carlo lottieri

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Carlo Lottieri

Il dibattito di questi giorni suscitato dai recenti scandali legati alla gestione delle grandi opere si sono quasi interamente focalizzati sul coinvolgimento più o meno diretto di questo o quel politico, e al massimo hanno indotto taluni a interrogarsi sul tema (ben più vasto) del rapporto tra vita pubblica, imprese e corruzione.
Pochi hanno però focalizzato la loro attenzione sulla questione delle infrastrutture stesse e sul fatto, in particolare, che in Italia continua a dominare l’idea che trafori, ponti, linee ferroviarie e altre cruciali iniziative dette “di interesse generale” debbano essere progettati, costruiti e poi gestiti dallo Stato. Per contro, quanti si oppongono a questa prospettiva interventista quasi sempre sono animati da un furore ideologico di taglio ambientalista che guarda con ostilità ogni innovazione.
In questo senso, la battaglia scatenata in questi anni contro la Tav è la riprova che molte grandi opere di Staro sono bloccate solo in ragione del prevalere di un ecologismo pregiudizialmente avverso alla modernità e alle esigenze dell’economia. E non si tratta certo di un contrasto tra destra e sinistra, dato che la demagogia ecologista ha contagiato esponenti di ogni schieramento.
C’è però anche dell’altro. In fondo, le tensioni riguardanti le grandi opere sono pure la conseguenza di logiche tecnocratiche che fatalmente creano legittime resistenze. Una realizzazione destinata ad avvantaggiare un gran numero di persone dovrebbe anche destinare ingenti risorse a quanti possono essere danneggiati da quell’opera. Non è accettabile che, come avvenne nel caso dell’aeroporto di Malpensa, si arrechino danni patrimoniali tanto rilevanti senza aver avviato una trattativa con i proprietari di case e terreni, che a seguito della realizzazione dello hub in provincia di Varese hanno visto dimezzato il valore delle loro abitazioni.
La logica delle grandi opere, allora, deve cambiare non solo perché fino a ora le infrastrutture maggiori sono state essenzialmente grandi occasioni di corruzione e spreco. Oltre a ciò, è importante che questo ambito sia consegnato ai privati e al diritto. Bisogna insomma che da decisioni assunte unilateralmente si passi a negoziazioni tra privati che rispettino i diritti e le ragioni altrui. Anche per questo è indispensabile che le opere di grande interesse – si tratti di strade, impianti energetici, ponti o metropolitane – siano realizzate da imprese, e non direttamente dallo Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a lanciarsi in imprese economicamente irrazionali, senza tenere in considerazione i diritti delle persone interessate. Tutto questo ovviamente esige non soltanto che si metta da parte il pregiudizio secondo il quale solo lo Stato può realizzare opere di particolare rilievo, ma al tempo stesso è importante che si difendano due diritti: la libertà di iniziativa degli imprenditori, che non possono essere bloccati da una troppo fitta rete di regole e burocrazie, e il diritto di proprietà di quanti possono essere penalizzati da questa o quella costruzione di particolare impatto.
La nostra società ha bisogno di essere all’altezza dei tempi e rinnovarsi di continuo, ma è necessario che siano fissate regole a tutela di tutti e che quanti si lanciano in imprese colossali facciano tutto ciò con i loro soldi e, al tempo stesso, senza subire veti infondati o subire ricatti di vario genere.
Oggi parlare di grandi opere significa evocare corruzione, da un lato, e costi davvero alti per i contribuenti, dall’altro. Significa evocare logiche dirigiste e scelte top-down che suscitano tensioni e ledono diritti. È il momento di voltare pagina.
La (non) riforma della Rai targata Renzi

La (non) riforma della Rai targata Renzi

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di ingenuo, ipocrita e – sotto certi aspetti – anche di ridicolo nel riformismo renziano in tema di televisioni. Come ha annunciato la rivoluzione nel campo della televisione pubblica l’attuale premier? La retorica è simil-grillina, perché in definitiva il messaggio che si vuole far passare è che, finalmente, i partiti saranno messi alla porta. Non quindi la lottizzazione “hard” di alcuni decenni fa (con Rai Uno alla Dc, Rai Due al Psi e Rai Tre al Pci) e neppure quella più “soft” dei tempi recenti, caratterizzati da un intreccio più complesso di ruoli e poteri. Tutto questo sarebbe accantonato per veder nascere una nuova Rai con solo sette consiglieri di amministrazione invece che nove, uno dei quali eletti addirittura dai dipendenti.
Una rivoluzione? Macché. Se guardiamo nel dettaglio il governo si riserva la scelta di tre consiglieri e altri tre sono eletti dalle Camere in seduta comune. Il risultato è che governo e maggioranza sono più che sicuri di poter controllare la Rai (esattamente come adesso), lasciando uno spazio pure alla minoranza. Il che non guasta mai. Per giunta si è strutturata la riforma immaginando un peso rilevante – da leader assoluto e vera mente di tutta l’azienda – per un amministratore delegato dotato di ampi poteri in ogni direzione: programmi, scelta degli uomini, gestione del bilancio.
Renzi sa che se, grazie al (facile) controllo della maggioranza del Cda, egli riesce a mettere un uomo di sua assoluta fiducia alla testa della Rai questi gli può assicurare una linea editoriale, e non solo, del tutto schierata dalla sua parte. Il resto è aria fritta. Infatti il progetto parla di una Rai Uno generalista, di una Rai Due dedicata all’innovazione (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e di Rai Tre una culturale. Ma il cuore della questione è che la politica non si ritrae affatto e anzi, sotto certi punti di vista, il governo rafforza il proprio controllo sul colosso televisivo pubblico. Un controllo importante per il numero dei dipendenti e per il ruolo propagandistico che la Rai ha sempre svolto e continuerà a svolgere a favore di questo o quello.
Una vera riforma, ovviamente, consisterebbe nel vendere la Rai e nell’aprire a chiunque, italiano o no, il mercato delle televisioni. Ovviamente tutto ciò l’attuale governo non vuole farlo per una serie di ragioni che illustrano assai bene i limiti del preteso “riformismo” renziano.
In primo luogo, l’ex-sindaco della città di Machiavelli non intende assolutamente ridurre la presa sulle risorse (anche umane) e sulla potenza di fuoco della televisione di Stato. Renzi è un politico a tutto tondo, che negli anni passati a Firenze – inizialmente alla guida della Provincia e poi alla testa dei Comune – ha imparato assai bene a gestire il nesso tra risorse finanziarie, voti e controllo sociale. Il suo realismo gli impedisce di essere davvero un riformatore, perché per farlo dovrebbe rinunciare a una parte rilevante dell’artiglieria di cui dispone.
In secondo luogo, manca la minima consapevolezza culturale di cosa voglia dire indirizzarsi verso una società libera. I toni liberali che talvolta possono affiorare nella retorica del premier sono funzionali a obiettivi politici di piccolo cabotaggio – come nel caso delle polemiche con la Cgil – oppure a costruire una retorica in grado di attrarre gli elettori moderati. Ma nulla è più lontano dalla sua cultura che l’idea di un’informazione davvero aperta, senza interferenze statali, senza una programmazione e senza regolazione di Stato.
La riforma della Rai immaginata da Renzi è insomma all’insegna del gattopardismo. E in questo modo stiamo sprecando un’altra opportunità.
Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale

Dopo l’eclisse dei verdi, l’ecologia deve rinascere liberale

Carlo Lottieri

Se per alcuni anni sono sembrati rappresentare anche in Italia una novità di successo e un movimento con il veto in poppa, da tempo gli ecologisti sono in crisi di prospettive e visibilità. In sostanza, quel che resta del movimento verde fa ormai da stampella alla sinistra di Niki Vendola, ma in una posizione sostanzialmente subordinata.
L’eclisse dei verdi come partito, però, non sembra essere accompagnata da un accantonamento della loro ideologia, che anzi è stata abbracciata un po’ da tutti: a destra come a sinistra. Il guaio è che lo statalismo ecologista non rappresenta una risposta adeguata dinanzi alle difficoltà su cui richiama l’attenzione e anzi, in molti casi – anche al di là delle intenzioni – esso finisce perfino per aggravare i problemi.
Si tratta allora di immaginare un altro ambientalismo; ed è interessante rilevare come nel corso degli ultimi quindici anni l’editoria italiana abbia iniziato a dare spazio a quell’ecologia di mercato che affronta quei temi senza sacrificare la libertà individuale e il progresso economico sull’altare di una presunta sacralità della natura.
La prima cosa che uscì fu una piccola antologia, curata da Guglielmo Piombini e dal sottoscritto (Privatizziamo il chiaro di luna!, pubblicata nel 2001 da Leonardo Facco Editore), ma in seguito questa biblioteca controcorrente si è allargata sempre più. Un volume di straordinario interesse che da alcuni anni è pure disponibile in italiano è quello scritto dagli americani Terry L. Anderson e Donald R. Leal: L’ecologia di mercato. Una via liberale alla tutela dell’ambiente (edito nel 2008 da Lindau). Impegnati nell’applicazione di soluzioni innovative ai problemi ambientali, gli autori si focalizzano sulla necessità di definire e proteggere titoli di proprietà commerciabili. La tesi di Anderson e Leal è che se l’ambiente è di tutti (e quindi di nessuno), mancheranno gli incentivi a prendersene cura. I due studiosi non si limitano allora a mostrare i fallimenti dell’ecologismo, ma al tempo stesso sottolineano l’esigenza di responsabilizzare sempre più i comportamenti dei singoli, usando la proprietà per proteggere la natura stessa. La ricerca illustra molti casi concreti all’interno dei quali si è adottata una logica imprenditoriale ed è proprio dall’esame di queste esperienze che l’ecologia di mercato si rivela uno strumento fondamentale.
Per un lungo periodo, però, anni, la letteratura liberale sull’ambiente si è mossa soprattutto sulla difensiva: cercando di limitare le  conseguenze più nefaste di una propaganda basata su nozioni equivoche come “sviluppo sostenibile”, “diritti delle generazioni future” e “principio di precauzione”. Lo stesso volume del danese Bjørn Lomborg (L’ambientalista scettico, pubblicato da Mondadori nel 2010) ha rappresentato più una dura requisitoria verso ogni allarmismo ingiustificato che non una proposta alternativa.
Lo studio di Anderson e Leal ci dice invece che oggi è possibile essere propositivi anche in questioni che fino a poco fa erano veri e propri tabù. La situazione sta insomma iniziando a mutare, a riprova che si più imbrogliare molta gente per un breve periodo di tempo, e anche un piccolo gruppo di persone per molto tempo, ma è difficile che una serie di sciocchezze vengano accettate da un gran numero di persone e per molti anni.
In questo senso va segnalato anche il volume di Henry I. Miller e Gregory Conko, Il cibo di Frankenstein. La rivoluzione biotecnologica tra politica e protesta (edito sempre da Lindau e pubblicato nel 2008), in cui i due studiosi dissolvono i pregiudizi che ostacolano l’utilizzo delle biotecnologie in ambito agricolo, impedendoci di trarre beneficio dall’innovazione. Gli autori mostrano quale intreccio di interessi sia schierato a difesa di una demonizzazione (specialmente europea) che frena la ricerca, mantiene alti i prezzi e obbliga a utilizzare ampie estensioni. Quest’ultimo punto è interessante perché rileva come in questo caso – come già nella vicenda della mucca pazza, del bioetanolo, del Ddt e in altri casi simili – siano state proprio le tesi ecologiste a causare problemi rilevanti alla salute e allo stesso rapporto tra uomo e natura.
Anche sulle questioni energetiche sono ormai le prospettive liberali a rivelarsi meglio in grado di affrontare il futuro. Evidenziando che non saranno il solare o l’eolico a risolvere i nostri problemi, un esperto di questioni energetiche quale Carlo Stagnaro – direttore del dipartimento Energia e ambiente dell’Istituto Bruno Leoni – nel 2005 aveva curato un volume (Più energia per tutti. Perché la concorrenza funziona, edito da Leonardo Facco) nel quale aveva mostrato come più competizione in tale settore significhi una maggiore efficienza per l’economia nel suo insieme: e come per questo sia necessario non già moltiplicare i vincoli, ma invece rimuovere le barriere all’ingresso, alleggerire la regolamentazione, evitare una tassazione discriminatoria delle fonti.
Qualche anno dopo Stagnaro – che da qualche mese è consulente del ministro Guidi – è tornato su tale problema con una corposa ricerca, nella quale ha coinvolto un gran numero di esperti. Intitolato Sicurezza energetica. Petrolio e gas tra mercato, ambiente e geopolitica (edito da Rubbettino) lo studio ha analizzato i problemi dell’energia attraverso tre principali fattori: le politiche economiche, le politiche ambientali e la politica internazionale. Ne è derivata una proposta che è un mix di fiducia nella razionalità umana, difesa del mercato, riduzione dei conflitti internazionali (grazie a relazioni politiche improntate alla negoziazione e agli scambi).
“Pace e commercio” era la divisa dei liberali fin nell’Amsterdam secentesca, ma può essere uno slogan efficace ancora oggi per affrontare con realismo questioni su cui gli ecologisti verde-rossi hanno davvero ben poco da dire.
Realismo politico e teoria liberale

Realismo politico e teoria liberale

Carlo Lottieri

Esiste un legame molto stretto tra liberalismo e realismo politico. Gli autori liberali si sono sempre sforzati di guardare l’universo sociale e politico evitando di confondere i desideri e la realtà: Questo talvolta può avere spinto verso il pessimismo, ma certamente ha tenuto questa tradizione assai lontana da illusioni infondate.
Larga parte degli studi della Public Choice School, ad esempio, mostra che i comportamenti “interessati” e opportunistici di politici, imprenditori, sindacalisti e funzionari pubblici finiscono per convergere in una somma di piccole o meno piccole “cospirazioni”, le quali favoriscono una dilatazione del potere pubblico. I contadini difendono i sussidi europei, gli insegnanti il posto fisso, i farmacisti il sistema delle licenze, e il risultato è che l’insieme di questi egoismi danneggia tutti e ostacola la crescita della società.
Tutto questo fu analizzato con grande acume da Vilfredo Pareto, che mostrò – anche sulla scorta degli insegnamenti di Frédéric Bastiat – come in ogni iniziativa pubblica i benefici tendano a essere immediati (mentre i costi sono posticipati), visibili (mentre i costi sono invisibili) e concentrati (mentre i costi sono dispersi). In tal modo è facile prevedere che ogni progetto statalista avrà un’ampia probabilità di avere successo, vincendo l’opposizione di quanti, invece, vogliono in ogni modo contenere l’espansione del potere.
Tale realismo, a ogni modo, non deve toglierci la speranza. Una simile espansione dei poteri pubblici, in effetti, non può procedere in maniera illimitata, dato che le conseguenze sono sempre catastrofiche. Un ordine sociale basato sulla pianificazione, sulla redistribuzione, sull’ingegneria sociale e sulla redistribuzione egualitaria non è destinato a durare in maniera indefinita. Il suo esito naturale è l’estinzione: come è successo all’impero romano nella sua fase finale e come sta succedendo all’Europa contemporanea.
Questo significa che una società può essere facilmente condotta verso una crescente statizzazione da una serie di convergenze di interessi (e non solo da ciò, poiché l’imporsi di talune ideologie gioca la sua parte), ma alla fine è costretta a pagarne il prezzo. Anche il più resistente dei muri di Berlino alla fine crolla.
Questo succede per un motivo assai semplice. Una società basata sulla proprietà privata, sulla tolleranza, sul rispetto della libertà contrattuale e sul diritto di associazione è semplicemente in sintonia con la natura umana. E ogni sistema sociale che invece si oppone alle logiche di fondo della libertà costruisce un tale intrico di problemi che, in tempi anche relativamente rapidi, porta alla distruzione quell’ordine sociale.
Tutto ciò risulta assai chiaramente quando si considera, ad esempio, uno degli effetti principali dell’intervento pubblico: il parassitismo organizzato. Mentre in una società liberale ognuno trae di che vivere dai beni e dai servizi che mette a disposizione del prossimo, in una società statizzata è anche possibile avere redditi che superino il milione di euro accumulando incarichi alla guida di enti pubblici: com’è successo, appunto, in Italia.
In questo senso la strategia parassitaria è una strategia – sul piano individuale – assai vincente. Ma che succede al corpo sociale in tale situazione? Fatalmente esso declina. In natura come in società, il moltiplicarsi dei parassiti porta alla morte il soggetto parassitato: l’albero perde le foglie e i produttori smettono di lavorare. Quando ci si ribella alla natura e alle sue regole elementari, prima o poi il conto si paga ed è salato.
Questo deve indulgere a un qualche ottimismo. Può darsi che la ragionevolezza si manifesti solo quando tutto sarà distrutto e lo statalismo avrà trasformato l’Europa in una specie di deserto sociale ed economico. Oppure è possibile che – anche sulla scorta di qualche eccezione virtuosa – ci si renda conto che è bene tornare alle sane leggi del mercato. Una cosa però è chiara: la libertà può essere calpestata, ma non senza che questo produca conseguenze molto negative.
Per tale ragione chi crede nella responsabilità individuale, nella proprietà privata e nel contratto deve nutrire una qualche fiducia nel fatto che, prima o poi, questi valori saranno riconosciuti anche da quanti oggi li disprezzano. Prima o poi, il futuro sarà liberale. C’è un limite oltre il quale non si può andare: e questo perché lo statalismo finisce per dissolvere la società stessa e obbliga, quindi, a prendere atto delle leggi fondamentali che regolano l’interazione sociale.
Certo sarebbe auspicabile che si riuscisse a prendere consapevolezza di questo prima di avere toccato il fondo. Diversamente i costi per tornare a vivere in condizioni civili potrebbero essere anche molto elevati.
Caccia aperta al contribuente

Caccia aperta al contribuente

Carlo Lottieri – L’Intraprendente

Non può sorprendere più di tanto il dover constatare che, entro una classifica realizzata individuando una decina di Paesi rappresentativi delle varie aeree d’Europa, l’Italia finisca all’ultimo posto per lo scarso rispetto che riserva ai propri contribuenti. Grazie al contributo di ricercatori universitari di dieci diverse realtà (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi “ImpresaLavoro” ha esaminato il sistema fiscale in Europa e la conclusione a cui è giunto è che in un continente oppresso dalle imposte l’Italia si trova proprio in fondo alla classifica. La ricerca condotta dall’istituto friulano ha infatti individuato quattro fattori, diversamente pesati, e sulla base di questi (la pressione complessiva, l’ITR in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità delle procedure per l’adempimento degli obblighi tributari; la localizzazione e la responsabilizzazione del prelievo) ha stilato una graduatoria che pone la Svizzera al primo posto e l’Italia all’ultimo, un po’ peggio della stessa Francia.

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INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE 2015

INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE 2015

ABSTRACT

La ricerca promossa da ImpresaLavoro, avvalsasi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, si è proposta di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente sia difficilmente comprensibile senza una riflessione su questo tema di primaria importanza. Da qui l’idea di elaborare un Indice della libertà fiscale, che aiuti a comprendere la drammaticità della situazione e la necessità di vere riforme che riducano la presenza dello Stato nella vita produttiva e allarghino gli spazi di libertà.

INDICE

Dalla parte dei produttori Massimo Blasoni
Le tasse che distruggono l’economia europea Simone Bressan e Carlo Lottieri
Indice della libertà fiscale

TASSAZIONE E LIBERTÀ IN DIECI ECONOMIE D’EUROPA

BULGARIA a cura di Petar Ganev (BULGARIA_ENG; BULGARIA_ITA)
FRANCIA a cura di Pierre Garello (FRANCE_ENG; FRANCIA_ITA)
GERMANIA a cura di Alexander Fink (GERMANY_ENG; GERMANIA_ITA)
ITALIA a cura di Pietro Monsurrò (ITALY_ENG; ITALIA_ITA)
LITUANIA a cura di Kaetana Leontjeva (LITHUANIA_ENG; LITUANIA_ITA)
REPUBBLICA CECA a cura di Pavol Minárik (CZECH REPUBLIC_ENG; REPUBBLICA CECA_ITA)
ROMANIA a cura di Radu Nechita (ROMANIA_ENG; ROMANIA_ITA)
SVEZIA a cura di Dan Johansson, Arvid Malm e Mikael Stenkula (SWEDEN_ENG; SVEZIA_ITA)
SVIZZERA a cura di Pierre Bessard (SWITZERLAND_ENG; SVIZZERA_ITA)
REGNO UNITO a cura di Alex Wild (UNITED KINGDOM_ENG; REGNO UNITO_ITA)

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L’Intraprendente
Italia inferno fiscale

Italia inferno fiscale

Carlo Lottieri – Il Giornale

Che l’Italia non fosse un paradiso fiscale era chiaro a tutti da tempo. Ora, una ricerca del centro studi ImpresaLavoro (un think tank di recente costituzione presieduto da Massimo Blasoni) giunge addirittura alla conclusione che il nostro Paese sarebbe la maglia nera in Europa: un autentico inferno fiscale che disincentiva a risparmiare, lavorare, investire.

Frutto dell’elaborazione di indagini appositamente condotte da studiosi (o gruppi di studiosi) di dieci Paesi, la ricerca ha esaminato il sistema tributario del Vecchio continente valutando quattro distinti parametri: la tassazione complessiva; la struttura dell’imposizione così come è descritta dall’Itr in rapporto al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la complessità amministrativa delle procedure burocratiche necessarie agli adempimenti tributari; il livello di decentramento e concorrenza tra i governi locali. Il risultato è inequivocabile e colloca al primo posto la Svizzera e, in fondo alla classifica, oltre a noi, anche i cugini francesi.

Nel «pesare» i diversi elementi che definiscono l’indice finale, un rilievo inferiore è stato attribuito alla concorrenza tra ordinamenti fiscali, dal momento che si tratta di un dato che condiziona l’imposizione (dove c’è più competizione territoriale, il prelievo tende a essere minore) e non già di un elemento che descrive l’imposizione stessa. Ma è fuori di dubbio che mettere in concorrenza le amministrazioni locali, come avviene in Svizzera, aiuta a contenere il prelievo. Lasciando da parte il caso elvetico, davvero assai peculiare e comunque esterno all’Unione, lo studio evidenzia come situazioni in qualche misura avvantaggiate siano quelle dei Paesi ex-comunisti: Lituania e Repubblica Ceca, ma perfino Bulgaria e Romania. In vari casi lì si è avuto il coraggio di operare scelte radicali che non disincentivassero le attività economiche (la flat tax , ad esempio) e favorissero una semplificazione del prelievo. Ora i risultati si vedono.

Dallo studio esce anche ridimensionato il luogo comune che tradizionalmente identificava l’Europa settentrionale con i regimi più rapaci. Le vecchie socialdemocrazie scandinave, infatti, hanno ancora un prelievo fiscale elevato, ma hanno saputo fare qualche passo nella giusta direzione. Così la Svezia di oggi è un po’ diversa da quella che obbligava registi e tennisti ad andarsene a Montecarlo e, anche se resta nel gruppo dei Paesi ad alta tassazione, per certi aspetti la sua esperienza può addirittura insegnare come si possa riformare nella giusta direzione una società altamente statizzata. Al di là di questo o quel caso specifico, nell’insieme lo studio mostra come l’Europa intera sia in una grave crisi proprio perché la quota di risorse prelevate dall’apparato pubblico ha raggiunto livelli troppo elevati. In questo senso, l’Italia è all’avanguardia di un processo che, però, sembra davvero risparmiare ben pochi.

Oltre a ciò, lo studio mostra come la crescita dell’Unione (accompagnata per giunta da un processo di espansione verso Est) abbia finito per creare nuovi meccanismi di estrazione e redistribuzione delle risorse. Il lavoro di Petar Ganev evidenzia che oggi il bilancio pubblico di un Paese come la Bulgaria si regga in parte su risorse provenienti da fuori e indirizzate lì da Bruxelles. In altri termini, alla redistribuzione interna si è progressivamente sovrapposta una redistribuzione di marca continentale.

L’esame delle economie europee sembra pure suggerire una solida correlazione tra oneri burocratici ed entità del prelievo. I Paesi a più alta tassazione sono anche quelli in cui la regolazione è particolarmente minuziosa e pervasiva, mentre – ed è comprensibile – le società più liberali tassano meno e regolano meno. Questo però induce a pensare che una larga parte del sistema burocratico (i famosi «lacci e lacciuoli» di cui parlava Guido Carli) sia impossibile da eliminare senza un ridimensionamento di imposte e spesa pubblica. In tal senso, sebbene sia interamente focalizzata sul lato delle entrate, l’indagine del centro studi di Udine aiuta a comprendere come la volontà degli europei di non riformare i propri sistemi di Welfare (costosi e pesanti, oltre che molto inefficienti) ne metta a rischio il futuro. O l’Europa lo comprende alla svelta, o continuerà a declinare.

La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di incomprensibile, assurdo, davvero irrazionale, in questa crescente tensione che oppone Atene e Bruxelles, il governo greco e il resto dell’Unione europea. In sostanza, da anni la Grecia è vittima di politiche socialiste – per iniziativa della destra e della sinistra, senza rilevanti differenza tra l’una e l’altra – che hanno moltiplicato il parassitismo, i privilegi, gli sprechi. Sotto certi punti di vista, quel Paese è una sorta di Sud privo di un Nord, o meglio un Mezzogiorno che ha preteso di assegnare all’Europa il ruolo di ”ufficiale pagatore”. Per decenni la situazione ha in qualche modo retto, ma ora i nodi sono venuti al pettine.

La Grecia si ritrova quindi con una pletora di dipendenti pubblici e con una spesa fuori controllo, mentre il settore privato è davvero troppo debole e quasi impossibilitato a crescere. Per giunta, i greci hanno abbandonato la dracma per l’euro e hanno quindi accettato – almeno in linea teorica – di adottare comportamenti virtuosi a tutela della moneta comune.

Di fronte al disastro dell’economia greca, l’Europa ha reagito nel peggiore dei modi: dando soldi e imponendo una sorta di commissariamento”. L’arrivo ad Atene della troika ha favorito il successo, alle ultime elezioni, dell’estrema sinistra di Syriza, che ora vorrebbe continuare a incassare gli aiuti europei senza però adottare alcuna misura di austerità. Anzi, il programma elettorale che ha permesso a Tsipras di vincere è proprio agli antipodi di ogni politica che punti a ridurre le spese, smantellare il welfare, creare spazi per la concorrenza e il mercato. L’euro è molto di più di una moneta unica: purtroppo essa è stata concepita come un passaggio cruciale verso quella creazione di un’Europa unita che le élite del continente considerano necessaria e inevitabile. Questo è uno dei motivi per cui è tanto difficile proporre quello che invece dovrebbe essere obbligatorio fare: l’espulsione della Grecia dall’eurozona.

I greci hanno diritto di sbagliare. Hanno votato un demagogo e ora è opportuno che ne paghino le conseguenze. Non è pensabile che la burocrazia di Bruxelles o il governo tedesco possano dettare un programma alternativo a quello uscito dalle urne. È bene che non siano aiutati finanziariamente, tornino alla dracma, scontino le conseguenze del loro sganciamento dall’Europa (alti tassi sul debito), ma che abbiano la possibilità di sperimentare l’efficacia – se mai esiste – dei loro sogni anticapitalisti.

La libertà non si impone: né con l’esercito, né con il commissariamento dei regimi politici. È facile immaginare che una Grecia fuori dall’euro si troverà in pessime acque, non tanto perché l’euro sia chissà che cosa, ma perché senza vincoli esterni e senza la garanzia dei capitali altrui la Grecia è destinata a trovarsi in una condizione assai complicata. Non ci sono però alternative e certo non si creda che i postmarxisti di Syriza possano essere manipolati e fatti ragionare. La Grecia avrà problemi quando sarà fuori dall’euro, ma ne avrà perfino di peggiori se continuerà a essere sovvenzionata e resterà sotto una sorta di tutela straniera. Togliamo ogni alibi agli sfascisti al governo di Atene e lasciamo che quel popolo paghi le conseguenze dei propri errori di decenni.

Una Grecia che rimanga in tal modo all’interno della zona euro, per giunta, sarebbe un pessimo segnale per tutti: per la Spagna, la Francia e soprattutto l’Italia. Bisogna che tutti capiscano, e alla svelta, che non vi sono tedeschi o danesi disposti a pagare i buchi altrui. Il messaggio deve arrivare subito e in maniera molto chiara: ad Atene come altrove.

I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

Carlo Lottieri

Da qualche anno domina una retorica che pretende di alterare il normale operare delle imprese in nome della morale e di valori più elevati. Per molti, in effetti, le imprese dovrebbero abbandonare la logica del profitto e dirigersi verso altri e maggiormente nobili obiettivi: la protezione della natura, la solidarietà, la riduzione delle diseguglianze tra Nord e Sud del mondo, e via dicendo. È questo ad esempio il tema della cosiddetta “banca etica”, che investe adottando criteri morali ben precisi e, di conseguenza, rigettando tutta una serie di settori. C’è però da chiedersi se sia davvero tutto oro quello che luccica, dato che questa “corporate social responsibility” può condurre in varie direzioni e può essere letta entro prospettive assai differenti.
Non c’è dubbio che per molte aziende la melassa buonista a base di richiami all’etica è solo parte di una ben precisa strategia di marketing. Il politicamente corretto serve essenzialmente a costruire nicchie di mercato che sfruttano la pubblicità costantemente garantita dai gruppi militanti di carattere umanitario, ambientalista, solidale, legalista e via dicendo. Qui si assiste a un abile utilizzo di alcune parole associate all’etica, anche se in senso assai strumentale. A questo riguardo il caso più classico è il riferimento alla natura, alla retorica anti-industriale e al biologico in un numero crescente di prodotti del settore alimentare. In questo caso, è chiaro che le aziende continuano a perseguire la logica di sempre – l’aumento dei profitti – con altri mezzi.
Non è certo la cosa peggiore che possa accadere. Quando infatti la ricerca dell’utile è proprio rigettata, è lecito domandarsi se questo sia corretto nei riguardi degli azionisti.Proviamo infatti a ipotizzare che, nel nome di un buonismo volto a soccorrere i deboli, un’azienda decida di rifornirsi da produttori in difficoltà che vendono beni di scarsa qualità e alto prezzo, invece che ricorrere ad alternative vantaggiose. Fare beneficienza a danno di chi ha investito nell’impresa non è un comportamento facile da giustificare, anche perché in questa maniera non si persegue quella corretta gestione su cui si basa il rapporto di fiducia tra gli azionisti e il management. Oltre a ciò, l’adozione di queste regole redistributive impedisce al mercato di premiare i migliori fornitori a scapito di quelli di minore qualità.
Di conseguenza, le cattive imprese potrebbero anche sopravanzare le buone, a danno dei consumatori e dell’economia nel suo insieme. Con questo non si vuole negare l’importanza della solidarietà, della filantropia e della beneficienza. Non siamo isole e siamo chiamati a farci carico di chi ha bisogno. Per giunta, una società libera non può reggere se non sa sviluppare una fitta rete di associazioni, fondazioni, attività non profit e via dicendo, in grado di soccorrere i più deboli.
La retorica della “corporate social responsibility” è però tutt’altro. Se un azionista vuole aiutare qualcuno lo può sempre fare, liberamente, utilizzando i propri profitti personali: senza dover scoprire nelle pieghe di un bilancio consuntivo che i suoi soldi sono stati usati per perseguire “nobili” obiettivi. Per giunta, com’è facile comprendere, quando si ammette che una gestione aziendale possa perseguire obiettivi “etici” e non più solo “economici” si finisce per consegnare agli amministratori un’ampia libertà d’azione, che essi possono utilizzare per realizzare i loro più disparati obiettivi.
È chiaro che un amministratore è in primo luogo un uomo, e quindi ha criteri morali da rispettare: non può essere disonesto, investire in aziende criminali, imbrogliare dipendenti o clienti, minacciare, e via dicendo. Ma questi criteri etici sono molto più definiti e ristretti rispetto a quelli suggeriti da chi vorrebbe estendere alle aziende i principi morali che devono guidare i singoli nella loro ricerca di una vita “retta”. Identificando questi ultimi principi, per giunta, con alcune parole d’ordine del politically correct.
Ultimo punto. Non di radio queste imprese “etiche” – quale che sia il loro settore – sono assai impegnate a ottenere norme di favore, che attribuiscano loro una posizione di privilegio. Tanta retorica su etica e morale finisce spesso per convertirsi in azioni di lobbying che danneggiano i concorrenti e/o i consumatori. Un esito davvero paradossale.
L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

Carlo Lottieri

I tamburi hanno rullato a lungo, annunciando una radicale inversione di tendenza. A seguito della grave finanziaria che dagli Usa (legata ai suprime e alle politiche monetarie) si è presto trasferita in Europa (dove è in relazione piuttosto con gli alti debiti pubblici), hanno finito per avere la meglio quanti hanno voluto rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e moltiplicarne la capacità d’intervento. Non è difficile capire il perché di tutto ciò. C’erano in gioco interessi, certamente, ma anche fattori culturali. Pure in quella remota provincia dell’Impero che è l’Italia, lontana dai centri nevralgici, moltissimi economisti si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e per anni hanno sofferto in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si erano rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.
Ora siamo tornati a Keynes e le prospettive politiche dell’Europa – dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Podemos – sembrano proprio legate al caratteristico illusionismo di chi pensa che si possa – al tempo stesso – spendere denaro pubblico e costruire un futuro di crescita. Avvisaglie ce n’erano già state e molte, ben prima che la sinistra radicale conquistasse la scena. Negli scorsi anni nel Regno Unito, di fronte alle difficoltà di un settore finanziario nella bufera, il governo londinese non aveva trovato niente di meglio da fare che nazionalizzare (si pensi alla Northern Rock) e anche negli Stati Uniti si sono seguite queste logiche. I maxi-salvataggi sono stati moltissimi e insieme alla volontà di tenere artificiosamente bassi i tassi di interesse – sulla scia di un Giappone che peraltro è in una crisi di cui non si vede la fine – hanno finito per radicalizzare difficoltà che, altrimenti, si sarebbero già superate.
In questi anni, insomma, si sono accantonati tutti i capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Oltre a ciò, si è pensato di deresponsabilizzare le varie economie, creando meccanismi di stabilizzazione monetaria che nei fatti scaricano sui virtuosi le cattive scelte di chi, invece, dovrebbe pagare il prezzo dei propri errori. Ora ad Atene si annuncia il blocco delle privatizzazioni e si innalza il salario minimo. Una demagogia antiliberale che in questi anni è stata spesso utilizzata anche dalla destra, si pensi a Sarkozy, ora è gestita con maestria dalle forse dell’altermondialismo entrate nella stanza dei bottoni. Non ne verrà nulla di buono.
Lo statalismo dei moderati (conservatori o laburisti) ha aperto la strada allo statalismo dei radicali: l’estrema sinistra in Spagna e Grecia, e forse l’estrema destra in Francia. E tutto questo mentre Mario Draghi ha deciso di abbandonare ogni politica di rigore monetario e punta di fatto a monetizzare progressivamente i debiti pubblici. Ma è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico emerso dal nulla possa aiutarci a uscire dal guado? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato. E allora bisogna avere una moneta forte e stabile, una proprietà tutelata, una bassa tassazione, un ordine giuridico che tuteli i contratti e una burocrazia ridotta ai minimi termini. Ma non riusciremo a contenere l’espansione delle regole e dell’intrusione dei funzionari se non ridurremo la pressione fiscale. Poteri che sopravvivono sottraendo il 50% e più della ricchezza devono avere sotto controllo l’intera società. Non ci sarà “sburocratizzazione” dell’Europa senza la fine del fiscalismo selvaggio che oggi domina la scena.
Lasciare Keynes e tornare al mercato, per giunta, significherebbe rimettere in piedi un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Ma è pure necessario che la Grecia si faccia carico dei propri errori, che gli italiani si guardino nello specchio. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.
Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo nell’ultimo decennio. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed e dalle politiche pubbliche.
Come hanno evidenziato i commenti successi al quantitative easing della Bce, pochi però sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda la bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti. Di qui all’Atlantico il guaio maggiore sta nel fatto che gli europei si sono innamorati del modello “renano” e del welfare State: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni ci separa dall’America, e questo nonostante lo statalismo e gli errori di Kennedy e Nixon, di Bush e Obama.
L’Europa allora non è un modello, ma invece ha bisogno di ripensarsi alla svelta: ne va della possibilità di avere un futuro.