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Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Dal 2008 al 2014 (anno di cui sono disponibili i dati più recenti), il Pil pro capite degli italiani è sceso del 10,4%, passando da 28.194 a 25.257 euro (-2.937). Ma questo calo non si è distribuito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. È questa la conclusione a cui è arrivato il Centro studi ImpresaLavoro, analizzando i dati del Prodotto interno lordo per abitante (concatenati all’anno di riferimento 2010).

Nessuna Regione italiana è riuscita ancora a tornare sui livelli pre-crisi, ma in alcuni casi il calo del Pil è stato più sensibile. In fondo alla graduatoria ordinata per variazione percentuale negativa, troviamo Campania (-15,7%), Umbria (-15,2%), Liguria (-14,0%), Calabria (-13,2%) e Lazio (-12,8%). Ma restano al di sotto del dato nazionale anche Piemonte (-12,4%), Sicilia (-12,2%), Friuli-Venezia Giulia (-11,9%) e Marche (-11,3%). In termini assoluti, sono Lazio (-4.467 euro) e Liguria (-4.448 euro) le Regioni più in difficoltà.

Meno colpite, anche se sempre in territorio negativo, sono state invece Trentino Altro Adige (-3,5%), Valle d’Aosta (-4,1%), Toscana (-7,5%), Puglia (-8,0%) e Basilicata (-8,5%). Mentre hanno una performance superiore alla media nazionale anche Abruzzo (-8,8%), Molise (-9,1%), Veneto (-9,4%), Sardegna (-9,6%), Emilia-Romagna (-9,7%) e Lombardia (-9,9%).

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Questa distribuzione non uniforme del calo del Pil pro capite, ha cambiato la classifica regionale che descriveva la situazione pre-crisi. La Lombardia non è più in prima posizione ma è scivolata in terza, scavalcata da Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, che nel 2008 occupavano rispettivamente il secondo e il terzo gradino del podio. Perdono due posizioni anche Liguria e Campania (nel 2008, rispettivamente in sesta e diciassettesima posizione). Guadagnano invece posizioni la Toscana (da decima a settima) e la Puglia (da diciannovesima a diciassettesima). E fanno un piccolo passo avanti – oltre a Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige – anche Emilia Romagna e Veneto, che nel 2014 si piazzano rispettivamente in quarta e sesta posizione. Resta ultima al ventesimo posto la Calabria, il cui Pil pro capite è sceso in termini assoluti (sempre concatenati all’anno 2010) di 2.326 euro.

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Sarà interessante vedere se la pur lieve ripresa dell’ultimo periodo porterà variazioni significative a questa graduatoria. Intanto è possibile notare come la crisi abbia aumentato il divario tra il Nord e il resto del Paese. Nel 2008 la media del Pil pro capite delle Regioni del Sud e del Centro era inferiore rispetto alla media delle Regioni del Nord rispettivamente del 40,3% e dell’11,3%. Nell’ultimo dato disponibile (2014) questa forbice si amplia arrivando al 41,2% e al 13,7%. Una tendenza confermata anche dal rapporto tra il Pil pro capite delle prime tre Regioni in classifica e quello delle ultime tre: se nel 2008 la media delle ultime tre Regioni (17.929 euro) rappresentava il 49% della media delle prime tre Regioni (36.506 euro), nel 2014 questa proporzione è scesa al 46% (15.806 contro 34.370 euro).

L’Italia e la legge di Okun

L’Italia e la legge di Okun

Chi ricorda ancora la Legge di Okun? Prende il nome dall’economista Arthur Melvin Okun (che la propose nel 1962). È una legge empirica che collega il tasso di crescita dell’economia tramite le variazioni nel tasso di disoccupazione. Secondo questa legge, se il tasso di crescita dell’economia cresce al di sopra del tasso di crescita potenziale, il tasso di disoccupazionediminuirà in misura meno che proporzionale. Ne consegue che le variazioni di produzione influiscono in modo meno che proporzionale sulla disoccupazione. Questo perché, a fronte di una crescita della domanda, le imprese preferiscono chiedere ai loro dipendenti di fare straordinari piuttosto che assumere nuova manodopera ed è possibile che parte dei nuovi assunti non fossero precedentemente previsti nella forza lavoro essendo classificati come lavoratori scoraggiati. Inoltre, data tale relazione, varrà che se la crescita è inferiore al tasso normale, la disoccupazione sarà maggiore di quella del periodo precedente.

La legge di Okun è stata associata a considerazioni di tipo Keynesiano, in quanto suggerisce che per poter raggiungere il tasso di disoccupazione considerato come obiettivo di politica economica è necessario che la crescita del PIL superi quella potenziale di una determinata misura. È una “legge” particolarmente pertinente all’Italia in questa fase in cui si analizzato le implicazioni del Jobs Act.

A fine aprile, poco prima della pubblicazione dei dati INPS che hanno fatti sorgere molti dubbi sulla efficienza e la efficacia di quello che sarebbe l’architrave delle riforme economiche strutturali del Governo, la rivista telematica di ricerca economica Empirica ha messo online un lavoro di Lucan Zanin di Prometeia (The Pyramid of Okun’s Coefficient for Italy) che ha stimato i parametri cruciali per verificare la Legge di Okun in Italia in modo disaggregato, ossia per età e genere.

I dati sul tasso di disoccupazione per età e genere non sono disponibili nelle statistiche ufficiali; quindi Zanin li ha stimati sulla base delle indagini Istat delle forze di lavoro per il periodo 2014. Vengono utilizzate due misure del tasso di disoccupazione: la misura tradizionale che include i lavoratori con o senza esperienza di lavoro. Quando la Legge di Okun è stimata utilizzando il tasso di disoccupazione ristretto a coloro con esperienza di lavoro, i lavoratori giovani risentono meno del ciclo economico. Man mano che la forza di lavoro invecchia, il divario di reattività al ciclo economico diminuisce, specialmente per il segmento della forza di lavoro con più di trent’anni. Infine l’analisi statistica individua che non ci sono differenze significative di genere.

Le conclusioni sono abbastanza evidenti: non sono i ritocchi alla normativa sul lavoro o gli incentivi a breve termine a ridurre la disoccupazione, specialmente quella dei giovani, ma una crescita economica vigorosa che riporti le imprese ad assumere.

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate: lo Stato non esita a colpirvi in silenzio e di nascosto. Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie ha infatti raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Un lieve calo del gettito dipeso unicamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi: lo scorso anno i tassi sui depositi bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04% e i titoli di Stato all’1,19%.

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Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

Aggredire la spesa pubblica si può. Il saggio di Pennisi e Maiolo

di Daniele Capezzone – Giuditta’s Files

Tutto come previsto. Dopo il sostanziale via libera da parte della Commissione Ue sui conti dell’Italia (sia pure con doppia riserva: sul deficit e sul debito), il Governo si è lasciato andare a un trionfalismo francamente fuori luogo. Primo: perché i 14 miliardi di margine concessi andranno pari pari a disinnescare le clausole di salvaguardia (aumenti Iva) che altrimenti scatterebbero alla fine di quest’anno (quindi, per tagliare un euro di tasse, non si potrà contare su quel margine, ma occorrerà tagliare davvero un po’ di spesa). Secondo: perché, come ripeto da tempo, l’Italia si sta contendendo un’umiliante “maglia nera” della crescita europea con Grecia e Finlandia. E non mi sembra un motivo per caroselli e festeggiamenti: non dispiaccia al nocciolo etrusco che guida l’Esecutivo.

Comunque, a questo punto,almeno per 48-72 ore il reality-tv show della politica italiana fingerà di occuparsi del taglio della spesa pubblica: il Governo, per dire che sta già facendo una serissima spending review (il che, purtroppo, non è vero, avendo Renzi-Padoan respinto nelle ultime due leggi di stabilità emendamenti per un simultaneo taglio di spesa e tasse di 48 miliardi); le forze di opposizione, per dire in modo stentoreo ciò che andrebbe realizzato, ma dimenticando di non averlo fatto negli anni in cui erano in maggioranza.

Logomachie (e batracomiomachie…) a parte, per chi invece fosse davvero interessato al tema e alle soluzioni (non alle slides e agli alibi), una lettura obbligata è il recente bel saggio (per la Biblioteca del Centro Studi Impresa Lavoro) curato da Giuseppe Pennisi con Stefano Maiolo, dal titolo La buona spesa – Dalle opere pubbliche alla spending review. Guida operativa . Giuseppe Pennisi non ha davvero bisogno di presentazioni: dalla Banca Mondiale alle sue docenze italiane, dalla sua attività di saggista agli interventi sulla carta stampata, da decenni offre soluzioni concrete ispirate a limpidi principi liberali e pro-mercato.

Stavolta, insieme a Maiolo, Pennisi ha scelto di realizzare una vera e propria guida operativa, che ha come interlocutori ideali i dirigenti delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli altri enti locali, indicando in dettaglio metodi e tecniche per la valutazione della spesa e delle opere pubbliche. Dall’analisi dei costi e dei benefici (imposta nel 1981 da Reagan a tutti i settori del governo e a tutte le agenzie pubbliche, prima di varare qualunque intervento di spesa) alla valutazione degli impatti, dall’analisi del rischio in fasi di incertezza in contesti dinamici al valore della comunicazione (quindi, la procedura di valutazione come un approccio sistematico di informazione e di decisione informata), il volume di Pennisi e Maiolo è davvero uno strumento di lavoro, per chi questo lavoro voglia intraprenderlo sul serio…

Badate. Non si tratta di un’opera per “ragionieri”, per aridi contabili, o per freddi tagliatori di spesa sociale. C’è, al fondo, un punto di assoluto rilievo umano, e – vorrei dire- di profonda etica della responsabilità. Pennisi sottolinea che troppe volte, nelle decisioni politiche di spesa, si privilegiano gli interessi delle generazioni correnti (legittimi, per carità) rispetto a quelli delle generazioni future. Il piccolo “dettaglio” è che le generazioni future, per evidenti ragioni, sono senza voce, perché – oggi – non votano, non scioperano, non vanno nei talk show. C’è qualcuno disponibile a una battaglia politica in nome di chi oggi non ha diritto di parola? Pennisi e Maiolo citano un’eloquente (e direi terrificante) analisi di uno dei maggiori specialisti Usa di finanza pubblica, Alan Auerbach: per conservare intatto l’attuale livello di stato sociale italiano (quindi: ammortizzatori, sanità, pensioni, ecc), la prossima generazione dovrebbe pagare, nella propria vita, tasse e imposte pari a cinque volte quelle pagate dalla generazione oggi anziana. Ogni commento è superfluo.

I vincoli del sistema pensionistico sull’economia italiana

I vincoli del sistema pensionistico sull’economia italiana

di Michele Liati*

Le indagini campionarie sui bilanci delle famiglie italiane (IBF), condotte dalla Banca d’Italia dagli anni ‘60, sono uno strumento molto utile per comprendere i “vincoli” che hanno operato sull’economia italiana negli ultimi decenni per l’azione statale. Nel grafico qui sotto sono mostrati i redditi medi per classi d’età, dal 1977 al 2014, (ottenuti dalle IBF) opportunamente rivalutati ai valori monetari 2014 (tramite indici Istat).

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Facciamo subito notare che i dati delle IBF sono molto preziosi perché, a differenza di altri sui redditi famigliari, sono calcolati al netto dei prelievi fiscali e contributivi, per cui possono evidenziare gli effetti delle ridistribuzioni statali.

Innanzitutto si può evidenziare che i redditi sopra i 64 anni di età sono cresciuti continuamente, così come i redditi tra i 55-64 anni fino al 2011; gli altri redditi hanno seguito le diverse fasi dell’economia. Si possono cogliere facilmente quattro fasi (evidenziate dai riquadri verdi e arancioni), e differenziare le “risposte” dei vari redditi alle diverse condizioni dell’economia: dal 1977 al 1989 vi è stata una fase di crescita generale dell’economia e dei redditi, dal 1989 al 1995 un periodo di crisi, dal 1995 al 2006 una generale ripresa, e infine la crisi attuale (si noti che i redditi sono iniziati a calare già dal 2006).

I redditi delle classi più anziane, determinate principalmente dai redditi pensionistici, hanno costituito, per le fasi di “recessione” un “vincolo” importante: quando l’economia rallentava, e quindi i redditi calavano, la riduzione era anche più marcata per mantenere identico il potere di acquisto dei redditi pensionistici. È in queste fasi che risultano ben evidenti gli effetti della “ridistribuzione” operati dal sistema pensionistico. Questo fatto può essere meglio evidenziato se analizziamo le differenze (assolute e percentuali) cumulate nei diversi periodi indicati.

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Nella prima fase i redditi crescono per tutte le classi, ma, in percentuale, in maniera già più marcata per gli anziani.

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05Nella fase di crisi tra il 1989 e il 1995, ecco operare il “vincolo pensionistico”: tutti i redditi dei “giovani” si riducono sensibilmente, quelli dei più anziani crescono o restano uguali.

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07Nella terza fase di recupero dell’economia, tutti i redditi tornano a crescere, ma in maniera “progressiva” secondo la “anzianità”.

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09Nell’ultima fase, ecco di nuovo il vincolo: i redditi degli over 64 continuano a crescere, tutti gli altri si riducono di molto (si noti che in questo caso calano anche quelli della classe 55-64; non è difficile spiegare questo calo anche col progressivo innalzamento dell’età pensionabile, specialmente per la più recente riforma Fornero). Tali confronti possono risultare anche più chiari cercando di “stimare” (utilizzando questi dati per classi) delle curve continue che riportino i redditi per tutte le età.

Crescita per tutte le classi nella prima fase di crescita.

10Riduzione con “vincolo” nella seconda fase.

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Crescita nella terza fase.

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Di nuovo decrescita “vincolata” (per niente “felice”).

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Conclusioni

Qualcuno potrebbe dire che la cosa è del tutto ovvia e naturale: “i redditi pensionistici sono solo redditi differiti, perciò dipendono dalle condizioni passate dell’economia, non da quelle presenti”, ma ciò non è corretto, specie per un sistema pensionistico pubblico, e in particolare a ripartizione; in questo le pensioni in essere sono pagate dai contributi dei lavoratori, è ovvio quindi che in ogni momento deve sussistere un certo equilibrio tra pensioni e contributi, e quindi tra pensioni e andamento dell’economia.

Questo è il principio che è sempre mancato al sistema pensionistico italiano; a differenza di altri sistemi, che hanno ugualmente utilizzato sistemi retributivi e a ripartizione senza gli stessi pesanti effetti (si pensi alla Germania dove la crescita delle pensioni è sempre stata legata alla crescita delle retribuzioni, e da oltre un decennio, direttamente a quello della massa contributiva).

Gli effetti sono quelli che sono stati evidenziati: i momenti di crisi, pur “naturali” in qualsiasi economia, sono stati “amplificati” per alcune classi, per via del “vincolo pensionistico”. Questi gli effetti ad oggi, ma questa ridistribuzione di risorse avrà effetti ancor più pesanti in futuro – come alcuni “allarmi” già stanno anticipando – soprattutto se non si riuscirà a liberare l’economia italiana da questo vincolo.

*Tutti i grafici sono elaborazioni di Michele Liati su dati Banca d’Italia e Istat

Libertà economiche e sviluppo

Libertà economiche e sviluppo

Non c’è sviluppo senza libertà economiche e tolleranza. Questo il succo di due lavori scientifici recenti scelti questa settimana per i lettori del Centro Studi Impresa Lavoro. Il primo è un saggio Leandro Prados de la Escuria della Università Carlo III di Madrid (difficile capire perché gli economisti spagnoli sono poco noti e raramente citati in Italia). Il lavoro (Economic Freedom in the Long Run: Evidence from OECD Countries 1850-2007 – Libertà economiche nel lungo termine: analisi sui Paesi OCSE dal 1850 al 2007) è apparso nella The Economic History Review Vol. 68, No. 2 pp. 435-468. The Economic History Review è una delle più prestigiose riviste di storia economica a livello internazionale.

Lo studio presta indicatori economici per le principali dimensioni delle libertà economiche per i Paesi avanzati ad economia di mercato, specificamente quelli che facevano parte dell’Ocse già prima del 1994. Negli ultimi cento cinquanta anni, le libertà economiche sono aumentante e, nei Paesi analizzati, hanno raggiunto due terzi del massimo possibile. Tuttavia, l’evoluzione non è stata lineare. Dopo una forte espansione dalla metà dell’Ottocento, la Prima Guerra Mondiale ha provocato non solo un arresto ma anche un ritorno al passato e negli Anni Trenta c’è stato un drammatico declino. Notevoli i progressi durante gli Anni Cinquanta, pur non raggiungendo i livelli precedenti la Prima Guerra Mondiale. Dopo un periodo di stagnazione, la lunga fase di espansione dall’inizio degli Anni Ottanta ha portato ai livelli più elevati di libertà economica negli ultimi due secoli.

Ciascuna delle principali tipologie di libertà economia ha avuto tendenze ad essa specifica ed il contribuito all’indice complessivo è variato nel corso degli anni. In generale, il miglioramento dei diritti di proprietà è stato l’elemento che più e meglio ha contribuito al progresso di lungo periodo della libertà economica.

Sul Journal of International Business Studies (Vol. 47 No.4, pp. 480-497) Stelio Zanakis e William Neuburry (ambedue della Florida International University) e Vasyl Taras della University of North Carolina, giungono a conclusioni analoghe in materia di tolleranza (Global Social Tolerance Index and Multi-Method Country Rankings Sentsitivity – Indice Globale di Tolleranza Sociale ed ordinamento per Paesi con metodi differenti).

Utilizando i dati delle Nazioni Unite sui “valori” nei differenti Paesi e dati di 56 Paesi (con 83.000 interviste utilizzabili) i tre economisti costruiscono un Global Tolerance Index (GTI) che incorpora varie tipologie di tolleranza (di genere, di religione, nei confronti delle minoranze e degli immigrati). L’indice fornisce indicazioni utili nel forgiare politiche. Non è una coincidenza che dove c’è più libertà c’è anche maggiore tolleranza.

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Come fare il tagliando alla spesa pubblica

Marco Girardo – Avvenire

La spesa pubblica oggi è pari al 51% del Pil. Senza una sua riduzione, sarà impossibile raggiungere i parametri europei in materia di debito. E anche se il Patto di Stabilità venisse modificato, sarebbero comunque prima o poi i mercati a punirci. I tentativi di fare un “tagliando” alla spesa si susseguono oramai da decenni. Con il medesimo – e mai centrato – obiettivo: mantenere quella di alta utilità e ridurre quella inefficiente e cioè gli sprechi. Al Tesoro la sfida è stata affrontata prima dalla Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, fra il 1986 e il 2005, e poi, per due anni, dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica. Entrambe sono state disciolte e i risultati sono stati inferiori alle aspettative: l’irresistibile ascesa della spesa pubblica soprattutto di parte corrente è proseguita. È iniziata quindi la stagione dei “commissari”, ma gli esiti- quelli visibili, almeno – non sono stati migliori. È solo colpa dei politici?

Il libro di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo «La Buona Spesa: Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa» (Centro Studi Impresa Lavoro, 2016) prova a fornire una risposta e suggerire una terapia. In primo luogo, nei Paesi dove la spending review è stata efficace (Usa, Gran Bretagna, Francia), la “revisione” non si presentava come compito ad hoc di breve respiro, ma quale principale attività istituzionale – permanente, quindi – dell’organo dello Stato incaricato della formazione, della valutazione e del monitoraggio del bilancio (in Italia la Ragioneria Generale). In secondo luogo, dove funziona, la revisione si basa su metodologie standardizzate adottate a livello internazionale. Da un lato figlie di una teoria economica forte, dall’altro facilmente comprensibili non solo ai tecnici ma anche all’uomo della strada. In terzo luogo, la revisione deve essere partecipativa: i cittadini, le famiglie, le imprese devono essere in grado di comprendere perché si vuole ridurre una voce di spesa o accentuarne un’altra. Per questo motivo, la Guida è redatta in una prosa accessibile a chi abbia i rudimenti di economia domestica e include un capitolo dedicato al come comunicare le valutazioni sulla spesa pubblica.