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Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

di Massimo Blasoni – Il Fatto Quotidiano

Confindustria e diverse altre organizzazioni si schierano apertamente per il Sì al referendum, sostenendo che questa riforma sarà in grado di velocizzare il processo normativo e creare le condizioni per una stabile ripresa economica. Sono un imprenditore anch’io – una realtà che occupa 2.000 persone – tuttavia non sono d’accordo e provo a spiegarne le ragioni.

Primo: le leggi non devono essere approvate velocemente ma semmai scritte bene e in maniera chiara affinché la loro applicazione non venga poi vanificata o ritardata da una pletora di ricorsi. D’altra parte il bicameralismo perfetto, che ora si vuole abolire, non ha mai impedito l’approvazione rapidissima di leggi considerate prioritarie (magari perché utili agli stessi partiti): a dettare i tempi in Parlamento è sempre e soltanto la volontà politica. Non hanno senso poi senatori dopolavoristi e non eletti direttamente.

Secondo: l’economia cresce se si consente agli imprenditori di creare ricchezza e dare lavoro. Non voglio fare il benaltrista, ma credo che sarebbe stato molto più utile modificare l’articolo 41 della Costituzione. Al primo comma recita che «L’iniziativa economica privata è libera». Un principio liberale fondamentale che purtroppo viene subito contraddetto al terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». È stata proprio l’osservanza a questo principio ideologico dell’indirizzo statalista che prefigura il “coordinamento” pubblico a costruire un eccesso di regole che frenano lo sviluppo delle aziende, trasformando la burocrazia in un micidiale ostacolo alla crescita economica. Già nel 2010 l’allora ministro Tremonti propose di sostituire quel comma con una frase semplice ma rivoluzionaria: «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Una formulazione che avrebbe introdotto, ad esempio, la totale autocertificazione per le Pmi e le imprese artigiane, spostando ex post il momento dei pur necessari controlli e verifiche dei requisiti richiesti per legge. Non se ne fece nulla allora, non se ne è discusso nemmeno questa volta. Ecco perché, al netto di molte altre ragioni, il 4 dicembre voterò no. Con buona pace di Confindustria.

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Davide Giacalone – Libero

I numeri non mentono mai. Tutto sta a non truccarli, non darli a vanvera e non fraintenderli. Non interessa, qui, far polemica sulle previsioni sbagliate, né è saggio usare i problemi reali come randelli per risse politiche. Ma la realtà va conosciuta e da quella si deve partire per proporre soluzioni. Ebbene: dai giornali è sparita la previsione di crescita, elaborata dal Centro studi Confindustria, per il primo trimestre 2015: +0,2%. Cancellata. Il quotidiano degli industriali, Il Sole 24 Ore, la riporta in modo surreale: «si consolida la ripresa nel primo trimestre». Ci stiamo nascondendo la realtà, o proviamo a mistificarla. Ed è grave.

Il 28 gennaio scorso, quindi appena ieri, lo stesso Centro studi prende una crescita del prodotto interno lordo, nell’anno in corso, al 2,1. Magari! Cuor contento il ciel l’aiuta, ma quel numero ci sembrò stupefacente. In tutti i sensi. ll Centro insisteva, anche perché, sostenevano, per il primo trimestre è “acquisita” una crescita della produzione industriale dello 0,5%. Dunque: se quella la si considerava una fondata speranza, ora si deve parlare di sicura delusione, visto che a gennaio la produzione ha fatto ­0,7 e si spera che febbraio segni un +0,4, che non compensa. E, come abbiamo già documentato, le proiezioni più serie ci danno sì con il pil in crescita, ma sempre meno della metà dell’Eurozona. Il problema è grosso, quindi.

Guardando dentro quella, pur millimetrica, crescita ci si accorge che discende tutta dalle esportazioni. E, fra quelle, deriva dalla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+49,3 in un anno, calcolato a febbraio). Ergo: a determinare la (troppo piccola) crescita è la capacità dei nostri esportatori, ma quella c’era anche prima, c’era anche mentre restavamo in recessione, a far la differenza è la svalutazione dell’euro sul dollaro e la diminuzione dei costi energetici. Tutta roba che non dipende da noi.

Ripeto: lasciamo da parte le polemiche di cortile, inutili, ciò che conta è che qui non è ancora successo niente che possa smentire una previsione di crescita annua che non solo è troppo bassa, ma è destinata ad aumentare il nostro svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei, Germania in primis. Gerhard Schroeder, che di quelle riforme tedesche fu l’autore politico, oggi punta il dito su quel che ripetiamo da tempo: il problema non è la Grecia, ma la Francia e l’Italia.

Si chiede: «cosa può succedere se queste due importanti nazioni non aumentano la loro capacità produttiva e non sanno migliorare la loro competitività?». Lascia in sospeso l’interrogativo, ma è chiaro che teme il risorgere di tensioni ingovernabili, fin qui anestetizzate dall’opera della Bce. Ebbene, i dati che sono stati nascosti dimostrano proprio quello: non stiamo aumentando e non stiamo migliorando. Per riuscirci dobbiamo approfittare dei bassi tassi d’interesse, che aiutano a lenire il dolore sociale di riforme che tolgano sicurezze e diritti acquisiti, aprendo a meritocrazia e competizione. Ma è una parentesi breve. Approfittarne significa tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare quella per investimenti. Il contrario di quel che si è fin qui fatto, visto che si sono tagliati i secondi. E il contrario di quel che ci si propone di fare, assumendo nuovi dipendenti pubblici senza concorso e selezione.

Significa usare la vendita di patrimonio pubblico per abbattere il debito, mentre oggi se ne usano i proventi per tenere sotto controllo il deficit. Significa restringere il perimetro dello Stato, laddove ancora lo si allarga. Significa diminuire stabilmente la pressione fiscale e stabilizzare la normativa, mentre ancora cresce e il satanismo erariale raggiunge vette inimmaginabili, con il contribuente minacciato di indagini se solo osa mettere nella dichiarazione le spese mediche. Questa, e altra, è la roba che ci tiene inchiodati. E non serve a un accidente occultare i numeri sgraditi, o limitarsi a commentare: finalmente si rivede il segno positivo. In un’afosa giornata d’agosto anche chi precipita da un grattacielo sente un po’ d’aria circolare. Meglio che se la goda in fretta.

L’impresa al centro

L’impresa al centro

Bruno Villois – La Nazione

Il Centro Studi di Confindustria azzarda una previsione di Pil lievemente positivo per il 2015, con un +0,5%. Stessa ipotesi di ripresa, però, era stata fatta per l’anno in corso e per il precedente. L’analisi parla anche di consumi che risalgono, dono sei anni di crisi, recuperando un mezzo punto percentuale. A breve uscirà anche la previsione di Confcommercio e si vedrà se va anch’essa verso un orizzonte economico con mini squarci di sereno. Di certo qualche segnale di miglioramento è già arrivato quest’anno dalle vendita delle auto con un + 5%, dal calo della cassa integrazione, positivo però solo dal trimestre in corso, e infine dalla ripresa delle trattazioni immobiliari, anche per i livelli medi. Quindi la previsione di Confindustria, che ha nei suoi capisaldi anche gli ordini dell’industria e la fiducia degli imprenditori, potrebbe avere piu fondamenta degli anni precedenti. Con una ripresa di 0,5% succederà ben poco dal punto di vista reale e la disoccupazione continuerà a crescere, sfondando i record attuali. La disoccupazione rappresenta il primo effetto della crisi del nostro sistema imprenditoriale, schiacciato dalla crisi globale e da una debolezza dovuta ad imprese troppo piccole, fortemente indebitate e con serie difficoltà ad investire in modernizzazione e quindi innovazione, ricerca, formazione permanente.

Correggere e migliorare il sistema imprenditoriale nostrano sarà opera complessa. Il governo dovrebbe mettere al centro della sua agenda l’impresa e come sostenerne, attraverso una politica industriale ancor oggi inesistente, il rafforzamento, facilitando fusioni, incorporazioni, quotazioni in Borsa. In assenza di un progetto complessivo che contenga la riduzione delle pressione fiscale, il ridimensionamento e lo snellimento della burocrazia, l’accesso al credito, almeno parzialmente, garantito da Cassa Depositi e Prestiti, sarà molto difficile se non impossibile ridare smalto al nostro Pil. Senza un ‘impresa più forte e quindi maggiormente in grado di competere in ogni dove, non si può realizzare una consistente e duratura ripresa, con un’occupazione stabile e una adeguata redditività in modo da ottenere flussi di cassa fondamentali per poter investire e quindi modernizzarsi e crescere.

Riforme alla prova

Riforme alla prova

Giuseppe Turani – La Nazione

Giorgio Squinzi, che è un uomo prudente e presidente di Confindustria, di fronte alla manovra (annunciata) di Renzi arriva a esclamare: realizzato il nostro sogno. Esattamente l’opposto di come reagisce la Cgil di Susanna Camusso: manifestazione il 25 e poi, probabilmente, sciopero generale. La manovra, per come è stata spiegata, sembrerebbe perfetta (o quasi). Renzi pare avere convinto anche quelli dell’agenzia di rating Moody’s. Si tratta di 30 miliardi in uscita e in entrata, una manovrona quindi. Ma, soprattutto, non si vedono tasse o altri aumenti di balzelli

I 30 miliardi in entrata vengono recuperati sostanzialmente in due modi: un po’ di debiti in più (11,5 miliardi), nel senso che si alza il disavanzo, e dai tagli di spesa (13,3 miliardi, a carico di regioni, comuni, province e ministeri). In più ci sono altre piccole voci (lotta all’evasione, slotmachine, detrazioni, eccetera). I vari enti locali stanno già urlando, ma poiché sono dei noti spendaccioni qualche taglio va bene. In sostanza, tutto a posto. A patto che queste cifre diventino poi realtà vera. Tagliare 13,3 miliardi di spesa pubblica non è facile come dirlo. Soprattutto se va tutto a carico di ministeri ed enti locali. Il sospetto è che poi, in corso d’opera (come si suole dire) i 13,3 miliardi diventino magari solo cinque è forte. E un po’ spiace che i tagli avvengono ‘ritagliando’ i finanziamenti alla struttura pubblica esistente senza intaccarla: tutti sappiamo che c’è molto da sfoltire, ma qui si riducono solo un po’ i finanziamenti. Comunque, meglio di niente. O di una manovrina da 14 miliardi.

Interessante anche il modo in cui verranno spesi questi soldi. Le due voci più importanti sono: 10 miliardi per i famosi 80 euro e 6,5 miliardi per un’ulteriore riduzione dell’Irap. Poi c’è anche il no-contributi per i primi tre anni, quando un’impresa fa un’assunzione a tempo indeterminato. A sentire gli annunci di Renzi, quindi, non ci sono nuove tasse (anzi c’è una robusta riduzione) e invece ci sono sgravi e aiuti per il lavoro (e infatti lui ha gridato agli industriali: adesso non avete più scuse, assumete). Più che comprensibile, quindi, l’entusiasmo di Squinzi e degli imprenditori: per la prima volta non si parla di nuove tasse e, anzi, gliene vengono tolte un po’. Sull’altro fronte la Cgil della Camusso si dichiara invece totalmente insoddisfatta più che altro perché Renzi non rinuncia a cancellare il famoso articolo 18 e perché, a detta della Cgil, si andrebbe verso un’ulteriore precarizzazione del lavoro.

È questa la scossa di cui aveva bisogno l’economia italiana per rilanciarsi? No. Serviva molto di più. Soprattutto serviva mandare un segnale che la struttura della pubblica amministrazione cambia, che si chiudono un po’ di società locali e che si va a scavare a fondo nella spesa sanitaria delle Regioni, un noto luogo di sprechi e imbrogli. E magari, anche l’annuncio che la complicatissima struttura amministrativa dello Stato italiano veniva un po’ semplificata. Però, se quello che è stato annunciato verrà fatto davvero, siamo già sulla buona strada.

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.