La sfida di Junker
Sergio Fabbrini – Il Sole 24 Ore
Non è di grande aiuto lo schema “destra-sinistra” per capire se la Commissione Junker promuoverà politiche per la crescita oppure confermerà le politiche per l’austerità fiscale. Certamente, su 28 membri della Commissione, gli esponenti socialisti sono meno del 30%, mentre la componente maggioritaria è quella dei cristiano-democratici, con una buona presenza di liberali. Nella visione tradizionale, si potrebbe dire che siamo di fronte ad una grande coalizione, con il suo baricentro spostato a destra. Eppure, lo schema destra-sinistra dice poco o nulla rispetto ai futuri orientamenti della Commissione.
Dopo tutto, anche nel Parlamento europeo, quando si è trattato di votare su questioni che toccavano gli interessi nazionali (come è stato il caso del voto sugli Eurobonds del 15 febbraio 2012), la distinzione tra destra e sinistra non ha retto e i parlamentari si sono allineati sulle posizioni dei rispettivi paesi. Piuttosto, la domanda da porsi è un’altra: è la Commissione Junker in grado di promuovere un punto di vista sovranazionale che bilanci la logica intergovernativa che è alla base delle politiche di austerità? Sulla base dei fatti, la mia risposta è negativa.
Le politiche dell’austerità sono l’esito di una visione della politica economica europea basata sulla centralità decisionale dei governi nazionali (all’interno del Consiglio europeo e dell’Euro Summit, così come all’interno dell’Ecofin e dell’Eurogruppo). Se le politiche economiche vengono decise dai governi nazionali, è evidente che i governi più forti, anche perché espressione dei paesi più grandi e più ricchi, sono destinati ad imporre la propria agenda, la propria visione e i propri interessi. La Germania non ha complottato per imporre la sua visione su come rispondere alla crisi dell’euro, ma sono state le sue dimensioni demografiche e le sue capacità economiche a trasformarla nel leader dell’Unione e dell’eurozona. Ma queste possono funzionare solamente se vi è un equilibrio tra gli stati che le compongono, equilibrio che richiede il riconoscimento dei loro diversi ma altrettanto legittimi interessi. Per tutta la crisi dell’euro, i legittimi interessi degli stati del sud, il cui modello politico-economico è sostanzialmente diverso da quello proprio degli stati del nord, non sono stati presi in considerazione all’interno delle istituzioni intergovernative. È legittimo auspicare, dunque, che sia la Commissione a introdurre un punto di vista sovranazionale nella logica intergovernativa che è divenuta predominante. Un punto di vista sovranazionale è né di destra né di sinistra, ma esprime (o dovrebbe esprimere) l’interesse dell’Unione e della Eurozona nel loro complesso. Questo interesse non coincide con la somma degli interessi nazionali, né tanto meno con gli interessi nazionali degli stati più forti, perché si sostanzia nel favorire la crescita dell’Unione o dell’Eurozona in quanto tali. Se così è, allora sarebbero necessarie politiche anti-cicliche a livello europeo così da equilibrare gli effetti pro-ciclici delle politiche domestiche di consolidamento fiscale. Potrà la Commissione Junker fermare la deriva intergovernativa?
In realtà la Commissione ha aumentato il suo tasso intergovernativo. Considerando l’incarico che avevano prima della nomina, tra gli attuali commissari vi sono 5 ex primi ministri, 1 ex vice-primo ministro e 12 tra ex ministri o vice-ministri. Ovvero 2/3 dei commissari sono (stati) esponenti dei governi nazionali. Certamente si tratta di una Commissione “politica”, perché composta di leader politici, ma non perché portatrice di un suo programma politico. Se poi si guarda la distribuzione dei portafogli, con ben 4 ex primi ministri nella vice-presidenza, e ai loro orientamenti di politica economica, allora i dubbi sulla capacità della Commissione di esprimere un punto di vista sovranazionale sono destinati a crescere. Come si potrebbe pensare diversamente, se il paese alfiere di un nuovo approccio alla politica economica (come la grande Francia del commissario Moscovici) dovrà farsi coordinare dai due vice-presidenti (come gli ex primi ministri Dombrovskis and Katainen delle piccole Lettonia e Finlandia) che sono stati i più convinti sostenitori delle politiche di consolidamento? Se poi si guarda all’insieme delle nomine europee di questi giorni, allora i segnali sono ancora di meno rassicuranti. Il Consiglio europeo ha eletto, come suo presidente ma anche come presidente dell’Euro Summit, il polacco Donald Tusk, cioè l’esponente di una paese che non fa neppure parte dell’Eurozona. La cosa fa piacere agli inglesi che, insieme ai paesi esterni all’eurozona, potranno condizionare le scelte di quest’ultima. Ma soprattutto la scelta di Tusk viene incontro agli interessi della Germania che potrà esercitare la sua influenza in quelle cruciali istituzioni intergovernative senza dover fare i conti con un presidente dotato di una sua autonoma autorevolezza.
Naturalmente in politica le cose possono cambiare. Così come è possibile che il presidente Juncker possa utilizzare i fondi della Bei per promuovere politiche di sviluppo che abbiano effetti keynesiani sull’Unione nel suo complesso. È anche probabile che le gerarchie interne alla Commissione possano saltare. Tuttavia, se Federica Mogherini, nella sua qualità di vice-presidente della Commissione e non solo di alto rappresentante per la politica estera, vuole promuovere un punto di vista sovranazionale, allora sarebbe auspicabile che non rimanesse prigioniera dello schema sinistra-destra. Non c’è un punto di vista “socialista” da promuovere, ma un interesse alla crescita da rappresentare con i commissari che sanno cosa ha prodotto l’austerità nei loro paesi.