l’obbligo del beneficiario a fornire una serie di informazioni che sono essenziali per una valutazione in itinere ed ex-post. Le valutazioni che si fanno finora hanno un carattere di formalità cartolare, piuttosto che di esame dell’efficienza, dei risultati e dell’impatto economico.

Le valutazioni ex-post degli investimenti e della spesa corrente sono quasi del tutto assenti e nei pochi casi in cui esistono, non sono rese pubbliche se non raramente. I politici non amano che si dimostri i difetti delle loro scelte d’intervento e le inefficienze di gestione. Di conseguenza, viene a mancare quel processo di apprendimento dagli errori del passato, che permette di migliorare l’azione pubblica per il futuro.

Una difficoltà della valutazione sta anche nella scarsa conoscenza della metodologie di valutazione da parte dei funzionari pubblici. Un’altra risiede nei meccanismi di spesa e nell’organizzazione  dell’amministrazione. La valutazione non può esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento.

Come porre rimedio a questi ostacoli attraverso una riduzione di spesa su base valutativa? La lotta alla corruzione e la centralizzazione degli acquisti, sebbene importanti, appaiono come strumenti di parziale efficacia. Ad esempio, gli acquisti di un ente ospedaliero per forniture varie possono essere esenti da fenomeni corruttivi e rispondere ai criteri standard della centralizzazione, ma risultare allo stesso tempo inefficienti o inefficaci, nel caso in cui opzioni alternative consentissero di curare il paziente meglio e a costi inferiori.

Occorrerebbe avere un processo frequente di rivalutazione delle scelte di spesa, condotta da organismi indipendenti con pieno accesso alle informazioni necessarie e resa perfino pubblica. Questo è lo spirito dello zero-base budgeting.

Occorrono anche regole vincolanti in tal senso, che si applichino a tutta l’amministrazione pubblica, inclusi Regioni e Comuni. Ciò implica una piena responsabilizzazione dei centri di spesa e un forte vincolo finanziario tendente a fare attuare un programma di riduzioni di spesa a parità di prodotto su un arco pluriennale. Al tempo stesso, occorre penalizzare seriamente coloro che hanno consentito gli scostamenti di spesa e le istituzioni di appartenenza. Si sono già visti, in particolare, diversi modi di aggirare i vincoli, spostando spese in capo a società pubbliche ed espandendo i debiti verso imprese e banche.

Anche la valutazione d’impatto dovrebbe guidare le scelte, possibilmente sperimentando tecniche nuove, come la stima di soluzioni contro-fattuali, o la selezione casuale su piccola scala dei destinatari degli incentivi agli investimenti all’interno di un gruppo di progetti ritenuti eleggibili per le agevolazioni.

Naturalmente, questa opera di razionalizzazione richiede un massiccio sforzo di formazione dei decisori pubblici in materia di valutazione e gestione della spesa, con un parallelo sviluppo di metodologie adeguate e certificate nella loro efficacia. Paesi come la Germania e il Regno Unito da anni percorrono questa strada.

Altri strumenti potrebbero parimenti essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla volontà e determinazione della leadership del Paese di ridurre sostanzialmente entrambi, spesa pubblica e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa volontà che è soprattutto assente nella nostra particolare democrazia.

 *Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico ImpresaLavoro

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il Foglio dell’8 giugno 2016.

Spending review e project review: soluzioni senza convinzioni

Spending review e project review: soluzioni senza convinzioni

di Gemma Mantovani – Leoni Blog

“This is a Budget that gets investors investing, savers saving, businesses doing business; so that we build for working people a low tax, enterprise Britain; secure at home, strong in the world. I commend to the House a Budget that puts the next generation first.” Sono queste le ispirate e convinte parole, sintesi del manifesto ideale – politico che concludono il discorso di George Osborne, attuale Cancelliere dello scacchiere britannico (il nostro ministro delle finanze) e che motivano il suo programma quinquennale di spending review presentato lo scorso marzo che ha come obiettivo portare il debito pubblico inglese al 36% del PIL nel 2020 (www.gov.uk, The Budget speech in full). Il discorso ed il documento cartaceo è rinchiuso dall’epoca di William Ewart Gladstone nella red box più famosa di tutte, il budget box, elegante 24 ore di pelle rossa. L’idea forte fortissima di George Osborne e del Governo che rappresenta è quella dell’Enabling State cioè l’idea che lo stato principalmente e preliminarmente autorizza e delega i cittadini a dispiegare innanzitutto le proprie capacità e risorse nella sfera economico sociale. Ed è questa la convinzione forte e liberale di “Stato sussidiario” rispetto alla primaria azione dei cittadini che anima e sta alla base delle scelte di spending review proposte.

Sulla spending review come soluzione a tutti i mali del debito nostrano si sono scritti fiumi di parole ed alla fine è risultata una ricetta fuori da un menù, ridotta a settoriali operazioni di chirurgia finanziaria fingendo di non vedere lo stato di salute generale del paziente, lo Stato, che con un debito pubblico tra i più alti del pianeta è molto, molto malato. Ma la spending review è già superata, il governo è, sul piano lessicale, già oltre. Quando lo Stato deve proprio spendere, come può essere nel caso delle infrastrutture, il concetto di revisione di spesa prende ora il nome di revisione dei progetti. Di project review si parla nell’Allegato sulle strategie per le infrastrutture di trasporto e logistica nel documento economico finanziario 2016. La project review è una sottospecie o, se si preferisce, uno dei tanti aspetti della revisione, meglio, del controllo della spesa, la codificazione della naturale ragionevolezza del saper mettere in discussione affrontabilità finanziaria e utilità economica dei progetti infrastrutturali che il più delle volte sedimentano per anni. Come osservato da commentatori esperti, se l’intenzione è lodevole perché si esplicita la volontà di valutare tutte le opere in modo omogeneo, selezionarle in modo trasparente e viene delineata la volontà di procedere a una “project review” delle scelte pregresse in funzione delle mutate condizioni di mercato, si continua a permettere di definire scelte progettuali a priori il che, in molti casi, può contraddire il concetto di valutazione e, pertanto, di investimento di denaro pubblico oculato.

Proprio il saper utilizzare validi metodi di valutazione trasparenti è strumento essenziale per spendere meno e spendere bene. Nella recente pubblicazione “La buona spesa “di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo (ed. Centro studi ImpresaLavoro) vengono con precisione e puntualità scientifica spiegate le varie tecniche, criteri, metodi e procedure di valutazione possibili, con un buon numero di esempi concreti, perché, appunto, la spesa pubblica diventi oltre che inferiore, anche migliore, misurabile, efficiente, e dunque buona.

La Red Box è il simbolo di una politica che sa esplicitare con estrema chiarezza e trasparenza le ragioni delle sue scelte, condivisibili o meno, le convinzioni ideali alla base delle sue “reviews”; essa conserva non solo numeri, proiezioni e percentuali di risparmio ma anche l’idea di Enabling State, di “big society e small government” del rapporto stato – cittadino che rappresentano il fondamento di quelle scelte di quel governo di revisione della spesa. Ma si sa, nel nostro paese di spending review non parla il Ministro delle Finanze: abbiamo creato entità satellitari al pianeta governo, un po’ alieni e un po’ fantasmi, i commissari. Se certamente le “reviews” sono diventate più che un simbolo uno slogan ad effetto, è del tutto oscura l’idea politica che le sostiene. Non è certo quello del nostro Ministro delle Finanze che nelle recentissime dichiarazione di premessa al DEF 2016 (www.mef.gov.it) ha dichiarato: “Il Governo ritiene inopportuno e controproducente adottare una intonazione più restrittiva di politica di bilancio”. Chiediamo agli economisti cosa sia “l’intonazione” di una politica di bilancio. Intuiamo sia qualcosa di lontano appunto anni luce dal contenimento del debito pubblico.

Come fare la Spending Review?

Come fare la Spending Review?

di Gabriele Rosana – Formiche.net

«Una spesa pubblica fatta bene, e per evitare una condanna a vent’anni, si può fare». Stavolta, però, le patrie galere e la legislazione anticorruzione a tamburo battente – anche se si tratta di denaro pubblico – c’entrano poco. «La condanna a vent’anni» di cui parla Giorgio La Malfa è la sentenza emessa nei giorni scorsi dal Fondo monetario internazionale sullo stato di salute dell’economia italiana, secondo cui il nostro Paese, al ritmo di crescita previsto dal governo, tornerebbe ai livelli di produttività pre-crisi del 2007 «solo a metà degli anni Venti». In mezzo, due decenni andati in fumo.

L’ex ministro tira in ballo la profezia dalle tinte fosche degli osservatori dell’Fmi nell’introdurre giovedì scorso al pubblico romano – nella sala della Fondazione Ugo La Malfa, a due passi da Torre Argentina – il volume di fresca pubblicazione degli economisti Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La buona spesa: dalle opere pubbliche alla spending review”, primo libro edito dal centro studi ImpresaLavoro in cartaceo e in formato ebook. Una guida operativa dal sapore liberale e pro-mercato che ha come destinatari privilegiati coloro che gestiscono la spesa pubblica dello Stato ma – e forse soprattutto – delle Regioni e degli enti decentrati, perché, come insiste Pennisi – una vita fra Banca mondiale, ministeri e docenze italiane – è indispensabile ricorrere a metodi e tecniche per valutare investimenti e opere pubbliche, senza lasciare nulla al caso e all’improvvisazione. Ma non solo. Perché il testo «non è un libro di teoria economica ma una guida» rivolta a un pubblico anche di non addetti ai lavori, scritta con linguaggio accessibile e non tecnico su come valutare correttamente e tagliare efficacemente la spesa pubblica, riconvertendola a virtù ad essa oggi estranee, indicando – continua Pennisi – «i metodi migliori per scremare lì dove si annidano sprechi e costi della politica. Per quale motivo non si riesce a ridurre la spesa pubblica e tutti i commissari del governo dediti alla spending review falliscono?». Una dopo l’altra son rotolate le teste di Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio e Carlo Cottarelli. «I fautori della spending review altrove nel mondo operano all’interno dell’autorità statale: dovrebbe cioè essere un impiego della Ragioneria dello Stato, non di un commissario ad hoc» annota Pennisi.

Stefano Maiolo, coautore del testo e componente del nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio, rileva che l’allergia alle pagelle è ben radicata nel corredo genetico del Belpaese: «Il timore della valutazione è diffuso sin dalla tenera età, come dimostra la vicenda del boicottaggio dei test Invalsi promossi dall’Ocse fra i banchi di scuola». Ma per tornare alle colpe “dei grandi” – quegli stessi “grandi” che scansano i compromessi intergenerazionali e privilegiano gli interessi correnti – Salvatore Zecchini, docente a Tor Vergata e alla testa del gruppo di lavoro Ocse sulle Pmi, punta il dito contro «i ministri che non vogliono valutare, perché temono che con la valutazione si giunga a un giudizio nel merito delle loro scelte di spesa».

Una vecchia illusione, quella di comprimere la spesa pubblica, benché vi sia almeno un 20% di margine di manovra – secondo l’ottimistica visione di Giarda, il primo incaricato dell’ufficio chirurgico – insiste La Malfa: «Può mai un governo alienarsi corpose categorie sociali che vanno alle urne?». I repubblicani, in fondo, non erano un partito di massa e «qualche scelta coraggiosa potevano pure prenderla…» «Tagli alla spesa pubblica, meno imposte e reimpiego in investimenti» è la risposta tranchant di Zecchini a chi invoca la cura Giavazzi di abolizione degli incentivi alle imprese. E, insieme, porre le basi per una cultura della valutazione «che prenda le mosse dai dati e dalla formazione di chi è addetto a gestire le politiche pubbliche: occorre colmare i vuoti di conoscenza quanto ai metodi, ma anche pretendere che i beneficiari di investimenti forniscano le informazioni indispensabili per valutare il finanziamento». E certo queste linee guida, per molte Regioni e enti locali, imporrebbero come prerequisito anche solo una semplice programmazione.

Ma il faro perpetuo a cui guardano gli autori de “La buona spesa” è l’intramontabile Ronald Reagan: fu lui a volere negli Stati Uniti una delle poche leggi mai più cambiate nell’ordinamento a stelle e strisce, sottolinea Pennisi, e cioè quella che obbliga «tutti i settori del governo e le agenzie pubbliche a corredare i propri interventi di spesa con analisi costi/benefici», sino a giungere alla valutazione degli impatti, all’analisi del rischio e alla valutazione come condizione essenziale per ogni decisione ponderata. «Revisione della spesa pubblica, del resto, vuol dire puntare a una spesa di qualità: non tagli indiscriminati ma cosa fare, come e perché».

Debiti PA – Interrogazione di Antonio Tajani (Ppe) alla Commissione UE

Debiti PA – Interrogazione di Antonio Tajani (Ppe) alla Commissione UE

Ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni italiane

Secondo un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, basata sull’ultima indagine annuale di Intrum Justitia sui rischi del credito commerciale in Europa, lo scorso 31 dicembre 2015 il totale dei debiti pregressi contratti dalla Pubblica Amministrazione (PA) italiana nei confronti di imprese fornitrici ammontava a 61,1 miliardi di euro. Anche i tempi di pagamento delle PA italiane risultano essere allarmanti. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega, infatti, in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna e 55 giorni più del Portogallo.

Alla luce di quanto esposto, si chiede alla Commissione:

1. In che modo e con quali iniziative intende agire per contrastare i ritardati pagamenti da parte delle PA italiane, che hanno conseguenze negative sull’intera economia del Paese, in particolare su artigiani, piccole e medie imprese e start-up;

2. Se il dialogo avviato con le autorità italiane, nell’ambito della procedura d’infrazione in corso, ha prodotto effettivi miglioramenti per quanto concerne la riduzione del debito pregresso contratto dalla PA e il rispetto della nuova direttiva Ue contro il ritardo dei pagamenti, che impone alle PA di saldare di saldare le fatture di acquisto entro 30 giorni, pena l’applicazione automatica di interessi di mora nell’ordine di 8 punti addizionali all’Euribor.

Un voto da esaminare? Quello svizzero

Un voto da esaminare? Quello svizzero

Vittorio Pezzuto – Metro

Il voto più importante di questi giorni resta a mio giudizio quello svizzero. Gli elettori dei 26 Cantoni hanno infatti bocciato con uno straripante 77% il referendum che proponeva di elargire un reddito minimo garantito a tutti i cittadini elvetici. Questi valligiani son gente concreta, che bada giustamente ai propri interessi. Sanno bene come un reddito non possa prescindere dal lavoro e infatti si industriano ogni giorno per guadagnare sempre di più, orgogliosi del loro successo personale. Tant’è vero che agli autori di questa strampalata proposta hanno così replicato: «Ma siete matti?! I soldi mica nascono sotto le pietre. Come disse Margaret Thatcher, non esiste il denaro pubblico: esiste solo il denaro dei contribuenti. E noi non abbiamo nessuna intenzione di pagare nuove tasse per far fronte al costo di una mancia assistenziale mensile (fino alla tomba) di 2.250 euro per ciascun adulto e addirittura di 560 euro per ciascun minorenne.

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Il debito dell’Eurozona

Il debito dell’Eurozona

Il 31 maggio, all’assemblea della Banca d’Italia, il problema del debito dell’eurozona è stato appena sfiorato nelle “considerazioni finali” del Governatore Ignazio Visco. In questi giorni, tuttavia, è stato al centro e della sessione del Consiglio della Banca centrale europea (Bce) tenuta a Vienna il primo giugno e di un convegno internazionale organizzato dall’Università La Sapienza di Roma dal 30 maggio al primo giugno. Le discussioni del Consiglio Bce sono naturalmente coperte da riserbo. I “paper” presentati al convegno alla Università La Sapienza verranno finalizzati nelle prossime settimane e pubblicati negli atti dell’iniziativa.

Tuttavia, alcuni lavori apparsi di recente consentono di avere un’idea dell’aria che tira. Nella vasta letteratura scientifica di queste settimane è di particolare rilievo il lavoro di Paul De Grauwe, Yuemei Ji e Armin Steinbach (rispettivamente della London School of Economics, dell’University College di Londra e del Nuffield College della Università di Oxford) The EU Debt Crisis: Testing and Revisiting Conventional Legal Doctrine (La crisi del debito dell’eurozona: testare e rivisitare la dottrina legale convenzionale) pubblicato come LEQS Paper N0. 108. A differenza di gran parte della letteratura che è principalmente economica ed econometrica, si tratta di un lavoro giuridico in cui si sottolinea come, sotto il profilo della dottrina, non dovrebbero essere consentiti né salvataggi (bail out) né infusioni di liquidità (per tenere a galla il debitore) poiché sarebbe lo spread ad imporre la disciplina per rimborsare il debito. Tuttavia, una serie di analisi econometriche condotte dagli autori dimostrano che i movimenti dello spread in Italia, Portogallo e Francia dipendono più dalla percezione dei mercati della politica economica che dalla situazione del debito pubblico. Quindi il divieto di salvataggi e di infusione di liquidità dovrebbe essere esteso a questi elementi (ossia alla percezione dei mercati della politica economica del Paese debitore) Quindi, una politica più restrittiva di quella sinora applicata.

Di tutt’altro tono, le proposte presentate al convegno a Roma. Tra le più convincenti, la proposta di ristrutturazione presentata da Ernesto Longobardi ed Antonio Pedone. Sottolineato “l’alto costo sociale” (il servizio del debito impedisce di soddisfare esigenze pressanti in vati settori)) e l’impossibile di ridurre il debito utilizzando l’avanzo primario (che in Italia dovrebbe essere tra il 4% ed il 7% del Pil per vent’anni a seconda delle ipotesi, comunque tale da costringersi ad una severa austerità, e possibile deflazione di lungo periodo), la proposta parte dalla distinzione tra debiti esistenti ereditati dal passato (in gergo legacy debit) e la definizione di un meccanismo che regoli a regime la ristrutturazione del debito tra Stati sovrani nell’ambito dell’eurozona.

Dei due aspetti il primo è di interesse più immediato, a ragione dell’escalation degli ultimi anni non necessariamente destinata a fare marcia indietro nel prossimo futuro. Analizzati i principali schemi sul tappeto ( da quello del Comitato dei Consiglieri Economici della Germania a quello del Centro europeo di ricerca di politica economica, se ne mettono in risalto i punti comuni: a) una consistente ristrutturazione dei debiti pubblici nell’eurozona è condizione ineludibile per fare ripartire la crescita e uscire dalla trappola austerità-debito; b) la ristrutturazione dovrebbe essere disegnata nel rispetto di due vincoli di natura prevalentemente politica. escludere i trasferimenti tra Stati; non non infliggere perdite ai creditori privati (no bail-in), ossia porre il costo della ristrutturazione posto a carico dei contribuenti presenti e futuri, accentuando così le responsabilità di Stati e di Governi. La proposta è corredata da uno schema di misure tecniche in via di affinamento.

Lo Stato paga dopo quattro mesi, s’impenna il debito con le imprese

Lo Stato paga dopo quattro mesi, s’impenna il debito con le imprese

di Matteo Palo – Quotidiano Nazionale

Emergenza irrisolta. Il dramma dei ritardati pagamenti della pubblica amministrazione torna a galla: non sono serviti gli stanziamenti dei Governi Monti, Letta e Renzi (pari a circa 56 miliardi) e l’introduzione delle fatture elettroniche per tenere sotto controllo i rapporti tra privati e Pa. Chi lavora con lo Stato o con una delle sue molte declinazioni continua a incassare le sue fatture con ritardo. I tempi medi di pagamento viaggiano, infatti, molto oltre i 60 giorni prescritti dall’Europa. E la massa totale di arretrati, nonostante gli sforzi, resta gigantesca: le stime parlano di una cifra compresa tra i 61 e i 65 miliardi. Negli ultimi giorni due diverse analisi sono tornate sul problema. Il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, Paolo Zabeo, ricorda che «con l’introduzione della fatturazione elettronica, obbligatoria dal 31 marzo 2015 per tutte le aziende che hanno rapporti commerciali con la Pa, il Governo si era posto l’obiettivo di rendere trasparente e immediato il rapporto tra le parti».

A oltre un anno da quella data, invece, siamo fermi allo stesso punto: nessuno conosce l’ammontare del debito della Pa. La Banca d’Italia, tramite un’indagine campionaria, stima 65 miliardi di euro, 35 dei quali relativi a fatture emesse da tempo. Il Centro studi ImpresaLavoro, invece, parla di 61,1 miliardi. Numeri a parte, la sostanza del problema è chiara. Per la Cgia «i dati emersi dall’indagine campionaria della Banca d’Italia sottolineano che l’anno scorso i tempi medi di pagamento della nostra Pa sono stati pari a 115 giorni». Per ImpresaLavoro la media dei pagamenti è addirittura più alta: 131 giorni. Insomma, non riusciamo a rispettare quello che sarebbe il termine ottimale per l’Europa, compreso tra 30 e 60 giorni. E il risultato è che la procedura di infrazione di Bruxelles nei nostri confronti, scattata a giugno del 2014 per questi ritardi, resta aperta. Anche perché nessun paese europeo ha una situazione paragonabile alla nostra: la Germania, ad esempio, liquida le sue fatture in un paio di settimane.

Il tempo, poi, non è nemmeno l’unica questione. Per ImpresaLavoro, infatti, «i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo». In pratica, non finisci di pagare i fornitori che già hai contratto nuovi debiti. Il ritardo nel pagamento dei debiti è costato alle nostre imprese nel solo 2015 la cifra record di 5,4 miliardi.