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Come fare sul serio la revisione della spesa pubblica

Come fare sul serio la revisione della spesa pubblica

Vincenzo Russo* – Publius

Il prof. Vincenzo Russo recensisce il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo, La buona spesa. Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa, Edizioni Biblioteca Impresalavoro, Roma, 2016.

Il lavoro è ben costruito e scritto in maniera brillante. Evita le complicazioni analitiche. Non è testo destinato agli specialisti o agli accademici; può o dovrebbe essere letto e studiato da dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni e/o da cittadini senza una formazione specialistica in materie economiche e finanziarie ma interessati a capire come dovrebbero essere fatte le scelte pubbliche da politici che abbiano a cuore il bene comune.

Come sostengono a ragione gli stessi autori, il libro, da un lato, «è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione. Da un altro, è il frutto di dieci anni di corsi in questi campi tenuti presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa, ora Sna scuola nazionale di amministrazione), Istituti di formazione regionale, Università italiane e straniere, nonché della direzione o partecipazione a Nuclei di valutazione ed ad attività di valutatori indipendenti per conto di enti quali la Banca Mondiale, la Banca interamericana di sviluppo, la Commissione europea. Da un altro lato ancora, è l’esito di ricerche recenti sulla comunicazione della valutazione». Gli autori dimostrano una forte capacità di sintesi dal momento che in sole 180 paginette hanno saputo riassumere analisi empiriche e teoriche da migliaia di pagine senza trascurare i passaggi teorici più difficili.

Nel lavoro, gli autori comprendono un breve excursus storico sulle esperienze a partire dalle prime maturate in Mesopotamia e nell’antico Egitto. Più recentemente citano l’esperienza italiana di lunga data quanto meno in termini di prime sperimentazioni e di affinamento delle metodologie che la dice lunga sui più recenti fallimenti e sulla cultura della classe politica che preferisce scegliere spese e progetti innanzitutto per favorire le proprie clientele politiche. Negli anni passati quando si valutavano i diversi modi di finanziare le spese pubbliche si ricorreva sempre al tesoretto dell’evasione fiscale da recuperare, oggi si ricorre al tesoretto della spesa pubblica “tagliata”. Si tratta di un miglioramento? Dipende dal punto di vista dell’osservatore e/o analista. Intanto bisogna dire che i tagli di spesa sono maggiormente fattibili dei recuperi di evasione fiscale. In secondo luogo, bisogna capire che una nuova spesa finanziata con una vecchia spesa non cambia l’incidenza della spesa pubblica sul PIL, a parità di reddito nazionale; non aumenta la pressione tributaria come avviene invece se c’è recupero di evasione fiscale.

Perché ho detto che dipende dal punto di vista? Perché fin qui tagli di spesa e nuove spese sono operate per lo più alla cieca, ossia, senza un’analisi ex post della vecchia spesa né ex ante della nuova che si propone. In fatto, negli ultimi anni in Italia si è scelto il metodo degli tagli lineari (orizzontali, cross section) proprio perché non c’è alcuna Acb o di altro tipo per le nuove spese di trasformazione né per i trasferimenti erano disponibili valutazioni e perché i politici italiani non accolgono l’idea che le valutazioni degli effetti delle politiche pubbliche dovrebbero essere attività di routine e preferiscono intervenire in situazioni di emergenza. Perché nell’emergenza si mettono in seconda linea le responsabilità del passato salvo poi a lamentarsi della magistratura quando poi le accerta. Se tagli solo gli sprechi in senso tecnico si utilizzano meglio le risorse scarse e residuano risorse per produrre altri servizi o fare altri trasferimenti. Ma se insieme agli “sprechi” tagli quantità e qualità dei servizi prodotti come sta succedendo nella sanità – da quanto raccontano i giornali ogni giorno – allora aumenta l’insoddisfazione dei cittadini.
A questo riguardo vale un’ altra considerazione di metodo. Quando si parla di tagliare questa o quella spesa nessuno presenta preliminarmente una indagine campionaria sulla soddisfazione dei cittadini su questo o su quel servizio. Si producono statistiche comparate tra diversi Paesi membri o non membri della UE o dell’OCSE per concludere che questo o quel paese spende di più di un altro paese. Ma le preferenze dei consumatori contribuenti dove stanno? In pratica si assume il modello del programmatore onnisciente che conosce perfettamente le preferenze dei cittadini. Il che significa che, a monte della valutazione dei singoli progetti e delle singole spese, l’analisi sia inserita in un contesto di programmazione come cultura e metodo di governo. In contesti di area vasta come l’UE fortemente centralizzati ma caratterizzati da forti squilibri economici e sociali certi metodi di valutazione possono portare a decisioni dispotiche e/o arroganti come sottolineano gli autori a p. 30. Allo stesso tempo, in contesti decentralizzati o di governi multilivello, si pongono complessi problemi di ricondurre a logica unitaria valutazioni per progetti assunte senza un quadro programmatico generale. En passant, il metodo degli effetti presuppone un quadro programmatorio ben definito di tutta l’economia mentre l’Acb nelle diverse forme è più flessibili e lascia al mercato il ruolo fondamentale dell’allocazione delle risorse.

Come noto, da 40 anni a questa parte, la programmazione dell’economia da parte dell’operatore pubblico è stata sostanzialmente messa da parte e allora le organizzazioni internazionali preferiscono sviluppare le Acb e parlare di best practises. Ma chi lo ha detto che quelle della Svezia vanno bene anche per l’Italia o per la Spagna? Ma c’è di peggio. FMI, Banca Mondiale, OCSE, Unido che certamente hanno contribuito ad elaborare le migliori metodologie di analisi costi e benefici, di analisi finanziarie e quanto altro, in fatto, negli ultimi 40 anni, perseguono dichiaratamente la riduzione della spesa pubblica nell’assunto che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato, ossia perseguono con pervicacia la riduzione del perimetro dell’intervento dello Stato strumentalizzando la questione della pressione delle tasse. Il loro lavoro è facilitato dal fatto che, non di rado, i cittadini contribuenti non percepiscono correttamente il legame necessario tra disponibilità di beni e servizi pubblici e finanziamento degli stessi attraverso imposte e tasse e pensano che loro hanno diritto a godere dei servizi pubblici ma che a pagarli devono essere solo gli altri. Tutti dicono di volere la riduzione delle imposte ma senza ridurre la spesa pubblica. Per altro verso, a causa della scarsa cultura economica e finanziaria, è illusorio pensare che l’efficienza e l’efficacia dei servizi e dei trasferimenti siano sempre gratis o che addirittura possano essere conseguite solo con i tagli. Certo ridurre le risorse disponibili per l’operatore pubblico può migliorare il loro utilizzo ma oltre all’efficienza bisogna guardare anche all’efficacia.

Il grado di soddisfazione dei bisogni pubblici è ragionevole e confrontabile con quello che altre giurisdizioni assicurano ai loro residenti? C’è una questione fondamentale di democrazia, come avvertono gli autori del saggio. Sono i cittadini liberi e consapevoli che devono scegliere la composizione più appropriata tra beni pubblici e privati e non le organizzazioni internazionali specializzate che sono per lo più autoreferenziali. Emblematica l’analisi sulla base dello schema call and put che gli autori fanno delle 6-7 riforme pensionistiche che i governi italiani hanno fatto negli ultimi 24 anni. Ora ci stiamo avvicinando all’ottava ma pochi sanno veramente di che cosa si sta parlando. Le riforme pensionistiche implicano sempre complessi problemi redistributivi e di equilibrio e/o equità intergenerazionale. Emblematica, per altro verso, la decisione del governo Renzi sul c.d. bonus cultura, ossia 500 euro ai giovani che compiono 18 anni nel 2016. Esempio di mecenatismo, di materiale captatio benevolentiae o addirittura di corruzione? Visto che tanti parlano di merito, perché non utilizzare gli stessi fondi per aumentare le borse di studio agli studenti capaci, meritevoli e bisognosi a tutti i livelli secondo le prescrizioni dell’art. 34 Cost.? A mio parere sarebbe stata una decisione sicuramente più efficiente e più equa.

Di certo le tecniche di valutazione come l’Acb nelle sue varie forme estesa, con valutazione delle opzione reali, con la individuazione degli stakeholders o il metodo degli effetti (o impatti) non risolvono tutti i problemi dell’allocazione più efficiente delle risorse scarse in contesti caratterizzati da forte incertezza come sono quelli che discendono dall’interagire di variabili esogene e endogene in continuo cambiamento per via dell’accelerazione della globalizzazione e dello sviluppo delle tecnologie Ict; non risolvono tutte le difficoltà della massimizzazione della funzione del benessere sociale in termini di first best in un contesto di economia aperta, globalizzata e preferenze eterogenee. Resta il fatto che le migliori tecniche di valutazione adattate alle diverse situazioni economiche e sociali sono comunque necessarie per perseguire soluzioni di second best ma condivise. Non a caso, gli Autori citano Albert Hirschman e la sua «proposta di costruire una coalizione di riformatori sulla base di una ‘valutazione economica condivisa’». Come detto sopra, le alternative peggiori sono certamente decisioni alla cieca e/o quelle che favoriscono le clientele dei politici che massimizzano il loro potere in un’ottica di breve termine.

*professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università La Sapienza di Roma

L’Italia è il peggior pagatore Ue

L’Italia è il peggior pagatore Ue

Antonio Signorini – Il Giornale

Lo Stato italiano è ancora un pessimo pagatore. Sui debiti della Pubblica amministrazione verso i privati, l’Italia resta in cima a tutte le classifiche internazionali e i tempi in cui enti ed uffici saldano le fatture restano i più lunghi d’Europa. Il tema dei debiti della Pa è un po’ uscito dall’attualità rispetto a due anni fa, quando il premier Matteo Renzi promise di andare a piedi a monte Senario se non li avesse estinti, ma il problema è lì. A ricordarlo è Bankitalia nella Relazione annuale, in un capitolo dedicato ai «debiti commerciali» delle amministrazioni pubbliche. Stime fatte direttamente da Palazzo Koch, visto che mancano dati ufficiali.

In media nel 2015 la Pa ha chiuso i suoi pagamenti verso i privati che hanno fornito beni e servizi in 115 giorni. Erano 120 nel 2014. Un miglioramento quindi c’è stato, ma l’Italia resta fuorilegge, visto che una direttiva europea (fortemente voluta dall’allora vicepresidente della Commissione Antonio Tajani oggi vicepresidente dell’Europarlamento) prevede che i pagamenti avvengano entro 30 giorni, al massimo 60 in casi particolari. Lo stock del vecchio debito è a 65 miliardi. Nel 2014, ai tempi della promessa di Renzi, erano 70. Problema non risolto, quindi. Il livello, osserva Bankitalia, «resta notevolmente superiore a quello che sarebbe fisiologico». Lontano dai tempi di pagamento fissati dalle parti, ma anche rispetto alla direttiva europea che è stata recepita dall’Italia.

Sul tema ieri è intervenuto anche il centro studi ImpresaLavoro, che ieri ha stimato il totale dei debiti dello Stato verso imprese, professionisti e privati in genere a 61,1 miliardi. Dato del dicembre scorso, in calo rispetto ai 67,1 miliardi dello stesso mese 2014. I vecchi debiti della Pa sono stati sostituiti da nuovi, «si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione» rileva Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro e imprenditore. Il centro studi fornisce anche un dato inedito. Nel solo 2015 il ritardo nei pagamenti da parte degli enti pubblici è costato alle imprese 5,4 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014. A pesare sulle imprese sono infatti anche i costi del credito concesso dalle banche. «Le nostre imprese continuano a essere taglieggiate dallo Stato, caricate di tasse e balzelli, e al tempo stesso ignorate quando questo deve far fronte ai suoi obblighi contrattuali. In queste condizioni, quale ripresa economica possiamo attenderci?», commenta Blasoni.

I leggeri miglioramenti da quando il problema è entrato nell’agenda della politica, ormai cinque anni fa, non sottraggono l’Italia dalle prime posizioni nella lista degli stati con debiti commerciali più alti. Bankitalia nella relazione annuale ricorda che lo stock di debito rispetto al Pil in Italia è più alto di tutti i Paesi europei. Sui tempi, Impresa Lavoro cita le stime dell’European payment report, secondo le quali i ritardi medi nei pagamenti del pubblico al privato, in Italia si attestano a 131 giorni. I Greci devono aspettare 16 giorni meno di noi. I tedeschi 116 giorni. Questo significa che in Germania i pagamenti arrivano in soli 15 giorni. Il vantaggio competitivo di avere uno stato efficiente.

Se le nostre imprese sono taglieggiate

Se le nostre imprese sono taglieggiate

Massimo Blasoni – Metro

Nonostante i plateali e reiterati annunci del premier Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione si è ben guardata dal ridurre i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal nostro Centro studi, lo scorso 31 dicembre questo ammontava ancora a 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che i debiti commerciali si rigenerano continuamente.

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Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

“Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Questo assurdo ritardo del governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti”. Lo afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. “Renzi aveva promesso – prosegue – ormai più di due anni fa, che i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sarebbero stati azzerati in pochi mesi, promettendo a Bruno Vespa, durante una puntata di ‘Porta a Porta’, che se non avesse mantenuto l’impegno entro il 21 settembre (2014) sarebbe andato in pellegrinaggio al santuario di Monte Senario. Come da copione: impegno non mantenuto, soldi non restituiti alle imprese, debito non pagato. I numeri di ImpresaLavoro confermano che il premier è stato ancora una volta sbugiardato dai fatti. Altra balla da inserire nello speciale palmares di un presidente del Consiglio inaffidabile”.

Debiti Pa, Altieri (Cor): Governo incapace di far pagare imprese

Debiti Pa, Altieri (Cor): Governo incapace di far pagare imprese

“Le pubbliche amministrazioni impiegano, in media, 131 giorni per pagare i fornitori. Due anni fa Renzi aveva promesso che tutti i pagamenti sarebbero stati completati in pochi mesi. Erano le solite bugie. Come rivela il rapporto di ImpresaLavoro pubblicato oggi, i tempi di attesa per i pagamenti restano interminabili”. E’ quanto sottolinea in una nota il deputato di Conservatori e Riformisti, Nuccio Altieri. “A dicembre 2015 – aggiunge – i debiti dello Stato nei confronti delle imprese che erogano beni e servizi superavano i 61 miliardi di euro. A questa somma spropositata vanno aggiunti 5,4 miliardi di euro che rappresentato il costo per il ritardo dei pagamenti di questi debiti. Gia’ le nostre imprese devono subire la pressione asfissiante del fisco e della burocrazia. Pagarle con così tanto ritardo vuol dire assestare al nostro sistema produttivo un colpo mortale”. “Uno Stato incapace di pagare merci e servizi danneggia le imprese ma fa male all’intera economia del Paese perché sottrae risorse dovute che potrebbero essere utilizzate per investimenti e assunzioni. I ritardi e le bugie del governo Renzi stanno paralizzando il Paese”, conclude.

Debiti PA: lo stock ammonta ancora a 61,1 miliardi

Debiti PA: lo stock ammonta ancora a 61,1 miliardi

Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014).

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Questo dato non fa che confermare quanto denunciato a più riprese dal Centro studi ImpresaLavoro: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti.

Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA mantiene dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri principali partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna, 55 giorni più del Portogallo, 73 giorni più della Francia, 91 giorni più dell’Irlanda, 101 giorni più del Regno Unito e addirittura 116 giorni più della Germania.

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La nemesi della libertà

La nemesi della libertà

Questa volta non trattiamo di un paper economico ma di un volume collettaneo (curato da Dean Reuter e John Yoo Liberty’s Nemesis: the Unchecked Expansion of the State pubblicato dall’editore Encounter. Sono ben 576 pagine e si può acquistare per $ 32,99. È un volume americano, che tratta di temi istituzionali ed economici tipici degli Stati Uniti, ma che si consiglia di leggere mentre ci si prepara al referendum elettorale, accoppiandolo, se possibile, ad un breve saggio di Walter Bagehot: Napoleone III. Lettere sul Colpo di Stato Francese del 1851, edito nel 1997 da Ideazione ma ancora acquistabile su internet per € 8.26.

I due libri riguardano rispettivamente la Francia delle metà dell’Ottocento e gli Usa di questi anni. Cosa hanno in comune con l’Italia e con i temi che possono interessare i lettori italiani? Ambedue illustrano come si passa da Repubblica, con garanzie repubblicane, a Monarchia. Le lettere di Bagehot lo descrivono tramite un osservatore straniero, corrispondente a Parigi, di un giornale britannico, prima di creare The Economist. I saggi raccolti da Dean Reuter e John Yoo sono lavori accademici di politologi, sociologi ed economisti sulla trasformazione strisciante del sistema istituzionale americano.

Così come il 3 giugno 1946, numerosi italiani si chiesero se, al referendum istituzionale, avesse vinto la Monarchia o la Repubblica. Nel 1787, una “delegata”, la Signora Powell pose una domanda analoga a Benjamin Franklin che rispose: La Repubblica… se riusciamo a mantenerla tale.

L’analisi, asettica, dei saggi nel volume prende l’avvio dalla Presidenza Wilson che, all’inizio del secolo scorso, iniziò a cambiare la Costituzione “sostanziale” repubblicana con una seria di autorità “indipendenti” (la Federal Reserve, la Federal Trade Commission, la US Tariff Commission e via discorrendo) che, nella realtà effettuale delle cose rispondevano alla Casa Bianca. Attenzione: il Presidente ebbe la complicità del Congresso, che in tal modo, si sgravava di compiti difficili e noiosi, nonché tali da scontentare parte dell’elettorato. La Corte Suprema ci mise del suo.

Ma, sottolineano i saggi raccolti nel volume, negli ultimi otto anni c’è stata un’accelerazione: dalla “amnistia” di Obama in materia di immigrazione clandestina all’espansione delle funzioni della Environment Protection Agency, e via discorrendo. In breve la combinazione di potere regolatorio senza limiti e di delegazione senza limiti è aggravata da una frattura tra l’Esecutivo ed il Congresso. L’analisi è dettagliata e richiede una conoscenza del sistema istituzionale americano per apprezzare il mutamento effettivo delle garanzie repubblicane negli Usa. “Se i conservatori – scrive Yoo nella conclusione – vogliono far fare marcia indietro ad un Esecutivo ed ad autorità indipendenti ormai autoreferenziali, devono cambiare fondamentale il loro approccio al diritto costituzionale ed all’Esecutivo […] l’America è benedetta da una magnifica Costituzione se riesce a riconquistarla”.   

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

Massimo Blasoni – Metro

Il rilievo della nostra spesa pubblica e il peso delle tasse, che fanno dello Stato «l’azionista di maggioranza» di ogni famiglia e impresa italiane, hanno posto al centro della nostra vita la politica. Quest’ultima ha speso per il consenso, senza però particolare costrutto. Quanti eletti preferirebbero un salutare taglio delle tasse alla possibilità di assegnare finanziamenti? Il primo è utile, ma non genera ricadute elettorali dirette. I secondi, invece, hanno nomi e cognomi: quelli di chi li assegna e di chi li riceve.

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