alessandro pansa

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

La scorciatoia miope di spronare i consumi con i risparmi di domani

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Con il trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga e l’aumento delle imposte sui rendimenti dei fondi pensione e degli enti di previdenza, la legge di Stabilità privilegia i consumi a scapito dei risparmi. E poco importa se chi si anticipa la liquidazione paga più tasse diventando complessivamente più povero, o se in Europa tutti i Paesi tranne la Norvegia non tassano i redditi della previdenza. La crescita non c’è? Sproniamola con i soldi di domani. Al contrario, l’Italia ha bisogno di risparmi ed investimenti per gestire la profonda crisi in cui è precipitata e dalla quale uscirà con difficoltà, sacrifici e tempi lunghi. Le leggi per la crescita servono a poco e l’ottimismo degli annunci è controproducente. Anche perché il governo, per ora, di questa crisi non porta la responsabilità.

Il quadro è impressionante. I posti di lavoro disponibili nell’industria sono scesi, in dieci anni, di oltre il 15 per cento; la quota dei beni ad alto contenuto di conoscenza prodotti dalle imprese italiane si è ridotta di oltre il 30 per cento dal 2000; il divario (gap) tecnologico con i Paesi emergenti – cioè il tempo che occorre a questi ultimi per costruirsi una tecnologia simile alla nostra – è crollato da undici a sette anni dal 2004 ad oggi; la maggiore sensibilità (gli economisti direbbero elasticità) delle esportazioni ai prezzi si accompagna al ritiro dell’industria dai settori dove c’è più domanda di conoscenza e di occupazione qualificata; ci siamo mangiati, a partire dagli Anni 90, più del 30 per cento dello stock di capitale accumulato nei decenni passati: senza capitale non crescono produttività ed occupazione, qualsiasi siano le leggi. Se poi dovesse continuare l’uscita di capitali – 70 miliardi netti in due mesi – si indebolirebbe la struttura finanziaria.

Non è colpa del governo Renzi, né di quelli prima di lui. Dal 1989 abbiamo scelto di aderire progressivamente ad un sistema fondato su libertà di movimento dei capitali, cessione di sovranità monetaria e trasferimento di consistenti quote di potere ai mercati. Condivisibile. Di più: necessario, per l’Italia di allora. Ma, a differenza di altri Paesi europei – la Germania ha puntato sulla resilienza della manifattura, la Francia sull’alta tecnologia e la Gran Bretagna sul dominio della finanza – l’abbiamo fatto senza creare né valorizzare vantaggi competitivi, che pure c’erano. Venticinque anni dopo, ci interroghiamo sul costo della liquidazione dell’Ente partecipazioni e finanziamento industrie manifatturiere (Efim); ci domandiamo se abbiamo fatto bene a cancellare l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri); scontiamo privatizzazioni condotte senza modelli industriali definiti; rimpiangiamo di aver ostacolato la creazione di grandi imprese nei settori agroalimentare, elettronico, farmaceutico, delle infrastrutture di telecomunicazione.

Vogliamo continuare ad illuderci delle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia? O non sarebbe meglio raccontarci la verità? La verità è rivoluzionaria, diceva Gramsci; a chi vuole fare la rivoluzione converrebbe partire da lì. Gli 80 euro, il Tfr in busta paga, il bonus alle neo mamme sono misure che potranno, forse, soccorrere la congiuntura: ma l’assenza di un sistema produttivo in grado di trarne vantaggio le rende irrilevanti rispetto ad una crisi strutturale. Il sistema in cui siamo – per fortuna! – integrati, ci obbligherà ad affrontare un doloroso processo di ristrutturazione, qualcuno lo chiama svalutazione interna: compressione dei consumi, riduzione del valore degli asset, aumento del ritorno sugli investimenti e della produttività del lavoro. Più tardi accadrà, peggio sarà. Il nostro tenore di vita dovrà ridursi sino a quando il risparmio domestico e di capitali esteri faranno crescere gli investimenti, l’occupazione, i salari. Ed il Paese riguadagnerà competitività sui mercati e ruolo nel mondo. Non è roba da gufi, è la sola possibilità per dare una prospettiva alle prossime generazioni, cui non abbiamo il diritto di negare il futuro visto che il nostro ci è stato servito sul piatto d’argento del benessere e della sicurezza, e l’abbiamo in parte buttato via.

Ma il governo? Aiutare i cittadini a prendere coscienza della realtà e gestire questa «traversata nel deserto» come opportunità di rinascita nazionale costituirebbe un merito enorme. Lo potrà fare favorendo il risparmio di oggi e gli investimenti di domani, adeguando i sistemi di welfare, sostenendo lo sviluppo tecnologico ed incalzando gli imprenditori a rafforzare le loro aziende. I politici che hanno condiviso con i propri cittadini «lacrime e sangue» si sono guadagnati un posto nella storia. Chi non ha avuto il coraggio di farlo e ha scelto la politica del «bagnasciuga» è finito nel dimenticatoio della cronaca.

Quattro mosse per una politica industriale

Quattro mosse per una politica industriale

Alessandro Pansa – Corriere della Sera

Il tormentone d’agosto su stime di crescita infinitesime – + 0,10 -0,1 per cento di Prodotto interno lordo? – , in un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del reddito nazionale, può andare bene per un tweet, ma non è una cosa seria. A meno che non si voglia ragionare di politica industriale. Ma parlare di industria in Italia è al tempo stesso una necessità e un paradosso. Una necessità, perché la nostra economia trova ancora nella manifattura la sua principale ragion d’essere, non essendo stata in grado di competere sui piani della finanza e dei servizi a elevato valore aggiunto. Un paradosso, perché continuiamo ad inseguire un campionato già perso, invece di prepararci a una competizione completamente nuova. 

La politica industriale è il frutto della collaborazione tra istituzioni e grandi imprese capaci di influenzare standard di produzione e concorrenza internazionale. È sempre stato così. La storia dell’industria ha proceduto per paradigmi tecnologici: la macchina a vapore, il motore a scoppio, l’elettricità, la petrolchimica. E l’Italia, sia pure con qualche affanno, questi paradigmi li ha agganciati tutti. Nel solo 1918 vennero prodotti 6.523 aerei e 14.820 motori; negli Anni 60 l’Olivetti sviluppò e costruì nel Canavese i grandi calcolatori elettronici, i mainframe. L’invenzione del polipropilene – con il premio Nobel a Giulio Natta – fu il prodotto del lavoro della Montecatini. Sarebbe un lungo elenco. 

Cos’è successo da allora? Semplice: il paradigma tecnologico è cambiato – si è affermato quello della microelettronica e delle telecomunicazioni – , ma il nostro sistema industriale non è stato in grado di catturarlo. Al di là di altre spiegazioni, molte certamente corrette, originano da qui il ritardo e il declino strutturali della manifattura italiana. Ed ecco il paradosso: il ritardo non è, di fatto, colmabile. La politica industriale non può più dare molto in questo senso e non è nemmeno detto che sia sensato sprecare risorse per provarci. La corsa della tecnologia è troppo veloce per chi non si è mosso dall’inizio, e le grandi imprese italiane che (forse) potrebbero ancora farcela sono ormai troppo poche e isolate a livello internazionale. Il tempo è andato, gli asset adeguati pure.

Tutto perduto dunque? Niente affatto. Ma ci vuole il coraggio di fare quattro cose. Non sono molte, ma vanno fatte bene, con convinzione e continuità. La prima. Identificare quali settori potranno contribuire allo sviluppo del Paese (non crescita, ma sviluppo: che è molto di più!) e sostenerli, anche finanziariamente, nei loro processi di modernizzazione ed internazionalizzazione. Serve riconoscere che non tutte le industrie sono meritevoli di essere supportate alla stessa maniera, specie quando le risorse pubbliche sono scarse. Sarà la concorrenza a decidere la loro sorte. La seconda: definire il livello desiderato di competizione per i settori ritenuti cruciali, non lasciando in questi casi tutto il potere al mercato. Perché non sempre più concorrenza significa maggiore competitività e quindi efficienza: specialmente in industrie ad alta intensità di capitale dove contano la dimensione globale e il presidio della domanda interna. La terza: puntare sul paradigma tecnologico di domani, non su quello che domina l’oggi, investendo – e facendo investire le imprese – massicciamente negli enti che sviluppano adesso la tecnologia che sarà industria domani. Ce ne sono tanti e di valore in italia: l’Istituto italiano di tecnologia, i Politecnici, la Normale di Pisa… La quarta: spingere realmente le imprese medie a integrarsi tra loro e a capitalizzarsi, utilizzando le leve fiscali disponibili (c’è l’imbarazzo della scelta!) tanto importante e strutturale è l’obiettivo. Solo con dimensioni accresciute e un solido patrimonio tecnologico le imprese italiane riusciranno a diventare «strumenti attivi» di politica industriale, con obiettivi ambiziosi e raggiungibili.

Bisogna, infine, avere il coraggio di costruire una politica industriale nazionale. Non possiamo attenderci nulla dall’Europa, la struttura delle cui imprese viene organizzata dai «grandi gruppi dei vari Paesi spalleggiati vigorosamente dai propri governi», come metteva in guardia Marcello De Cecco già nel 1988… Loro lo hanno fatto e continuano a farlo ogni giorno. Noi no. Non nascondiamoci in modo ipocrita dietro il concetto – pericolosissimo per l’Italia – della politica industriale europea. Difendiamo ciò che abbiamo, d’accordo, ma smettiamo di inseguire i decimali e prepariamo il futuro: se investiremo su uno sviluppo di medio periodo solido e sostenibile pagheremo il debito con i nostri nonni e i nostri nipoti ci ringrazieranno.