Occupy Landini, quel mito sbagliato che porta alla disfatta
Mario Lavia – Europa
A un certo momento persino a uno mediaticamente perfetto come Maurizio Landini può capitare di spararla grossa. E se nessuno ha riso davanti alla sua ultima ineffabile minaccia di occupare le fabbriche deve essere stato perché è come se tutti si fossero guardati negli occhi con aria interrogativa: ma che sta dicendo? E facendo ironie fin troppo facili: occupare quali fabbriche, che sono tutte chiuse? C’è da chiedersi, insomma: è veramente Maurizio Landini questo? Accidenti, un leader con la “l” maiuscola, si è confermato di talk in talk, il sindacalista con la t shirt sotto la camicia spiegazzata. Uno che rende l’idea di un capo che ha le masse e non qualche direttivo di categoria dietro di sé, uno tosto, realista, pragmatico, insomma emiliano-emiliano. E allora com’è che gli sfugge una fregnaccia del genere?
Diciamola tutta. Se finanche i giornali, sempre in affanno nel riempire la pagina, non hanno per nulla scavato sulla “minaccia” landiniana, se l’hanno sì riportata nei catenacci, ma senza che ci sia stato uno straccio di cronista che si sia lontanamente posto la domanda “come funzionerà questa mega-occupazione?”, vuol proprio dire che a ’sta storia non ci ha creduto nessuno. Ma come, occupare le fabbriche? Chi? Dove? Come? Voleva incutere paura, il capo della Fiom? Ora, non conoscendolo personalmente, non è semplice diagnosticare cosa sia scattato nella sua testa: sarà stato – nulla di male – un affiorare di ansie, di istinti ribellistici, di pulsioni giovanili. Ma no, forse è successo semplicemente che – a un certo momento – gli è salito in groppo alla gola il rigurgito di un passato più o meno eroico, nell’intreccio ideologico di Bienni rossi e Autunni caldi su su fino al Berlinguer con megafono in mano davanti alla porta 5 di Mirafiori – «se i sindacati decideranno l’occupazione noi metteremo al loro servizio l’esperienza e l’organizzazione del partito comunista…» – cioè «un’altra batosta», come diceva Nanni Moretti a proposito delle elezioni studentesche di non so più quando. Già, batoste. Batoste operaie. Come quella, mitica, la madre di tutte le batoste quando tra il primo e il 4 settembre del 1920 oltre 500mila operai metallurgici occuparono la gran parte delle fabbriche, in prevalenza metallurgiche, a Milano, Genova, Roma, Napoli, Palermo e in altre città. Fu l’acme del Biennio Rosso. Roba grossa, di valenza storica. Con tutto il rispetto, Matteo Renzi pare ancora confinato nella cronaca.
All’epoca lo scontro tra operai e padroni (ma sì, padroni) era durissimo, salari di fame, orari impossibili. Altro che demansionamenti e giuste cause. Si usciva dal primo dopoguerra coi vestiti laceri, e il morale ancora peggio. C’era il socialismo da costruire, mentre si aggiravano le prime squadracce. Si occupò l’occupabile: eppure finì male, molto male. Il sogno dell’autogoverno dei produttori si infranse, l’assalto al cielo dell’autogoverno dei proletari evaporò in un soffio strozzato, e si vide prestissimo che la cuoca non sapeva dirigere non dico lo stato ma nemmeno lo stabilimento. Ma come ogni disfatta, anche quella contribuì ad alimentare il mito dell’occupazione delle fabbriche, che, insieme a tanti altri più o meno nefasti, fu custodito nella memoria operaia per riemergere, ancora più ricoperto da uno spesso strato di ideologia, quasi mezzo secolo dopo, sul finire dei Sessanta: l’Autunno caldo, le commissioni interne, i grandi cortei, le assemblee. Un altro punto alto. Un altro acme. Ecco l’artiglio della classe operaia, diceva Lenin, peraltro nel ’69 artiglio vincente. Ma fu l’ultima volta.
Quando nel 1980 a Enrico Berlinguer, scappò di evocare l’ipotesi dell’occupazione della Fiat (Piero Fassino, che quel giorno era presente a Mirafiori, scrisse anni dopo che fu una specie di incidente non premeditato), di fatto suonò la campana a morte di quel vecchio movimento operaio. Dalla sconfitta alla Fiat uscì un’altra classe operaia. E per sempre. Il mito dell’occupazione ha resistito, ma fra gli studenti, a cui in ossequio all’età dell’innocenza tutto è permesso. Ma agli operai, vaglielo a dire, oggi, di occupare lo stabilimento, di fare i picchetti, di andare avanti tutto il giorno ingollando caffè corretto col Fernet, come usava un tempo a Mirafiori. Chi glielo spiega, all’operaio del 2014, quello che non ce la fa a pagare il mutuo, che è sradicato socialmente, culturalmente, esistenzialmente e magari anche in quanto a passaporto, che deve rinunciare a giorni e giorni di paga solo perché lo chiede il leader sindacale, foss’anche quello più popolare e intelligente?
E allora, caro Landini. Si può capire l’esigenza, come si dice in gergo, di far montare il clima per evitare che la san Giovanni del 25 ottobre stia al Circo Massimo di Cofferati come Moccia a Thomas Mann e però la storia è andata troppo avanti, altro che Autunno caldo: non siamo più a quei tempi là, come cantava Guccini, tutta la vicenda si è fatta ancora meno semplice, perché non c’è più “la semplicità” del socialismo (Brecht) da fare né il padrone (il padrone!) da buttar giù, è tutto molto più complicato, bisogna vedere, bisogna tenere, bisogna trattare, bisogna ideare, bisogna avanzare piano piano. Dunque, nessuno si occuperà mai delle tue occupazioni: al massimo ne domanderanno con un pochino di curiosità i nipoti agli operai che le fecero quarant’anni fa, quelli che quando se ne ricordano corrugano la fronte e subito si mettono a parlar d’altro.