La riforma monca
Giuseppe Turani – La Nazione
Incontro di Renzi con i sindacati (un’ora) e poi con la Confindustria per cercare di mandare in porto la contestatissima riforma del lavoro. Su un altro tavolo, riservato, proseguono intanto le trattative con la minoranza del Pd, molto contraria a dare deleghe in bianco al governo e schierata in difesa dell’articolo 18. Sarà la volta buona?
La sensazione è che il governo ai sindacati abbia più cose da chiedere che da dare: la riunione, quindi dal punto di vista della Cgil e degli altri suoi colleghi rischia di essere del tutto inutile, se non dannosa. Ma il governo potrebbe decidersi di fare qualche concessione proprio sull’articolo 18 in cambio del via libera al Tfr in busta paga. Stessa cosa, ma rovesciata con la Confindustria. Difficile immaginare l’esito delle due riunioni. E ancora di più della trattativa riservata con la minoranza Pd. Alla fine, comunque, è possibile, molto possibile, che Renzi riesca a procedere con il suo progetto di riforma del lavoro. E allora la domanda che tutti si pongono è: sarà una svolta? Servirà a creare qualche occupato in più? La risposta immediata che viene in mente è: nemmeno uno. E non è una cosa difficile da capire.
Fino a quando il sistema economico è in crisi, in recessione, come ora, si può anche stabilire che i lavoratori andranno in fabbrica o in ufficio gratis, ma nessuno li assumerà per la semplice ragione che non si saprebbe che cosa fargli fare. Dopo questa riforma, se non ci saranno cambiamenti sostanziali, il datore di lavoro avrà più libertà per disfarsi della manodopera non gradita. E questo è certamente un incentivo. Ma solo in periodi di forte crescita economica e quindi con la necessità di aumentare la produzione. In questo momento, invece, abbiamo un quarto del sistema industriale del Paese che, semplicemente, è come se non esistesse più: luci spente e fabbriche ferme. Qui è evidente che non esiste alcun problema nel rapporto con i dipendenti: sono tutti a casa. in cassa integrazione.
Nel resto del sistema produttivo c’è una situazione molto composita. Ci sono aziende che vanno molto bene (perché esportano molto) e aziende che vanno molto male (perché hanno quasi solo il mercato interno). È difficile immaginare che una riforma (per quanto ben fatta) del mercato del lavoro possa indurre le prime a esportare di più e le seconde a trovare un mercato che non c’è. Se si voleva ottenere le due cose appena dette, la strada maestra è stata indicata da tempo da tutti gli esperti: bisognava abbattere di 30-40 miliardi il peso fiscale che grava sul lavoro (portandolo così al livello di quello tedesco). Per fare questo, però, bisognava mettere in cantiere tagli di spesa pubblica almeno per analogo importo.
Ma la spesa pubblica sembra che sia un totem intoccabile. Tutti sanno che i nostri guai maggiori vengono dalle spese della pubblica amministrazione, ma alla resa dei conti nessuno riesce a toccarla. Ormai siamo al terzo governo di emergenza, tutti hanno promesso che avrebbero aggredito il moloch della spesa pubblica. Ma i risultati finora sono stati assai deludenti. Non potendo discutere di questo, che è il tema centrale della nostra precaria condizione, si discute d’altro, ad esempio del mercato del lavoro. La riforma in corso d’opera un giorno si rivelerà probabilmente utile e interessante, quando questo Paese sarà tornato a crescere. Ma nessuno sa dirci quando sarà quel giorno. Forse nel 2016, o nel 2017.