L’Europa deve cambiare rotta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo di allora si è trasformato in un senso di declino che ridicolizza l’ingenuità del nostro ottimismo. L’Europa si confronta con un impoverimento demografico e una stagnazione economica che paiono così inattaccabili da valicare il nostro campo visivo ed essere infatti definiti “secolari”. Anno dopo anno, previsioni economiche come quelle pubblicate ieri da Bruxelles si degradano drasticamente, mentre la fiducia dei cittadini si inaridisce. Il fatto che anche democrazie ben ordinate ed economie solide come Germania e Francia si arrestino svela l’illusione che “fare i propri compiti di casa” sia sufficiente. Se le economie sono interdipendenti, le politiche non possono restare rinchiuse dentro i confini del consenso nazionale.

L’intero Occidente, Giappone e Stati Uniti compresi, è preda di un senso di incertezza ingigantito dal confronto con i modelli asiatici del capitalismo statale. Il contratto sociale delle democrazie liberali sembra superato. Un collega di Brookings descrive il vecchio contratto in questi termini: «Lavorando con burocrazie d’alto livello, governi democratici garantivano crescita, una costante riduzione della povertà, sicurezza fisica ed economica, nonché migliore sanità verso il sogno di Cartesio di sconfiggere la morte con la scienza». L’ottimismo economico si identificava con le finalità individuali e addirittura con il senso dell’esistenza. Non ci si può sorprendere se la disillusione di oggi è altrettanto esistenziale.

Il dramma della disoccupazione dei giovani, spesso istruiti, aperti al mondo o critici della società, evidenzia i limiti del vecchio contratto. Il calo dei redditi da lavoro sta erodendo consumi e crescita, producendo una fase senza precedenti di bassa inflazione e di alti debiti. Le aspettative di inflazione proiettano un calo dei prezzi non più su pochi mesi, ma su dieci anni. L’esempio giapponese non è isolato, negli Stati Uniti la quota del reddito che va in salari e stipendi è al livello più basso da 50 anni, le imprese accrescono la produzione senza assumere nuovi lavoratori nella fascia dei redditi medi, centrale alla tenuta del contratto sociale.

Ma mentre gli Usa hanno ritrovato un passo di crescita che pur squilibrato compra tempo alle speranze dei cittadini, l’Europa non ha alternativa che cambiare rotta. Affidarsi alla sola politica monetaria non basta. Le banche avevano un ruolo critico nel contratto, servendo l’economia secondo logiche che non erano solo di massimizzazione del profitto, ma che poi si erano piegate a interessi di consenso politico. Negli ultimi venti anni il canale finanziario ha invece assunto vita propria. Il distacco è vistoso oggi quando l’iniezione di quantità inaudite di moneta manca di ravvivare la crescita, se non nell’unico paese per il quale l’industria bancaria ha un ruolo non di servizio all’economia reale ma di industria esportatrice, la Gran Bretagna.

Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.

La bassa inflazione fa crescere il valore reale dei debiti in tutta l’euro area. Il richiamo all’austerità come valore in sé non è sufficiente. La scarsa comprensione del vuoto di investimenti in Europa è una denuncia dei limiti di visione politica. La caduta del Muro aveva catalizzato la risposta politica europea: individui coraggiosi avevano aperto i confini; l’Occidente aveva riconosciuto le ragioni di investire anche materialmente nel futuro comune; lanciando l’euro, la Ue aveva assecondato l’istinto degli individui, abbattendo i confini, ampliando il mercato e accrescendo la libera circolazione. Poi le paure e le marce indietro. Un quarto di secolo dopo, l’esistenza della Ue è sfidata da chi vuole, non solo a Londra, richiudere i confini. Sentimenti xenofobi stanno dilagando.

In Francia il Fronte nazionale è il primo partito; in Germania il 44% degli elettori ritiene che il partito anti-europeo Alternativa per la Germania rappresenti l’interesse dei tedeschi. La politica si è ritirata dall’ambizione di promuovere il bene pubblico di lungo termine. È tornato il riferimento dei confini nazionali, ne è responsabile anche la gestione della crisi europea in cui a ogni Stato è chiesto prima di tutto di essere autosufficiente: “Chacun sa merde”, a ciascuno il proprio lerciume, come disse nel 2008 a proposito delle banche europee Angela Merkel, proprio il primo leader tedesco che veniva dall’altro lato del Muro. Ora il lerciume è di tutti.