Idea folle per l’economia italiana

Jim O’Neill – Il Sole 24 Ore

Ho trascorso buona parte dei miei 35 anni di analista economico e finanziario a lambiccarmi il cervello sull’Italia. Studiarne l’economia è stato il primo incarico del mio lavoro. In verità, l’Italia è stato il primo Paese straniero nel quale mi sia recato. Adesso sono tornato da una vacanza in Puglia e Basilicata. Nei decenni, la domanda che mi si è affacciata spontanea è rimasta pressoché invariata: come è possibile che un Paese così meraviglioso abbia così tante difficoltà ad avere successo?

Per tutto questo tempo, l’Italia ha messo in campo un governo debole contro un settore privato straordinariamente adattabile e una competenza speciale nella produzione manifatturiera su piccola scala. Essendo per natura ottimista, in generale ho creduto che questi punti di forza prima o poi potessero avere la meglio e l’Italia potesse prosperare. Prima dell’unione economica e monetaria europea, però, l’Italia aveva un tipo di flessibilità di cui ora è priva: una moneta che poteva svalutare in caso di necessità. Quelle periodiche iniezioni di maggiore competitività furono di aiuto alla Fiat e agli altri grandi esportatori, ma anche alle aziende più piccole.

Il resto d’Europa nutriva sentimenti contrastanti in relazione a questa celerità nel recuperare competitività con la svalutazione, ovviamente a loro spese. Quando si iniziò a parlare di istituire tassi fissi di cambio in Europa e ad avviarsi verso una valuta unica, tra gli altri partner – soprattutto Germania e Francia – le opinioni furono discordanti in merito a cosa sarebbe stato più nel loro interesse. Molti conservatori tedeschi, compresi alcuni alla Bundesbank, diffidarono dell’impegno italiano nei confronti di una bassa inflazione, che loro avrebbero voluto incoronare obiettivo monetario più importante d’Europa.

Lasciare l’Italia fuori dall’euro avrebbe significato rendere attaccabile la loro stessa competitività dalle occasionali svalutazioni della lira. Alla fine, fu presa la decisione di ammettere l’Italia. Le regolamentazioni fiscali adottate in quella medesima circostanza – compresa la promessa di mantenere il deficit di bilancio sotto il 3% del Pil – possono essere considerate come un tentativo per costringere l’Italia a comportarsi come si deve. Più volte mi sono chiesto se per caso da alcuni non fossero considerate un mezzo per rendere impossibile all’Italia entrare a far parte dell’euro.

In ogni caso, l’Italia si è trovata doppiamente vincolata, senza una valuta da regolare a suo piacimento e con uno spazio di manovra fiscale fortemente limitato. I risultati non sono stati positivi. Paradossalmente, tra il 2007 e il 2014 l’Italia ha ottenuto risultati migliori della maggior parte degli altri Paesi nel tenere sotto controllo il proprio deficit ciclicamente corretto. Nonostante ciò, però, il suo rapporto di indebitamento rispetto al Pil è aumentato tantissimo. La causa è da ricercarsi nella costante mancanza di crescita nel Pil nominale, a sua volta dovuta almeno in parte a una moneta sopravvalutata e a rigide restrizioni di bilancio.

L’Italia è la terza economia più grande della zona euro e il terzo Paese per numero di abitanti. Tenuto conto di ciò, dell’entità del suo indebitamento e di ogni altra cosa di cui siamo venuti a conoscenza sulle priorità dell’Europa durante la fase di creazione dell’euro e da allora in poi, ho sempre creduto che, in definitiva, la Germania avrebbe fatto quanto era necessario per difendere l’Italia da quel tipo di dissesto finanziario che ha travolto la Grecia nel 2010. Ormai, però, sto cominciando ad avere i miei dubbi.

Per impedire che il suo indebitamento si aggravi ancora di più, l’Italia ha bisogno di una crescita nel Pil nominale. Certo, ha bisogno anche di riformare la propria economia, di aumentare la produttività, di dare un forte impulso alla forza lavoro affinché questa si impegni in maniera duratura. Ma finché resterà membro del sistema euro, non avrà l’aiuto derivante da una svalutazione valutaria programmata. Ciò significa che ha bisogno dell’aiuto della Germania, e non soltanto per mezzo di una maggiore flessibilità fiscale, che è essenziale, ma anche tramite un aumento dell’inflazione nell’area euro per tornare all’obiettivo della Banca centrale europea di una soglia «inferiore, ma vicina, al 2 per cento». Sarà quasi impossibile per l’area euro riuscirci, a meno che la Germania non riveda lei stessa al rialzo l’inflazione per i prezzi al consumo, portandoli a quel tasso o più in alto.

Mentre attraversavo l’Italia, in questa mia recente vacanza, ho immaginato un tipo diverso di rigidità tedesca. Che accadrebbe se si applicasse il criterio della «tolleranza zero» nei confronti di un’inflazione che cada sotto l’obbiettivo voluto? Forse, i cittadini tedeschi dovrebbero pagare una tassa extra per ogni anno che il loro Paese fa registrare un’inflazione «inferiore, ma non vicina, al 2 per cento», con una sanzione amministrativa crescente in rapporto alla differenza? I soldi così raccolti potrebbero essere distribuiti ai Paesi che hanno un deficit fiscale ciclicamente corretto inferiore al 3 per cento e inferiore rispetto al trend della crescita del Pil. Anzi, a ben pensarci, l’Italia non potrebbe obbligare i turisti tedeschi a pagare una tassa?

Lo so. Sarebbe folle. Ma sarebbe veramente molto più folle rispetto al fatto di continuare a insistere sull’arbitraria regola del vincolo tra economia e deficit, senza revisioni per il ciclo economico, o al fatto di lasciar cadere la domanda così in basso che l’Europa non riesce a raggiungere il suo obbiettivo di inflazione mancandolo di molto, e in modo tale da condannare l’Italia e altri paesi a una recessione senza fine? Direi che, quanto a follie, stanno quasi alla pari.