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Spending review, chi l’ha vista?

Spending review, chi l’ha vista?

Massimo Blasoni – Metro

Spending review, questa sconosciuta. Nonostante le reiterate promesse del premier Renzi, non vi è stata ancora alcuna traccia della tanto auspicata sforbiciata alla spesa pubblica. Un esempio? Nel periodo 2011-2014 la spesa erogata da Regioni ed Enti locali a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro. I dati raccolti nel Siope (il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici) ci dicono inoltre in quegli stessi anni  la spesa di questi soggetti per le partecipazioni pubbliche è aumentata di quasi un miliardo (+35%), mentre l’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni (-17%).

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Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

L’Italia investe appena l’1,03% del proprio Prodotto interno lordo nella spesa pubblica a favore di “famiglie e bambini”. Meno di Portogallo, Malta e Cipro; meno della metà di Ungheria, Austria e Bulgaria; meno di un terzo di Norvegia e Finlandia; un quinto rispetto alla Danimarca. È questo il risultato di una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Eurostat, che ha preso in esame la categoria “family and children” nella classificazione della spesa pubblica Cofog (Classification Of Function Of Government), lo standard internazionale adottato dal Sec95 (sistema europeo dei conti nazionali e regionali).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a:  protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,03% – in 24° posizione (sulle trentuno nazioni prese in considerazione da Eurostat), nettamente al di sotto della media dell’Unione europea (1,71%) e dell’area euro (1,64%). Spendono meno di noi per famiglie e bambini la Svizzera (0,55%), la Spagna (0,61%) e la Grecia (0,67%). Spendono di più, invece, le altre grandi economie del continente: Germania (1,55%), Regno Unito (1,65%) e Francia (2,50%). Molto distanti, infine, i paesi scandinavi: Svezia (2,54%), Norvegia (3,32%), Finlandia (3,34%) e Danimarca (5,00%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 24° al 17° posto (sempre su 31). A fronte di una spesa media di circa 458 euro all’anno nell’Unione europea (che sale a 481 euro nell’area euro), in Italia ci fermiamo a circa 277 euro. Un dato molto distante da quello delle altre economie avanzate del continente – Francia (807 euro), Germania (533 euro), Regno Unito (528 euro) – con la sola eccezione della Spagna (135 euro). Sempre lontani anni-luce i paesi scandinavi: Svezia (1.157 euro all’anno), Finlandia (1.251 euro), Danimarca (2.278 euro) e Norvegia (2.582 euro).

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Massimo Blasoni ad Agorà – Rai Tre

Massimo Blasoni ad Agorà – Rai Tre

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto stamattina ad “Agorà”, su RaiTre, ospite di Gerardo Greco. In studio, insieme a lui: David Ermini (PD) e lo scrittore Fulvio Abbate. In collegamento, Gian Marco Centinaio, capogruppo della Lega Nord al Senato.

Il parlamentare del PD Davide Ermini, finita Agorà, bevendo un caffè, insisteva a dirmi: “io non sono comunista”. Non ne dubito. Certo sostenere, come ha fatto, che il sistema pubblico burocratico in Italia funzioni mi pare essere sulla luna. La spesa pubblica continua a salire e così il debito. Le pensioni gestite dall’ INPS sono un miraggio per i giovani lavoratori e non c’è giorno in cui una nuova legge o una nuova tassa non limitino la nostra libertà. Sono per un‘Italia diversa. Grazie a Gerardo Greco che mi ha consentito di presentare “Privatizziamo!”

Posted by Massimo Blasoni on Wednesday, February 10, 2016

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

Roccella (Idea): “Per salvare le famiglie, il welfare non basta”

di Eugenia Roccella*

L’Italia da molto tempo investe poco nella famiglia, probabilmente perché i governi hanno dato per scontata la buona salute della famiglia italiana. I dati, a parte un preoccupante declino della natalità, confermavano finora questo giudizio, ma negli ultimi anni i segnali di crisi si sono moltiplicati.

Quella che Giovanni Paolo II definiva l’eccezione italiana (e che si leggeva nei numeri: meno divorzi e separazioni, meno aborti, in particolare tra le minori, meno figli nati fuori dal matrimonio, meno madri single degli altri paesi europei) è oggi a rischio. È urgente quindi intervenire con provvedimenti pesanti, e non occasionali come il bonus bebé. Ma bisogna avere chiaro che le facilitazioni fiscali e il welfare pro-family servono solo in minima parte a fermare l’inverno demografico.

Tutta l’Europa è ormai sotto il tasso di sostituzione, anche i paesi in cui c’è stata e c’è ancora una storica attenzione al problema, come dimostra lo studio di ImpresaLavoro (per esempio la Francia o la Svezia, che investono molto più di noi su famiglia e figli). Per confermarlo basta verificare come l’unico paese europeo che fa meno bambini di noi è la ricca Germania: le cause principali della denatalità europea non sono economiche, ma culturali. In Italia, poi, come dimostrano le ricerche del sociologo Roberto Volpi, i figli si fanno ancora all’interno del matrimonio: se, come accade oggi, i matrimoni sono in calo, c’è poca speranza di risalire la china demografica.

Investire nella famiglia è necessario per motivi di equità, per migliorare la vita delle donne, su cui pesa ancora la gran parte del lavoro di cura,  e per dare un segnale forte di cambiamento; ma bisogna essere consapevoli che non si tornerà a fare figli solo con incentivi economici o con un welfare più generoso, se non c’è anche un investimento culturale per promuovere famiglia e matrimonio.

*Deputato di “Idea”, ex Sottosegretario al Ministero della Salute

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

Pagano (Area Popolare): “Meno assistenzialismo, più spesa per le famiglie”

di Alessandro Pagano*

I dati pubblicati dal Centro Studi “ImpresaLavoro” non mi sorprendono più di tanto. Anzi, paradossalmente mi rallegro del fatto che questi numeri possano essere diffusi, così da sottolineare tutte le contraddizioni interne di una sterile retorica – presente in ampi strati del mondo politico e governativo – su aiuti, bonus e previdenza in genere. Si tratta, per carità, di iniziative utili e meritorie, ma che troppo spesso non sono in grado di realizzare gli obiettivi per cui sono state messe in campo. È sempre positivo, dunqe, che osservatori neutrali siano in grado di raccogliere dati capaci di far esplodere queste contraddizioni. Perché è proprio su queste contraddizioni che diventa possibile fare qualche ragionamento serio.

Per esempio, è impossibile non notare come la nostra spesa per il welfare sia quasi sempre indirizzata – anche giustamente, da un certo punto di vista – nei confronti di coloro che restano disoccupati in seguito a crisi di lavoro. Questo, però, produce degli elementi fortemente distorsivi per la nostra economia. È normale, oltre che giusto, concedere un sussidio di disoccupazione a persone che, a 55-60 anni, hanno difficoltà a reinserirsi nel mercato del lavoro. Ma quando lo stesso sussidio viene concesso in contesti molto differenti, questo provoca inevitabilmente delle distorsioni. Mi spiego meglio, perché si tratta di casi concreti che ho toccato con mano: segni di un malcostume che una volta riguardava soprattutto il Mezzogiorno ma che oggi si è diffuso anche nel Nord del Paese. Parlo dei giovani che si fanno assumere, lavorano per 7-8 mesi e poi, appena raggiunti i requisiti di legge, fanno di tutto per farsi licenziare. E lucrare sull’indennità di disoccupazione. Questa abitudine, più comune di quanto non si pensi abitualmente, porta a una distorsione di tutto il meccanismo del welfare. Le persone che lavorano “in nero” mentre percepiscono il sussidio di disoccupazione (o, peggio, si limitano a poltrire) non solo provocano un danno alla nostra economia, ma anche al tessuto culturale del Paese.

Anche quando il sussidio di disoccupazione è concesso a chi veramente ne ha bisogno, però, gli effetti distorsivi sono sempre dietro l’angolo. Perché queste persone, di fronte all’incertezza nei confronti del futuro, non hanno certo la tendenza a spendere, ma piuttosto cercano di risparmiare il più possibile. Il denaro dei contribuenti, dunque, non va ad alimentare i consumi o gli investimenti, ma viene messo da parte e immobilizzato.

Queste risorse – che oggi in gran parte servono ad alimentare effetti negativi sotto il profilo culturale ed economico – potrebbero essere utilizzate molto meglio se utilizzate a favore della famiglia. Quando lo Stato indirizza la spesa pubblica direttamente verso le famiglie, per esempio stimolandole ad avere figli, si crea inevitabilmente un effetto volano per tutta l’economia, perché i genitori spenderanno quel denaro per i figli: spendono per migliorare la loro qualità di vita, per attività extrascolastiche che altrimenti non potrebbero permettersi, per mandarli in una scuola migliore, per viaggi studio all’estero che possono arricchire in modo decisivo la loro esperienza. Da parte dei genitori, insomma, c’è una propensione virtuosa al consumo. E anche quando si preferisce il risparmio, si tratta di risparmio orientato verso il futuro dei propri figli, non immobilizzato in un cassetto proprio per paura del futuro. Si tratta di spesa pubblica, dunque, che crea effetti positivi sotto il profilo sia economico che culturale.

È chiaro che, partendo da questa prospettiva, è lo stesso modello di welfare del nostro Paese che va completamente ripensato. L’assistenzialismo italiano, così com’è, serve soltanto a trasformarci nella “Calabria d’Europa”, cioè in una macroregione assistita in cui la spesa pubblica serve solo a garantire un’economia minima di sussistenza (e magari i voti sufficienti a mantenere la propria rendita di posizione), ma che non riesce a diventare volano per la crescita. È possibile, invece, immaginare un welfare intelligente, che punta sui figli come risorsa primaria per la nostra società. I numeri della demografia, del resto, ci inchiodano a questa necessità: con 1,1 figli per coppia siamo destinati all’impoverimento. Ed è sotto gli occhi di tutti la banalità della retorica terzomondista che vorrebbe affidarsi ai flussi migratori per correggere questa tendenza: da noi ormai arrivano immigrati che non rappresentano un valore aggiunto significativo, in termini economici o culturali; mentre i nostri ragazzi migliori sono costretti a fuggire dall’Italia per arricchire, in tutti i sensi, gli altri Paesi.

Concludendo, i soldi investiti direttamente nelle famiglie – per esempio con quello che una volta si chiamava “quoziente familiare” – sono qualcosa di molto distante dall’assistenzialismo a cui purtroppo siamo abituati. E questo tipo di spesa pubblica deve crescere, non soltanto per portare l’Italia almeno ai livelli della media europea (e già questa sarebbe, di per sé, una motivazione sufficiente), ma perché si tratta di una spesa capace di avere effetti di moltiplicazione, sia in termini di consumo immediato, sia in termini di progresso culturale. Con una popolazione giovanile schiacciata da pensioni, sanità e assistenzialismo, i conti non tornano. Mentre allargando la base demografica si creano le condizioni per far ripartire il sistema produttivo, tornando a poter contare su una prospettiva di lungo periodo. Lo dico da cattolico: la famiglia non è soltanto la cellula fondamentale su cui è costruita la società, ma anche il destinatario ideale per una spesa pubblica virtuosa, capace di diventare una leva straordinaria per la crescita economica.

* Deputato nazionale di Area Popolare, componente della Commissione Finanze e della Commissione Giustizia

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

Per fare pulizia sulle partecipate serve la scure, non il bisturi

di Giuseppe Pennisi*

Per oltre tre lustri ho scritto il capitolo sulle privatizzazioni del rapporto annuale sulla liberalizzazione della società italiana dell’Associazione Società Libera. È parso evidente sin dalla fine degli Anni Novanta che nel processo di privatizzazione molta poca attenzione è stata alle partecipate delle autonomie locali, spesso con il pretesto che si trattava di materie unicamente di competenza delle Regioni, delle Province (quando esistevano) e dei Comuni. Sono stati compiuti studi egregi sul capitalismo municipale, alcuni pubblicati sulla stessa rivista del Ministero dell’Interno “Amministrazione Civile”.

Il tema è stato posto all’attenzione dei Governi dai vari Commissari alla spending review che si sono succeduti in questi anni. Ma ancora oggi non è chiaro quale sia il numero totale (si parla di circa ottomila, che il Governo in carica avrebbe voluto ridurre a mille). Numerose sono in perdita da anni o richiedono forti sovvenzioni per operare. Altre sono costituite unicamente da organi di governo, ossia i CdA, e da manager ma non hanno personale. È chiaro che sono una delle determinanti dell’enorme debito pubblico che frena l’Italia. È un’area dove, per fare pulizia, occorre utilizzare la scure non il bisturi.

* presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Partecipate: Renzi dice di tagliare, ma gli enti locali spendono di più

Partecipate: Renzi dice di tagliare, ma gli enti locali spendono di più

di Sara Dellabella – L’Espresso

Nonostante la parola d’ordine sia “tagliare”, gli enti locali continuano a spendere e spandere nelle società partecipate. Un dossier di ImpresaLavoro, centro studi che si occupa dei temi legati al lavoro e all’economia, mostra che negli ultimi quattro anni i trasferimenti per le partecipazioni pubbliche sono lievitati del 35 per cento, per una somma che sfiora un miliardo di euro.

Eppure, l’obiettivo più volte annunciato da Renzi è quello di una drastica riduzione del numero delle società partecipate per arrivare entro la fine dell’anno a quota mille. C’è da dire però che nonostante ripetuti tentativi nessuno è stato in grado di indicare con precisione quale sia il numero di partenza.

Il Ministero del Tesoro ne conta 7.700, il dipartimento delle Pari Opportunità di Palazzo Chigi oltre 10 mila, tanto che l’ex Commissario alla spesa pubblica, che si era prodigato nell’impresa, era arrivato a definirla una “giungla azionaria” che costa alle casse pubbliche circa 26 miliardi di euro l’anno. In moltissimi casi si tratta di partecipazioni che non superano il 10 per cento, in società che oltre a svolgere i servizi essenziali come trasporti, raccolta rifiuti, distribuzione di acqua, luce e gas, si occupano anche di impianti di risalita, spiagge, farmacie, stabilimenti termali, campi da golf, casinò, cantine sociali, produzioni casearie e tanto, tanto altro ancora. E l’obiettivo del governo è proprio quello di mettere un freno alla fantasia.

Negli ultimi decreti attuativi della riforma della Pubblica Amministrazione è previsto che siano proprio gli enti locali a fare il censimento delle proprie aziende partecipate, provvedendo a chiudere quelle che da più di tre anni hanno i bilanci in rosso. La Corte dei Conti recentemente ha stimato che, queste ultime, su scala nazionale siano più di un terzo e più di mille quelle che hanno solo l’amministratore delegato e nessuna struttura.

Nonostante le ripetute esortazioni di Palazzo Chigi a ritirarsi dalle società che non gestiscono servizi essenziali, gli enti locali hanno fatto orecchie da mercante. Tra il 2011 e il 2014, la spesa erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro, andando a finanziare anche società che senza la costante iniezione di denaro pubblico sarebbero già fallite.

Il 77 per cento di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23 per cento, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

Ma quanto grava la spesa per le partecipate su ogni cittadino? Il record se lo aggiudica il Trentino Alto Adige con 295 euro, seguita dalla Val D’Aosta dove si spendono 205 euro pro capite. Chiudono la classifica i cittadini calabresi e molisani, dove la spesa è appena di 8 e 5 euro. Ma stavolta le regioni del sud nessuna maglia nera perché le società partecipate in Italia, si sa, trovano la loro ragione d’esistere soprattutto per dare un’occupazione agli “amici di” e ai trombati della politica.

Flop da spending review: tagli alle imprese, più soldi alle partecipate

Flop da spending review: tagli alle imprese, più soldi alle partecipate

di Leonardo Ventura – Il Tempo

La spending review non ha colpito le partecipate. I piani messi in campo negli ultimi anni non hanno frenato il trend della spesa. Nel periodo compreso tra il 2011 e il 2014 ,la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subìto variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati contenuti in Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici.

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, è quella che ha riguardato la distribuzione di questi trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata – tra il 2011 e il 2014 – di quasi un miliardi (+35%), mentre 1’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni (-17%). Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e íl 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo. Il residuo 23%, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Cíttà metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi.

Scomponendo il dato che riguarda i trasferimenti verso le imprese pubbliche la ricerca ha individuato una componente stabile e costante – pari a oltre 1,4 miliardi – rappresentata dai trasferimenti correnti operati dalle Regioni (1,1 miliardi) e dagli altri enti locali. Più variabili, invece, i dati dei contributi in conto capitale, che sono praticamente raddoppiati dal 2011 (circa 770 milioni) al 2014 (1,5 miliardi). Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, è pesato comunque per oltre 166 milioni nel 2014. Infine, la spesa verso le imprese speciali (le cosiddette «municipalizzate»), composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province, resta stabile al di sopra dei 300 milioni all’anno.

Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante (che è anche quella più colpita dai tagli degli ultimi anni) resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014. La diminuzione dei contributi alle imprese private si nota anche nei trasferimenti correnti delle Regioni: dai quasi 1,5 miliardi del 2011 agli 1,2 miliardi del 2014. Stabili, invece, i trasferimenti da parte di Province e Comuni. A guidare la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali sono le tre Regioni Autonome del Nord Italia – Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Friuli Venezia Giulia – i cui enti locali spendono rispettivamente 295, 205 e 116 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

Friuli generoso con le imprese pubbliche, terzo in Italia per contributi

Friuli generoso con le imprese pubbliche, terzo in Italia per contributi

MESSAGGERO VENETO del 9 febbraio 2016

Il Friuli Venezia Giulia, insieme a Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, guida la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali. Le tre Regioni autonome spendono, attraverso gli enti locali, rispettivamente 116, 205 e 295 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

Negli anni tra il 2011 e il 2014, la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subito variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su dati Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici.

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, riguarda la distribuzione di trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata, tra il 2011 e il 2014, di quasi un miliardo di euro (più 35 per cento), mentre l’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni di euro (meno 17 per cento).

Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23 per cento, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, pesa comunque per oltre 166 milioni nel 2014. La spesa verso le imprese speciali (le cosiddette “municipalizzate”), resta stabile al di sopra dei 300 milioni di euro all’anno ed è composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province,.

Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi di euro ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014.

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Considerazione sulle elezioni americane dopo il voto in Iowa

Considerazione sulle elezioni americane dopo il voto in Iowa

di Pietro Masci*

I risultati delle c.d. Iowa Caucuses – molteplici assemble di cittadini registrati per votare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti – sono sorprendenti. Tuttavia, per avere una più precisa idea delle preferenze a livello nazionale, occorre, perlomeno, attendere il voto in New Hampshire (9 febbraio),  i caucuses in Nevada (20 e 23 febbraio), le primarie in South Carolina (20 e 27 Febbraio) e soprattutto il c.d. SuperTuesday con le primarie in 15 stati (Primo di Marzo).

Tra i repubblicani, è sorprendente la vittoria di Cruz, con il 28%, ma forse ancora di più il terzo posto di Rubio (23%) a solo un punto percentuale da Trump (24%). Tra i democratici, è strabiliante che Clinton e Sanders siano terminati praticamente alla pari.

I risultati confermano che esiste una domanda di cambiamento rappresentata sopratutto da candidati all’opposto -Sanders e Trump – che insieme costituirebbero di gran lunga la maggioranza assoluta. A differenza di altri paesi, dove i politici al potere cercano di evitare il voto quando forze considerate fuori dal sistema possono vincere – gli Stati Uniti sono più disponibili al cambio e alle novità; alla resa dei conti, le soluzioni pilotate debbono misurarsi con la partecipazione e la decisione dei cittadini. I candidati ed i rappresentanti in genere non emergono solo per una scelta dall’alto e non vengono eletti da altri apparati. Credo che questi siano importanti principi democratici che portano, alla lunga, ad esiti favorevoli.

La richiesta di cambiamento deriva dalla circostanza che negli Stati Uniti sta decelerando la forza propulsiva di una società basata sulle opportunità. Nel corso del tempo, le opportunità hanno creato posizioni di rendita che però ora favoriscono la conservazione e negano di fatto il principio delle opportunità sempre dichiarato. Si rafforzano gli interessi al potere e le c.d. lobbies. Gli esempi sono molti, tra questi alcuni dei più importanti interessi: attorno alle armi e al complesso militare e industriale; alle istituzioni finanziarie e Wall Street. Questi interessi costituiscono un potere finanziario sproporzionato capace d’influenzare i risultati politici con contribuzioni illimitate e anonime (la famosa decisione Citizens United della Suprema Corte che, appunto, permette contributi illimitati e anonimi ai candidati). Inoltre, il sistema educativo, che dovrebbe essere alla base di una società delle opportunità, comporta dei costi esorbitanti che riducono l’accesso all’istruzione.

Il cambiamento richiesto non si dirige verso Rand Paul – candidato repubblicano che ha appena abbandonato la corsa alla Presidenza – che propone una società libertaria, economia di libero mercato con minimo intervento dello Stato. Si tratta di un’impostazione in linea con la tradizione Americana, ma che ha pochi riscontri concreti, non stimola l’immaginazione e viene considerata troppo intelletuale.

Gli elettori si rivolgono, invece, verso candidati che hanno maggiore capacità comunicativa e presentano proposte che hanno un impatto tangibile più immediato e contenuti meno astratti. Al di là degli aspetti teatrali, le differenze sostanziali tra i candidati di ciascun partito non sono molto significative.

Tra i democratici, Sanders offre una chiara visione sul futuro della società americana; punta sopratutto sui temi delle disuguaglianze, della concentrazione della ricchezza, e del ruolo del denaro nella politica che non permettono la realizzazione di una società delle opportunità per tutti. Clinton – che diversamente da Sanders ha votato a favore della guerra in Iraq – si dice una pragmatica capace di “fare in modo che le cose vengano fatte”; ha sposato molti dei temi di Sanders, in forma più moderata e più gradualista – e aggiungo – con minore attrazione per coloro (e non sono pochi) che non ripongono la loro fiducia in Clinton.

I repubblicani sono abbastanza uniti su vari temi: difesa del sogno Americano di una società dove la libertà è sovrana e un economia regolata dal mercato; lotta al terrorismo; politica estera diretta ispirata agli interessi e alla sicurezza nazionale; controllo dell’emigrazione (con gli eccessi di Trump che propone di costruire un muro lungo la frontiera con il Messico, il quarto più importante partner commerciale degli Stati Uniti e parte del sistema Nafta, accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico); aumento delle spese militari; possesso delle armi; avversione alla riforma della sanità e in genere alle politiche del Presidente Obama. Peraltro, Trump critica apertamente le guerre di George W. Bush e le decisioni militari del duo Obama-Clinton e il ruolo del denaro nella politica. Questi temi non sono raccolti da Cruz e Rubio, i candidati – anche dopo il dibattito tra repubblicani del 6 febbraio – che sono, insieme a Trump, i più accreditati alla designazione per le elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016.

Tuttavia, in queste come in altre campagne elettorali per la Presidenza, è assente una variabile fondamentale: il Congresso con il quale bisogna fare i conti per introdurre la legislazione che i vari candidati presidenziali propongono.

Le elezioni del 2016 presentano tre aspetti senza precedenti.

Per la prima volta ci sono addirittura due “latinos” – Cruz e Rubio – tra i maggiori contendenti alla designazione repubblicana (senza contare Jeb Bush che parla correntemente lo spagnolo ed è sposato a una messicana, Columba Garnica de Gallo). Anche se occorre fare qualche distinguo sulla percepita latinità di Cruz e Rubio – entrambi giovani senatori di origini cubane, ma con impostazioni diverse particolarmente per quanto riguarda il tema dell’immigrazione –  le loro candidature riflettono la circostanza che i “latinos” negli Stati Uniti sono oltre 50 milioni (di cui probabilmente 7-8 milioni sono illegali) e costituiscono la più numerosa minoranza che – molto di più di altre minoranze – mantiene la lingua e le relazioni con i paesi di origine. In effetti, lo spagnolo negli Stati Uniti è molto diffuso e viene normalmente utilizzato insieme all’inglese.

Il secondo aspetto è che Bernie Sanders – un settantacinquenne che ha il sostegno dei giovani e non riceve sostegni finanziari da parte di interessi precostituiti, ma piccoli contributi da oltre 3 milioni di cittadini – conduce la sua campagna elettorale – finora con successo – proclamando apertamente di essere socialista e di volere una rivoluzione politica. Queste affermazioni 10-20 anni fa avrebbero squalificato qualsiasi candidato da ogni dibattito ed elezione e gli avrebbero alienato gran parte dell’elettorato. Negli anni ’70, l’allora candidato democratico McGovern – secondo una ricostruzione cinematografica di Oliver Stone – fu sconfitto da Nixon nella campagna presidenziale del 1972, non solo grazie alle irregolarità del Watergate, ma anche perché, in piena Guerra Fredda, gli fu affibiata l’etichetta di socialista omosessuale.

Il terzo aspetto riguarda l’età. Alcuni tra i maggiori candidati alla Presidenza – Clinton, Trump e Sanders – hanno rispettivamente 68, 70 e 75 anni e dimostrano grande vitalità fisica e intellettuale, come i vari dibattiti, incluso quello tra Sanders e Clinton del 4 febbraio, ampiamente dimostrano. In aggiunta alla circostanza che uno dei maggiori candidati – Clinton – è per la prima volta una donna (c’e’ anche un’altra donna nel campo repubblicano, Carly Fiorina che non raccoglie molti sostegni), non è mai accaduto che ci fossero tanti anziani e credibili candidati alla Presidenza.

Il significativo ruolo dei “latinos”, l’accettazione dei termini socialista e rivoluzione, la preponderanza di candidati anziani e la presenza femminile evidenziano la dinamica della società americana e quanto sia cambiata e stia cambiando. A proposito di cambiamento, mi sembra significativo riportare una battuta. È stato chiesto a un giovane della generazione Millennium chi è un socialista. La risposta è stata che socialista è qualcuno che usa i social media!!!

In questa spinta verso il cambiamento, tuttavia, un tema di fondo delle elezioni presidenziali riguarda il trattamento degli immigrati e dei rifugiati e in che misura gli americani – impauriti dal terrorismo, scossi dalla crisi economica e finanziaria e non rassicurati dai politici – vorranno confermare la natura multietnica ed aperta della società americana.

La corsa alla Presidenza è lunga, apertissima e affascinante; si preannuncia piena di colpi di scena; e costituisce un momento davvero critico per la definizione di chi desiderano essere gli americani.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma