silvio berlusconi

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Davide Giacalone – Libero

Imbrogliare e mentire sulla storia nazionale è un antico vizio italiano. Piuttosto che fare i conti con la realtà dei fatti si è ripetutamente preferito travisarli. Prima che José Luis Rodriguez Zapatero, ex capo del governo spagnolo, venga in Italia a raccontarci quel che ci siamo già detti, quindi, vale la pena rimettere in funzione la bussola della storia. Possibilmente senza usare i magneti delle tifoserie per truccarla. La sorte dei governi italiani è stata determinata da influenze o decisioni prese al di là dei nostri confini? Si può rispondere oscillando da un irragionevole «no», a un ecumenico «sì, ma è normale che sia così», fino a un estremo «sì, fu un colpo di Stato». Esercizio inutile. Il nostro dovere è prima di tutto sapere, poi capire. Anche per leggere meglio quel che accadde dopo.

Nella seconda metà del primo decennio del secolo appena iniziato, l’Italia è finita due volte nel mirino di interessi a noi contrapposti. La prima è la più istruttiva e dice molto della seconda: il gas russo. Un pezzo dei governi europei e quello statunitense non hanno mai digerito il rapporto con i russi per la fornitura di gas. Troppo lungo approfondirne qui i passaggi, sta di fatto che i più esposti eravamo noi e i tedeschi. Con una enorme differenza: quando Gerhard Schroder prende la guida del gasdotto Nord Stream AG, designato dai russi di Gazprom, si accendono polemiche in varie parti del mondo occidentale ma l’argomento non viene utilizzato come arma di polemica politica interna tedesca. Anzi: Angela Merkel inaugurerà l’opera. Da noi accadde l’esatto contrario.

Ci torno, prima però è bene ricordare un dettaglio: coincide con quel periodo la pubblicazione della prima foto di Berlusconi con sulle ginocchia una squinzia, ritratti nella casa di Sardegna. Nel 2011, passaggio cui si riferisce Zapatero, molte cose precipitano. Veniamo trascinati (marzo) in una dissennata guerra di Libia, voluta da francesi e inglesi. Poi si scatena la speculazione contro i debiti sovrani (estate). E qui, scusate, ma Zapatero non ci può rivelare altro che succosi particolari, perché la sostanza noi la scrivemmo durante, non dopo: la polemica degli spread, intesi come indici di inaffidabilità governativa, era da trogloditi o da imbroglioni. Lo documentammo e i fatti confermarono.

Ma mentre si usava quell’artiglieria per colpire il governo, è arrivata la bomba. Tale fu la costituzione del fondo salva Stati (luglio). Cosa giusta, salvo che francesi e tedeschi vollero e ottennero che ciascuno partecipasse in percentuale del proprio Pil, mentre gli italiani chiesero e non ottennero che si partecipasse in ragione dell’esposizione delle proprie banche con il debito greco. Era chiaro che la prima formula ci avrebbe portato a pagare per salvare le banche francesi e tedesche. Era ragionevole, quindi, che altri volessero fiaccare la forza del governo italiano. Ma non sarebbe stato possibile se in Italia non vi fosse stato un berniniano schieramento di quinte colonne.

Così nacque il governo Monti (novembre). Ciò va ricordato per evitare di supporre che la partita fosse d’antipatia personale, o di supposta impresentabilità. Per questo va anche ricordato che il governo in carica (Berlusconi) era già gravemente crepato. Va ricordato che il centro destra ha votato a favore di tutti i passaggi governativi successivi (salvo poi dissociarsi). Producendosi poi la situazione odierna, con una coalizione di governo che nessuno ha mai votato (spaccato il centro destra e destituito Bersani). E va anche ricordato che se le serate gaudenti non furono la causa di quella crisi, ben altrimenti ricca d’interessi, furono comunque lo strumento utilizzabile. Quindi una colpa.

Una manina pericolosa

Una manina pericolosa

Alessandro Pace – La Repubblica

Dunque, per ammissione dello stesso Matteo Renzi, era sua la manina che ha infilato di soppiatto il testo dell’art. 19bis nella delega fiscale. Che Renzi abbia operato da solo o si sia avvalso della complicità di altre persone, ha poca importanza. È invece grave che l’ammissione di Renzi sia avvenuta dopo che si era consentito che si facessero i nomi del ministro Padoan, del viceministro Casero, della dottoressa Menzione ed altri.

Ed è grave che Renzi si sia macchiato dello stesso reato commesso da Berlusconi nel 2001, come ho ricordato su queste pagine l’8 gennaio. Pur ricoprendo entrambi la massima carica politica del nostro ordinamento costituzionale, essi hanno usato un sotterfugio perché una loro volizione ‘individuale’ assume le sembianze di una disposizione legislativa approvata con tutti i crismi: una volizione individuale che nel 2011 consisteva nel ritardare di 5 o 6 anni il pagamento del debito della Fininvest alla Cir; e che nel 2014 sarebbe sostanziata in un favore fatto da Renzi a Berlusconi per mantenerne l’appoggio alle discutibilissime riforme in atto. In paesi come il Regno Unito o la Germania, per assai meno già sarebbero state chieste le dimissioni del premier Cameron o della cancelliera Merkel. E non ho il minimo dubbio che negli Stati Uniti sarebbe stato chiesto l’impeachment del Presidente Obama.

Che questa vicenda non possa né debba concludersi soltanto con delle battute di spirito discende, sotto il profilo strettamente giuridico, dal fatto che Renzi ha rischiato di commettere un delitto punito con la detenzione da tre a dieci anni; e discende, sotto il profilo istituzionale, da due diverse ‘coloriture’ del sotterfugio. O lo stesso Renzi si rendeva conto della gravità del fatto e voleva tentare che l’aiutino a B. venisse conosciuto il più tardi possibile oppure Renzi considera da sempre i suoi e le sue ministre degli yesmen e delle yeswomen, che comunque appoggerebbero a scatola chiusa tutte le sue iniziative. Né si dica, come ha detto il Ministro Boschi in risposta al senatore Mucchetti, che tutto ciò che accade nel Consiglio dei ministri sarebbe coperto da segreto.

Ribadisco: il caso è troppo grave perché passi sotto silenzio, come appunto sta succedendo. È quindi doveroso che se ne discuta in Parlamento spontaneamente ad iniziativa dello stesso Renzi. oppure a seguito di una delle varie forme di sindacato ispettivo. Altrimenti, dopo il precedente di Berlusconi del 2011 e quello di Renzi del 2014, diverrebbe prassi che il premier, nonostante le sue prerogative ufficiali, possa portare avanti sue proprie iniziative legislative senza l’approvazione del Consiglio e per giunta di soppiatto. Il che costituirebbe un’ inammissibile sbrego per la nostra democrazia, le cui legale, per la formazione delle decisioni legislative, sono il dibattito e la trasparenza, come ha giustamente ricordato Nadia Urbinati su queste pagine lo scorso 11 gennaio, a proposito di questa stessa vicenda.

Sul lavoro Renzi arranca

Sul lavoro Renzi arranca

Metro

«Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi IV e Letta». Lo sostiene una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (www.impresalavoro.org) realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione. Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. «Un risultato nettamente peggiore – sottolinea la ricerca – rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro». Peggio dell’ex sindaco di Firenze – evidenzia il centro studi “ImpresaLavoro” – ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità (da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila). Il risultato peggiore di Renzi è nel numero di donne senza occupazione, aumentate di 145mila unità.

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

Disoccupazione: nei primi 9 mesi Renzi riesce a far peggio di Berlusconi e Letta

NOTA

Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi e Letta. Lo dimostra una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione.
Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. Un risultato nettamente peggiore rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro. Peggio dell’ex sindaco di Firenze ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila. In tema di disoccupazione generale, quindi, chi ha fatto meglio nei suoi primi nove mesi è abbastanza nettamente il Governo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta.

tabella 1

Anche in tema di disoccupazione giovanile, Berlusconi riesce a far meglio di tutti gli altri governi: nei primi nove mesi del Berlusconi IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del Governo Monti.

tabella 2

L’altro elemento storicamente debole nel nostro mercato del lavoro è quello relativo al numero di donne senza occupazione. Nei suoi primi nove mesi il Governo Berlusconi riesce addirittura a ridurre la disoccupazione “rosa” di 31mila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne senza lavoro sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne fa segnare uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

tabella 3

Dati in migliaia di persone. Elaborazione ImpresaLavoro su serie storiche ISTAT su disoccupazione
PERIODI CONSIDERATI:
* per governo Berlusconi: Aprile 2008 e Gennaio 2009
**per governo Monti: Ottobre 2011 e Luglio 2012
***per governo Letta: Aprile 2013 e Gennaio 2014
****per governo Renzi: Febbraio 2014 e Novembre 2014
 
Rassegna Stampa
Metro
Il Tempo
Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I risultati sul fronte occupazione della politica del governo Renzi sono finora deludenti. È quanto emerge da una ricerca del centro studi «ImpresaLavoro» che ha messo a confronto i dati sul mercato del lavoro dei primi nove mesi di attività del premier con quelli nel medesimo periodo di tempo dei govemi Berlusconi e Letta.

Il rapporto realizzato elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione, rivela che dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3,254 milioni a 3,457 milioni. Una situazione che risulta nettamente peggiore rispetto a quella dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008- gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di «sole» 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013-gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165 milasenza lavoro. Peggio del premier Renzi ha fatto solo il «governo dei Professori». Nei primi nove mesi di Monti- Fornero (ottobre 2011-luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2,183 milioni a 2,788 milioni. La situzione occupazionale risultava nettamente migliore durante il govemo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta. Nei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi la disoccupazione è passata da 1,750 milioni a 1,769 milioni di unità. Durante il governo Letta si è passati da 3,075 milioni di disoccupati a 3,240.

Anche la situazione del mercato del lavoro dei giovani era più favorevole durante il governo Berlusconi: nei primi nove mesi del Cav IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del govemo Monti.

Se poi si esamina la situazione occupazionale femminile, Berlusconi, sempre nell’arco di tempo considerato, è riuscito addirittura a ridurre il numero delle donne senza impiego di 3lmila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne disoccupate sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne ha uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

Ieri il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, commentando i dati disastrosi dell’Istat del terzo trimestre del 2014, ha ribadito che non c’è da allarmarsi. «In quel periodo c’è stato un blocco della caduta del nostro Pil, quindi è lecito aspettarsi che la disoccupazione possa cominciare a migliorare dal secondo trimestre 2015». Il punto fondamentale, secondo Taddei, è che quando «quella ripresa avviene trovi un terreno fertile che fino a oggi ha faticato a trovare». E questo dovrebbe essere il Jobs Act.

Ci vuole un fisco bestiale

Ci vuole un fisco bestiale

Il Foglio

Non ascoltate i soliti autoproclamati “realisti”: di “tassa piatta” è bene che si parli nell’Italia di oggi. Proprio ieri infatti prim’ancora che il fondatore e leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, lanciasse la sua proposta di politica fiscale, la Banca d’ltalia ha confermato che la pressione fiscale nel nostro paese ha raggiunto un nuovo quanto scontato record attestandosi al 43 per cento del pil. Due punti in più rispetto alla media europea. È così folle dunque rimettere in discussione l’attuale struttura dell’Irpef, imposta cardine del nostro sistema fiscale?

L’idea lanciata da Berlusconi, quella della “flat tax” appunto, prevede un’unica aliquota sul reddito fissata al 20 per cento – invece che gli attuali cinque scaglioni che arrivano fino al 43 per cento – e un’area di esenzione totale per i redditi fino a una certa soglia, 13 mila euro secondo la proposta di Forza Italia. I “pro”, evidenti, sono almeno due. Un’aliquota così bassa, accompagnata da una semplificazione del sistema di detrazioni e deduzioni, eviterebbe a tanti italiani complicazioni e vessazioni che oggi frenano inutilmente chiunque produca ricchezza. Inoltre la presenza di una “no tax area” garantirebbe il mantenimento di un criterio di progressività per i redditi più bassi, come da dettato costituzionale.

Una rivoluzione fiscale di questa portata avrebbe tuttavia un costo. Certo, il gettito fiscale nel breve termine aumenterebbe. Nonostante ciò, con un’aliquota unica al 20 per cento, ma anche con una soglia più realistica al 25 per cento, si registrerebbe un ammanco nei conti statali di almeno 40 miliardi di euro l’anno. Forza Italia è disponibile a individuare e poi proporre al governo Renzi tagli di spesa pubblica di questa entità? Ce ne sarebbe davvero bisogno.

Mai prima d’ora

Mai prima d’ora

Davide Giacalone – Libero

Va di moda il “non si era mai fatto prima”. Si è passati dal cronoprogramma sincopato alla più lunga maratona dei mille giorni, passo dopo passo. Il che potrebbe essere salutato come un approdo al realismo, se non fosse che ad ogni passo ci viene chiesto di credere che “non si era mai fatto prima”. E neanche mi preoccupa la pretesa, in sé infantile, ma che molti, specialmente fra i politici teleparlanti, mostrino di crederci. O addirittura ci credano. Perché questa non è semplice mancanza di memoria, ma ignoranza allo stato brado.

Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, ebbe a dire che i suoi governi avevano realizzato più cose di tutti quelli precedenti, dalla nascita della Repubblica a quel momento. Boom! La sparata era talmente tonante che non sarebbe neanche stato necessario metterla in dubbio, eppure non passava giorno, anzi non passava ora senza che si sostenesse e facesse valere, su ogni mezzo di comunicazione, una corbelleria eguale e contraria: non ha fatto nulla e nulla sta facendo. Salvo gli affari suoi, naturalmente, perché questo voleva e vuole la vulgata luogocomunista. Insomma: Berlusconi non era certo immune dal dirle tonde, ma cadevano su un terreno vaccinato, se non prevenuto. Ora mi preoccupa una certa predisposizione al contagio della balloneria.

Mai prima d’ora si erano fatti sgravi fiscali. No, se ne sono fatti diversi. Se proprio serve indicarne uno: la cancellazione dell’Ici sulla prima casa, poi replicata con l’Imu, sotto il governo Letta. Ed era appena ieri. Solo che gli sgravi si sono fatti, ma la pressione fiscale continuava a crescere, come ora. Mai prima d’ora s’era messo mano alla Costituzione. No, lo si è fatto un sacco di volte. Purtroppo. Ma mai prima d’ora s’erano diminuiti i parlamentari. Certo che lo si è fatto, solo che il partito il cui segretario oggi crede d’essere il primo, il Pd, allora volle un referendum per cancellare la diminuzione. Lo stesso referendum che servì a far cadere la riforma della pessima riforma del Titolo quinto della Costituzione, che ora è condannata da chi la votò, mentre è reclamata la riforma da chi la affossò. Già, ma mai prima d’ora ci si era dedicati al bicameralismo paritario. Eccome, tanto che nella Costituzione del 1948 non c’era. Solo che a difenderlo era quella sinistra che ora crede d’essere la prima a detestarlo. Mai prima d’ora s’erano messi dei soldi nelle tasche degli italiani. Certo che lo si fece, ad esempio con la social card (osservo che la criticai per la stessa ragione per cui ho criticato gli 80 euro, il che dimostra che non solo non è la prima volta, ma facciamo le stesse cose da troppo tempo). Mai prima d’ora s’è pensato di rivoluzionare la scuola e la giustizia. Ci hanno pensato tutti, fin troppo spesso, solitamente con idee più chiare di quelle fin qui presentateci dai primatisti. Mai prima d’ora s’era messo in discussione l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ne parliamo da quaranta d’anni ed è stato riformato due anni addietro, mentre la delega alla riforma è vuota.

Potrei continuare, ma temo di arrivare ad essere contagiato anch’io, concludendo che: mai prima d’ora si sono detti tanti sfondoni. Me lo risparmio, perché sarebbe una bella gara. Faccio solo osservare che le non raffinate menti di quelli che guardano alla sostanza, nonché i grossolani figuri della Commissione europea tendono ad attenersi alle regola di Totò: è la somma che fa il totale. E se fra di addendi ci si mette i proventi della lotta all’evasione fiscale, pretendendo che sia la prima volta nella storia, va a finire che si ricordano d’averla già sentita. Così che se si dice di voler diminuire i premi delle lotterie, va a finire che qualcuno s’accorge che trattasi di prelievo fiscale. E presto gli sovverrà che non è la prima volta, ma l’ennesima.

In compenso ora, per la prima volta, leggeremo il testo della legge di stabilità, non dovendola desumere da un fiume d’interviste contraddittorie. La studieremo senza prevenzione alcuna. Se conterrà cose mai viste prima, ne daremo atto. Se ci vedremo conti che tornano sopravvalutando le entrate e sottovalutando le uscite, rimandando tutto alla prima trimestrale di cassa, a tutto penseremo, tranne che alle novità.

Cono d’ombra

Cono d’ombra

Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano

Con tutti i problemi che abbiamo non si sentiva proprio il bisogno di un replay di Berlusconi che fa il clown e passeggia per il cortile di Palazzo Chigi leccando un gelato. Anzi, duole dirlo, ma perfino l’ex Cavaliere avrebbe evitato di fare il pagliaccio con il governo nel bel mezzo di una crisi economicaogni giorno più devastante.

Ma, come il Pregiudicato (con il quale non a caso è culo e camicia e stringe patti segreti), Renzi pensa di fare fessi gli italiani con queste piccole armi di distrazione di massa. Non gira un euro, i negozi sono vuoti, le imprese chiudono, le famiglie affrontano il peggiore autunno dagli anni 50, ma il premier giovanotto viene immortalato mentre mangiucchia banane o si tira una secchiata d’acqua in testa.

Come dire: ragazzi va tutto benone, e se i gufi dell’Economist mi dipingono come un adolescente immaturo accanto a Hollande e alla Merkel mentre la barchetta dell’euro affonda, io ci rido sopra e fo il ganzo. Purtroppo, la bibbia della grande finanza voleva comunicargli che i grandi investitori non sanno che farsene del governo degli annunci ai quali quasi mai seguono i fatti. Dopo la figuraccia della riforma scolastica (con i centomila precari assunti da un giorno all’altro, secondo i giornali di corte) che aveva detto “vi stupirà” e che infatti molto ci ha stupito per la sua assenza, Renzi invece di chiudersi in un imbarazzato silenzio si è sparato la mirabolante riforma della giustizia civile che, venghino signori venghino, durerà la metà e mi voglio rovinare. Se continua così, lo statista di Rignano non farà l’annunciato big bang, ma un grosso botto sì. Al gusto di limone.

Quattro anni sprecati

Quattro anni sprecati

Luciano Gallino – La Repubblica

I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65 per cento. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140 per cento, visto che il primo ha superato i 2100 miliardi. Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico Paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero.

Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici. Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18.

Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, J. P. Morgan). La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il Paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro Paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile ad una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.

Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i Paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni 90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione. In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un Paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri Paesi dell’Eurozona in Paesi deficitari. Ha voglia la Cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri Paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.

Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin D. Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.