»

Parte sotto della home

Debiti, le aziende aspettano 70 miliardi

Debiti, le aziende aspettano 70 miliardi

Marco Valeri – Il Tempo

Lo Stato chiede soltanto. Ma non dà. O meglio, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo, si vedono recapitare multe salate. Eppure la realtà dei debiti saldati con ritardi di mesi è certificata dalla Banca d’Italia che smonta, di fatto, l’entusiasmo di Matteo Renzi che lo scorso anno aveva annunciato trionfalmente che avrebbe saldato tutti i conti della Pubblica amministrazione per la data del suo onomastico, ovvero il 21 settembre. In realtà già allora lo stock di debito nei confronti delle imprese era di circa 66,5 miliardi di euro a cui dovevano essere sottratti 31/32 miliardi già pagati. La tendenza era quella comunque di assicurare il saldo dell’arretrato entro la fine del 2014. Martedì scorso invece la sorpresa dal pulpito di Banca d’Italia.

La verità di Visco

Nelle stime presentate da Bankitalia nella «Relazione Annuale 2014», il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava lo scorso 31 dicembre a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 2013. All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto.

Stato «lumaca»

Il dato fornito dai tecnici della Banca d’Italia non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo:questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, il centro studi ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

La bomba interessi

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infarti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro.

Ultimi in Europa

Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito. La Cgia di Mestre guidata da Giuseppe Bortolussi spiega che «nonostante i tempi di pagamento nell’ultimo anno siano scesi di 21 giorni, secondo Intrum Iustitia nel 2015 la nostra Pa si conferma la peggiore pagatrice d’Europa, visto che salda mediamente i propri fornitori dopo 144 giorni, contro i 34 giorni medi che si registrano in Ue. Rispetto ai nostri principali partner economici, la Francia salda le proprie fatture dopo 62 giorni, i Paesi Bassi in 32 giorni, la Gran Bretagna in 24 giorni e la Germania dopo 19 giorni».

Le pensioni di domani tra Stato e privato

Le pensioni di domani tra Stato e privato

Carlo Lottieri – La Provincia di Como

La recente sentenza della Corte costituzionale, che ha ripristinato gli aumenti per le pensioni superiori ai 1.400 euro, ha riportato la questione previdenziale al centro dell’attenzione e sta di nuovo obbligando a porre mano all’intero sistema delle pensioni: troppo costoso e basato su logiche difficilmente giustificabili sulla base di criteri di giustizia.

Nell’immediato, il governo sarà costretto a trovare risorse che permettano di soddisfare (almeno in parte) le richieste della Consulta. Questo però non basta. Più in generale è bene comprendere che il passaggio che ebbe luogo una ventina di anni fa dal sistema detto “retributivo” a quello “contributivo” non è in grado di garantirci un futuro, dal momento che non si è usciti da quello schema che vede i lavoratori attuali pagare la pensione dei lavoratori del passato, ormai anziani. Per giunta la demografia ci condanna, dato che l’età della vita si è allungata proprio mentre crollava l’indice di fertilità. Lo scenario futuro vede pochi giovani che dovranno mantenere tantissimi anziani.

La gestione pubblica delle pensioni è stata costruita operando una collettivizzazione dei risparmi destinati a sorreggere la nostra terza età. I lavoratori sono stati costretti a destinare le loro risorse all’Inps e a istituti simili, che non hanno accantonato e investito tali capitali, ma li hanno usati per soddisfare le esigenze dei pensionati presenti e anche per altre esigenze “sociali”. Ora però i conti della previdenza non tornano e sono necessarie misure drastiche, che si aggiungano alle varie riforme degli ultimi anni.

Al tempo stesso, se l’economia non si mette in moto è impossibile che vi siano risorse per garantire una vita decente alla popolazione anziana, ma con questi prelievi fiscali e previdenziali è difficile che si possa avere una qualche ripresa.

Entro tale quadro molti si rendono conto dell’esigenza di passare da un sistema previdenziale “politicizzato” (pubblico, statale) a uno basato sulla responsabilità di singoli in grado di controllare direttamente i loro accantonamenti. È questo in particolare il tema dei fondi privati e della previdenza complementare.

Non è un caso, però, che oggi soltanto una minoranza dei lavoratori (meno di un terzo) stia costruendo una pensione complementare: un po’ perché l’insieme del prelievo fiscale e contributivo è già molto alto, e quindi i giovani non hanno risorse da destinare a una pensione ulteriore, ma anche perché c’è poca fiducia. Il modo in cui negli scorsi anni il legislatore è intervenuto a modificare le regole fiscali in materia di previdenza privata oppure ha annullato l’autonomia delle varie mutue professionali ha insegnato che in questo ambito regna un arbitrio che non promette molto di buono.

Pure in tema di pensioni, insomma, c’è bisogno di più diritto e meno politica. In altri termini è necessario che vi siano regole precise, semplici, di lunga durata, sottratte alla volubilità di governi e legislatori. Questo è importante non soltanto per aiutare l’economia a rimettersi in moto, ma anche per favorire quella fiducia che è necessaria a far crescere una previdenza nuova e direttamente nelle mani dei lavoratori.

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

Repubblica.it

La crisi colpisce anche le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: negli ultimi 10 anni le somme dirette verso i paesi d’origine dei migranti hanno raggiunto i 60 miliardi di euro, ma il trend rilevato da un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia mostra chiari segnali di sofferenza.

Osservando la ripartizione per anno, infatti, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007.

Continua a leggere su Repubblica.it.

 

 

L’Italia divisa in due – Leggi il paper completo

L’Italia divisa in due – Leggi il paper completo

Di Paolo Ermano

In una recentissima relazione che la Commissione Europea ha indirizzato all’Italia intitolata didascalicamente: “Relazione per paese relativa all’Italia 2015 comprensiva dell’esame approfondito sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici “, nella sezione 3.5 intitolata “Tema Speciale: Disparità Regionali” viene messo in luce come la crisi economica continui ad aggravare in maniera sostanziale la differenza nelle performance economiche fra Sud e Centro-Nord. Per dirla con il sintetico linguaggio del governo europeo: “La crisi ha aggravato lo storico divario socioeconomico tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno “.
Nel Mezzogiorno d’Italia vivono poco più di 20 milioni di abitanti, circa 1/3 della popolazione totale del Paese. Il Sud rappresenta, quindi, una porzione rilevante del Paese; eppure sembra comportarsi come un’area a sé, un’area sempre più indirizzata verso un declino economico che molto probabilmente rischierà di portare con sé un collasso sociale. Invece, il resto d’Italia, il Centro-Nord, dove gli altri 40 milioni di abitanti vivono, è un insieme di regioni che, come vedremo, si attesta a livello di sviluppo vicini ai migliori partener europei, una situazione di squilibrio economico che si riflette inevitabilmente sulle possibilità di governo del Paese.
L’elemento sorprendente dell’analisi che segue su Centro-Nord e Mezzogiorno è la sua semplicità. Prendendo a prestito 4 grafici dal rapporto della Commissione Europea, si può rappresentare una storia del Mezzogiorno di declino, un declino legato all’impossibilità di fare attività d’impresa, un declino fatto di disoccupazione, di scarsa capacità imprenditoriale e, forse soprattutto, di una governance disastrosa.

1. Mercato del lavoro

Come si vede nel primo grafico (Grafico 3.5.1.), il progresso occupazionale al Centro-Nord ha subito una battuta d’arresto con l’avvento della crisi, dopo un trend ascendente che perdurava dagli inizi degli anni ’90. E’ interessante notare come nonostante tutto, in quest’area la tremenda crisi degli ultimi anni non ha ridotto l’occupazione come invece accadde alla fine degli anni ’80, segno che di un sistema economico-sociale che, per quanto farraginoso, ha tenuto.

mercatodellavoro

Invece nel Mezzogiorno siano letteralmente davanti a un disastro: a fine 2013, l’occupazione nel Mezzogiorno si attestava a valori inferiori a quelli raggiunti nel 1977, di quasi 5 punti percentuali inferiori. Mentre dall’inizio della crisi quest’area osservava il tracollo degli occupati, registrava anche un aumento del tasso di disoccupazione di quasi 10 punti percentuali, circa la metà di quanto accadeva al Centro-Nord.
Un’Italia a due velocità, dove mentre 1/3 della popolazione annega e gli 2/3 galleggiano e si allontanano.

2. Il Costo del Lavoro

Fra le ragioni economiche di questo tracollo, certo non le uniche variabili utili a comprendere quanto accade, sicuramente dobbiamo considerare un mercato del lavoro estremamente rigido. Il tema centrale in questo caso non è tanto la flessibilità contrattuale, quanto la difficoltà che squilibri fra domanda e offerta di lavoro incontrano nell’indurre una variazione delle retribuzioni.
Come emerge da questo grafico, l’Italia detiene il primato dello squilibrio del tasso di occupazione regionale (Grafico 3.5.3. A): l’asticella, che ha ai vertici la regione con il più alto tasso di occupazione e al vertice opposto quella con il più basso, più lunga è sicuramente quella del nostro Paese.

occupazioneecosti

Eppure, a questa grande disparità di occupati, e quindi di offerta di lavoro, non corrisponde un altrettanto ampio divario nei costi del lavoro del settore privato (grafico 3.5.3. B). Anzi, l’Italia si inserisce nel gruppo con i paesi aventi la minore disparità regionale, una situazione illogica, alla luce della disparità di performance dei mercati del lavoro nel Mezzogiorno e al Centro-Nord.
Ad esempio il costo del lavoro in Calabria è poco inferiore al costo del lavoro in Piemonte. Considerando la presenza di un livello di infrastrutture superiore, di servizi pubblici e privati relativamente più efficienti, e della qualità della pubblica amministrazione, è molto più probabile che un’impresa si sviluppi in Piemonte, rispetto alla Calabria: il differenziale di costo del lavoro è troppo basso per avviare un processo di sviluppo privato in Calabria.

3. La Produttività

Basterebbe abbassare il costo del lavoro per far ripartire il Mezzogiorno, magari attraverso una modifica nelle regole del mercato del lavoro?
Questo sarebbe sicuramente un primo passo, ma non sarebbe sufficiente. Come che si vede nel grafico 3.5.4, nel 1980 produrre nel Mezzogiorno comportava un risparmio in termini di costo del lavoro di circa il 20% rispetto al Centro-Nord, e così accade ancora nel 2013. Da questo punto di vista, il Sud non ha raggiunto il Centro-Nord, le distanze non si sono attenuate.

produtt

Tuttavia, la chiave per comprendere “la questione meridionale” è nella relazione fra costo del lavoro e produttività: infatti, l’uno senza l’altra non è permette di sviluppare un’analisi completa.
Nel Mezzogiorno la produttività è bassa, troppo bassa: rispetto al resto del Paese, in 33 anni il Mezzogiorno ha perso 10 punti percentuali di produttività.
Per fare un esempio esplicativo, in media un operaio di Osoppo produce nella stessa unità di tempo il 20% in più del suo omologo a Foggia.
La somma di questi due effetti, costo del lavoro che cala e produttività che cala, fa sì che nel Mezzogiorno la produzione di un singolo bene nel settore manifatturiero costi di più che nel Centro-Nord. E il contesto meridionale, come vedremo, non incentiva certo lo sviluppo industriale
Insomma non conviene, dimostrando una volta di più che con la produttività si può competere con chi ha un costo del lavoro inferiore al tuo.

4. E le Amministrazioni?

Una risposta immediata ai problemi prima illustrati può venire dalle istituzioni: è impensabile aspettarsi che un tessuto imprenditoriale emerga spontaneamente nelle regioni del Mezzogiorno, vivacizzando il territorio. E’ impensabile perché non vi sussistono le condizioni per cui questo accada.
Solo l’amministrazione pubblica, agendo attraverso regole migliori e con un’adeguata politica di investimenti a tutto campo potrebbe creare le precondizioni per lo sviluppo. La domanda è: quale amministrazione? Quella locale o quella nazionale?
La domanda non è banale, principalmente perché i poteri dell’amministrazione centrali non sono poi così ampi nell’imporre scelte a livello regionale, né quelli delle amministrazioni regionali sono spesso sufficienti per varare un piano di così ampio respiro. La questione è complessa e questa non è la sede adatta per trattarla.
Tuttavia, una cosa è certa: anche a livello di governance locale, il Mezzogiorno è profondamente deficitario rispetto al Centro-Nord.
Nel grafico 3.5.5. sono riportati i dati relativi alla qualità della governance fra diverse regioni di diversi Paesi.
governance
Di nuovo, l’Italia brilla per l’ampiezza dello spettro di possibilità. Mentre le provincie di Trento e Bolzano possono vantare un ambiente socio-economico che si assesta fra il 10% delle migliori regioni europei, “le Regioni del Sud (e il Lazio) sono tra le peggiori dell’UE”, relegando il paese in quinta posizione dal basso nella graduatoria europea.
In sostanza, la nostra migliore regione ha un livello di governance pari al miglior esempio tedesco, mentre la nostra peggiore si attesta al di sotto della peggior regione rumena, davanti solo alle regioni bulgare.
Se queste sono le condizioni ambientali in cui sviluppare l’economia, è inutile sperare nell’attività privata: bastano le regole delle amministrazioni locali ad affossare ogni tentativo di sviluppo. Ma proprio queste amministrazioni locali, così come sono ora, sono le meno adatte a innescare un processo di sviluppo strutturato: non ne hanno né la capacità, né la forza. Solo un intervento diretto dall’alto, coordinato magari dalle istituzioni europee, in funzione di garanti di un processo di riordino del sistema adeguato e incisivo, porterebbe a un sostenuto cambiamento di rotta per il Mezzogiorno, favorendo così lo sviluppo dell’intero Paese.
Tuttavia qualcosa si potrebbe già fare, senza grande clamore.
La relazione della Commissione Europea termina con una serie di esempi pratici che danno la cifra del ritardo del Sud e ne indicano, allo stesso tempo, una prima via di uscita dal declino.
“Ad esempio, ottenere le autorizzazioni per la costruzione di un magazzino richiede 164 giorni a Bologna (Emilia-Romagna) con un costo equivalente al 177% del reddito pro capite, mentre a Potenza (Basilicata) sono necessari 208 giorni con un costo pari al 725% del reddito pro capite. Far eseguire un contratto richiede in media 855 giorni e costa il 22% del credito a Torino (Piemonte), rispetto ai 2 022 giorni e un costo pari al 34% del credito a Bari (Puglia). I tempi per l’avviamento di un’impresa variano da 6 giorni a Padova (Veneto) fino a 16 giorni a Napoli (Campania), mentre la registrazione di una proprietà necessita di 13 giorni a Bologna e di 24 giorni a Roma” .
Questi sono tutti procedimenti amministrativi che impattano sulla possibilità di sviluppo economico: se, ad esempio, Napoli copiasse Padova, e Potenza copiasse Bologna qualcosa inizierebbe a cambiare.
È inaccettabile fallire per 200 milioni (non) dovuti a Equitalia

È inaccettabile fallire per 200 milioni (non) dovuti a Equitalia

Massimo Blasoni – Libero

Conoscevo l’imprenditore Riccardo di Tommaso, un uomo della mia terra che insieme alla madre Teresa aveva aperto nel 1975, a San Giorgio di Nogaro, un negozio di abbigliamento che doveva semplicemente servire a finanziare i suoi studi universitari. Senza confidare in altro che non nella sua tenacia, in pochi anni era invece riuscito a trasformare quell’intuizione nel Gruppo Bernardi (il cognome appunto di sua madre), con centinaia di punti vendita in tutta Italia e nel mondo.
All’indomani della sua morte prematura nel 2010, il gruppo è poi passato nelle mani della moglie e dei due figli. È vero che negli ultimi anni stava vivendo qualche difficoltà a causa della grave crisi internazionale, ma questa situazione si sarebbe potuta superare grazie all’intervento del gruppo Coin, che in quel momento stava trattando l’acquisizione dei suoi negozi. A compromettere il piano di salvataggio è stato però l’arrivo di una cartella esattoriale monstre di 200 milioni di euro che contestava mancati versamenti Iva e Irap, con conseguente pignoramento della somma contestata eseguito proprio presso il fornitore Coin. Il sistema bancario ha poi subito bloccato ogni tipo di accesso al credito.
Da qui il fallimento, dovuto non a incapacità commerciale ma all’intervento improvvido della cieca burocrazia fiscale. Oggi veniamo infatti a sapere dalla stampa che quella cartella dell’Agenzia delle Entrate era illegittima, niente altro che un errore marchiano: quei denari non erano dovuti. Chi risarcirà adesso il danno di un’impresa che non c’è più e di centinaia di dipendenti rimasti senza lavoro? E soprattutto, quante altre realtà imprenditoriali si trovano in questo momento nella stessa situazione? Qui nel Nord Est c’è gente che nella sua azienda ha messo tutta la sua vita, che partendo dalla classica fabbrichetta in un capannone ha saputo conquistare i mercati internazionali.
Eppure troppe volte quel sogno viene infranto non dalla crisi ma dagli eccessi di una burocrazia che decide di passare sopra a tutto e a tutti.