La crisi non è finita, va cambiato il passo

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Stiamo per archiviare il 2014 come il settimo anno di crisi. Se, come sembra, la ca- duta del pil sarà a consuntivo di quattro decimi di punto, dal 2008 – con 19 trimestri su 28 di pil in rosso – avremo perso 10,1 punti di ricchezza nazionale, circa 160 miliardi. Se poi si considera il pil potenziale (che misura non quanto si cresce ma quanto si potrebbe crescere in base alle proprie potenzialità) rispetto alle dinamiche pre-crisi è più basso del 12,6%. Un disa- stro che, Grecia a parte, non è toccato a nessun’altro paese. Pensate che si tratta del periodo più lungo di crisi economica che l’Italia abbia mai avuto, considerato che persino durante la seconda guerra mondiale il periodo di contrazione del pil è durato 4 anni (certo, la perdita di ricchezza è stata 4 volte tanto, ma vorrei vedere…) e altrettanti anni ci sono voluti per tornare ai valori antecedenti al crollo.

Ora si calcola che dovremo arrivare al 2026 per recuperare la ricchezza perduta. E speriamo che siano previsioni giuste, visto che, per esempio, l’anno scorso di questi tempi il Fondo Monetario prevedeva per il 2014 una crescita dello 0,6% (l’errore è di un punto, visto che perdiamo lo 0,4%, e non è poco) e per il 2015 un rincuorante +1,1%, mentre a ottobre ha corretto a +0,8% la stima per l’anno prossimo. Peccato che la più recente valutazione sia quella dell’Ocse che non ci concede niente di più che due decimi di punto di crescita, quattro in meno di quel +0,6% su cui si reggono i conti del governo.

Siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che ci costringerà a vivere in modo diverso da quanto è stato fin qui. Non dico peggio, dico diverso. Non potremo trovare più i livelli di consumo di prima – ben al di sopra delle nostre possibilità, come certifica il livello del debito pubblico – gli stili di vita, le dinamiche sociali, i sistemi di welfare, i comportamenti e le abitudini personali e collettive dovranno per forza cambiare. Ci piaccia o meno, sarà così. Con una differenza fondamentale, però, a seconda del nostro grado consapevolezza. Cioè, se capiremo ciò che è avvenuto, sta avvenendo e avverrà e ci organizzeremo per rimodularci di conseguenza – perdendo ogni velleità di voler difendere ciò che non c’è già più o che comunque non potrà più esserci – allora sarà dura lo stesso ma il passaggio risulterà molto, molto meno doloroso. Anche perché spazi per reinventarci ci sono, volendo. Se, al contrario, faticheremo a renderci conto o, peggio, punteremo i piedi per tentare di fermare il corso delle cose, allora il prezzo da pagare sarà davvero alto. Finora, purtroppo, abbiamo battuto la seconda strada. Per colpa di una classe dirigente (non solo politica) che invece di dire la verità al Paese – per ignavia, ma anche per vasta ignoranza – ha raccontato frottole. Ora basta.