La questione dell’immigrazione è tornata al centro delle cronache e, nell’imminenza di importanti elezioni, è diventata pretesto di opposti populismi.
Da un lato, a sinistra, si difende l’idea di un’immigrazione assistita, statizzata, a carico dei contribuenti, con l’idea che non si dovrebbe porre alcune limite all’arrivo di lavoratori e famiglie da Africa, Asia e America latina. Sulla base di logiche egualitarie e sostanzialmente illiberali, si afferma la tesi che i cittadini dell’Occidente, in generale, e dell’Italia, in particolare, avrebbero non soltanto l’obbligo morale di aiutare chi sta peggio, ma anche l’obbligo giuridico-politico di destinare le risorse provenienti dalle imposte a porre le basi per l’accoglienza e l’ospitalità di chiunque venga a vivere da noi.
Al populismo socialista si contrappone, sempre più, un populismo di segno opposto che è alimentato dalla stessa spesa assistenziale a favore dei nuovi arrivati. I centri di accoglienza sono ormai al centro della battaglia politica di chi, come Matteo Salvini, vede nel contrasto alla “invasione” la maniera più semplice per fare della Lega Nord un partito nazionale. In questo caso, si lascia intendere che meno immigrati vi sono e meglio è. Il progetto è quello di un’Italia solo italiana, anche sulla base della tesi – economicamente indifendibile – che gli immigrati sottrarrebbero posti ai lavoratori indigeni.
In questa situazione un progetto autenticamente liberale dovrebbe chiedere di “depoliticizzare” il tema. Bisogna riconoscere che una buona immigrazione può solo avvantaggiarci (basti pensare all’aiuto che tante famiglie ricevono dall’arrivo di badanti filippine, ucraine o romene), ma al tempo stesso si deve comprendere che la spesa pubblica in tema di immigrazione è benzina buttata sul fuoco degli odi razziali e della xenofobia.
Qualche elemento essenziale va ricordato. La maggior parte dell’immigrazione ha luogo tramite voli aerei ed aeroporti, o anche grazie a bus e treni. Silenziosamente, senza richiamare l’attenzione di giornalisti e senza suscitare tensioni di opposta natura, ogni giorno migliaia di persone fanno scalo in Italia con visti turistici e poi entrano in clandestinità. Nel suo insieme, l’immigrazione illegale è un fenomeno che non si risolve, allora, con la militarizzazione delle coste e il respingimento dei barconi.
In secondo luogo, bisogna tenere a mente che quanti arrivano via mare spendono somme rilevanti e in tal modo finanziano organizzazioni criminali. Bisognerebbe utilizzare quelle risorse in altro modo, incanalandole verso una gestione diversa della selezione di chi vuole venire da noi e facendo sì che non siano più i contribuenti a sostenere l’onere dell’ospitalità dei migranti. Chi arriva deve sapere che dovrà saper badare a se stesso e quindi dovrà utilizzare le molte migliaia di euro che oggi dà a chi senza scrupoli li carica sui barconi per acquistare un biglietto aereo e per gestire quelperiodo di tempo cercherà un lavoro, una casa e tutto il resto.
Lo Stato ponga legge semplici e chiare per gestire la selezione dei nuovi arrivati, e poi le faccia rispettare. Ma non spenda più soldi per un assistenzialismo che non aiuta gli stessi assistiti. Nemmeno ci si deve illudere che il flusso verso l’Europa si possa totalmente annullare, sebbene la crisi economica oggi abbia fatto sì che il numero degli italiani che se ne va è superiore a quello degli stranieri che vengono da noi.
È necessario comprendere che esistono già individui e realtà sociali che possono e vogliono farsi carico dei costi dell’accoglienza. In primo luogo, sono disposti a pagare – al punto che oggi finanziano la medesima criminalità che gestisce lo spostamento illegale di esseri umani – i migranti stessi, ma oltre a loro ci possono essere imprese pronte a dare opportunità a queste persone che vengono da lontano. È già così, se si considera il rapporto – in particolare – tra molte imprese agricole e i loro dipendenti pakistani o indiani, ma anche le famiglie che ospitano al proprio interno quelle donne che si prendono cura dei nostri anziani.
Per giunta, se qualcuno vuole aiutare per generosità o anche perché infatuato dal mito egualitarista può sempre farlo: non già chiedendo allo Stato di intervenire, ma sostenendo di tasca propria quegli enti filantropici, religiosi e no, che già oggi sono attivi nel sostegno agli immigrati.
Una società chiusa è una società morta. L’esigenza di aprirsi al dialogo, al commercio, alla globalizzazione e ai contributi più diversi implica anche la capacità di vedere nell’immigrazione una opportunità. Ma oggi l’assistenzialismo e la burocrazia hanno statizzato questo fenomeno, hanno creato talora perfino disparità di trattamenti, non di rado hanno dato argomenti a chi parla alla pancia di tanti solo sulla base di calcoli elettoralistici.
Dobbiamo invece aprirci al mondo sulla base di regole chiare e comportamenti responsabili, che tengano conto delle esigenze delle imprese e che non scarichino anche stavolta sui contribuenti oneri di solidarietà che non hanno alcuna valida giustificazione. Se la buona immigrazione è un gioco “a somma positiva” (che avvantaggia quanti vengono da noi e quanti, tra di noi, sanno valorizzare il lavoro e le intelligenze dei nuovi arrivati), non si capisce perché non possa alimentarsi da sé e abbia bisogno di poggiare su meccanismi redistributivi.
Su questi temi, nel corso degli ultimi trent’anni, sono stati commessi molti errori: dal momento che quasi ogni parte politica ha inseguito il consenso delle scelte demagogiche invece che orientarsi verso decisioni razionali, davvero in grado di favorire un migliore futuro per tutti. C’è bisogno che a destra e a sinistra si affermi insomma un linguaggio diverso e prenda corpo un modo più responsabile di trattare le questioni. Nel mondo dei voli low cost e delle imprese globali non si può più continuare a ragionare nei termini nazionalistici e statocentrici di questa vecchia destra e di