Corriere della Sera

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

La cautela sull’economia mostra la sfida che il premier ha davanti

Massimo Franco – Corriere della Sera

Il «no comment» del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in risposta a una domanda sull’eventualità di una manovra correttiva in autunno era obbligato. La sua prudenza rispecchia l’incertezza che domina i conti pubblici e l’evoluzione della crisi finanziaria, e dunque va apprezzata. Ma gli avversari del governo hanno voluto vederci la conferma di una situazione in via di peggioramento, e una reticenza che non promette niente di buono. Forse anche per questo, nel pomeriggio Padoan è stato costretto a precisare: «Ma “no comment” non significa solo “non ho nulla da aggiungere”? Non c’è nessuna manovra in arrivo, semplicemente». L’ennesimo attacco di Forza Italia, figlio di un’opposizione «governativa» sulle riforme istituzionali e ipercritica sull’economia, tende a raffigurare Matteo Renzi sulla difensiva: cosa in parte vera, anche se ad essere realmente in panne è Silvio Berlusconi.

Il problema del presidente del Consiglio è che il fronte tedesco gli sta riservando critiche inattese. I popolari vicini alla cancelliera Angela Merkel continuano ad accusarlo di non avere voluto proporre l’ex premier Enrico Letta alla presidenza del Consiglio dell’Ue: un’intromissione che espone Renzi ma anche lo stesso Letta, indicato dal Ppe contro la candidata del governo italiano a «ministro degli Esteri» europeo: Federica Mogherini. Il risultato è un rinvio delle nomine a fine agosto. «Un rinvio estremamente pesante soprattutto per il semestre italiano», commenta preoccupato l’ex presidente della Commissione, Romano Prodi. Non solo. Il Pd appare lacerato più di quanto non sia; e, seppure supervotato il 25 maggio, è come se il suo peso politico a Bruxelles rimanesse marginale. È una difficoltà che Palazzo Chigi cerca di circoscrivere procedendo sulla riforma del Senato e soprattutto sulla politica economica.

Sa che è l’unica alla quale l’Unione Europea sia davvero attenta. Padoan ammette che la lentezza della ripresa rende i margini più stretti. «Non ci sono scorciatoie per la crescita», avverte. Ma conferma che il taglio del cuneo fiscale diventerà permanente con la legge di Stabilità. Si tratta di una marcia parallela a quella per modificare il bicameralismo. Più passano le ore, però, più diventa chiaro che la filiera degli oppositori non cederà facilmente. Ieri uno dei relatori del testo, il leghista Roberto Calderoli, ha sostenuto che non si comincerà a votare in Aula nemmeno lunedì, perché gli emendamenti sono troppi e richiedono una discussione ulteriore. La strategia del rinvio rivela anche una guerra dei nervi con il premier e con il ministro Maria Elena Boschi.

Eppure l’esito appare segnato. Gli alleati del Nuovo centrodestra insistono che bisogna far tutto prima dell’estate. E il sottosegretario a palazzo Chigi, Graziano Delrio, risponde che sulle riforme «è in ritardo il Paese, non il governo». Insomma, nonostante i malumori dell’Anci, che vorrebbe con Piero Fassino più sindaci senatori, il patto Berlusconi-Renzi dovrebbe portare all’approvazione in tempi relativamente rapidi. Resistono e fanno ostruzionismo sia una ventina di senatori del Pd, sia quanti dentro FI parlano di subalternità di Berlusconi a Renzi. E dall’esterno, costituzionalisti come Stefano Rodotà sostengono la tesi dell’«imposizione indecente, senza alcuna cultura istituzionale». Ma Renzi può replicare che la proposta è stata modificata; e reagire alle accuse del Movimento 5 Stelle sull’immunità parlamentare.

Nel testo governativo non c’era, dice, facendo capire che l’avrebbero inserita altri. Sono le convulsioni che accompagnano un cambiamento storico, per quanto a dir poco controverso; e che si intrecciano con le manovre di disturbo di Beppe Grillo in vista della prossima sfida: il sistema elettorale. Il capo del M5S manda i suoi a parlarne con Renzi e il Pd. Si punzecchiano ma alla fine sembrano tutti soddisfatti. «Non siamo divisi dal Rio delle Amazzoni ma da un ruscello», commenta Renzi. Attraversarlo, però, sarà ugualmente difficile perché la sensazione di un minuetto politico è comune a entrambi gli interlocutori. Il presidente del Consiglio si chiede se Luigi Di Maio, numero due della Camera e mediatore per conto di Grillo, sia in grado di portarsi dietro l’intero movimento. Visti i precedenti, è una domanda legittima.

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Costi della politica, ecco il rapporto. I tagli possibili, dalla Rai ai vitalizi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La Rai, per esempio. «A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati». La mazzata alla tivù di Stato è tutta qui. Ma tremenda. E non tanto per la stoccata alla nave ammiraglia. Già un anno fa il deputato del Pd Michele Anzaldi denunciava che dei 113 giornalisti del Tg1 appena 32 erano redattori ordinari, mentre i soli capiredattori risultavano ben 34. Rapporto fra soldati semplici e graduati? Uno a 2,5.

La botta è micidiale perché nel rapporto sui costi della politica commissionato dal direttore d’orchestra della spending review Carlo Cottarelli a un pool di esperti coordinato da Massimo Bordignon, la Rai è assunta a simbolo poco edificante. L’emblema di quell’enorme indotto costituito dalle imprese pubbliche sulle quali la stessa politica scarica un peso economico non indifferente. Tanto da indurre gli autori del documento – che il governo ha deciso di rendere pubblico – a formulare una raccomandazione: quella che «le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta». Vale per la Rai, come per tutte le altre migliaia di aziende controllate dal pubblico. Dove per pubblico si intende Stato, Regioni, Province e Comuni. E non è un caso che questo passaggio si trovi nell’ultimo capitolo, quello intitolato «Il sistema del finanziamento dei partiti», che comincia a pagina 86 del rapporto fino a ieri svanito e oggi finalmente ritrovato. Perché, come abbiamo tante volte ricordato, i canali attraverso cui la politica drena risorse pubbliche sono così numerosi da sfuggire a un calcolo preciso. Ragion per cui le raccomandazioni degli esperti di Cottarelli si sprecano. Come quella di «introdurre la massima trasparenza sui finanziamenti ai gruppi parlamentari», che nel solo 2012 hanno incassato 73 milioni: somma andata ovviamente ad aggiungersi ai rimborsi elettorali. O quella di alzare almeno al 10 per cento l’Iva sulle spese elettorali, che una legge d’altri tempi aveva fissato al 4 per cento appena: stesso livello vigente per i beni di prima necessità. Oppure quella di portare ad almeno 10 centesimi il francobollo per le lettere di propaganda politica, contro i 4 attuali. O ancora, quella di tagliare ancora del 20 per cento i sussidi alla stampa di partito. Anche se i risparmi non sarebbero certo dell’ordine di quelli che si potrebbero ottenere intervenendo sugli apparati istituzionali.

E qui viene il bello. Come abbiamo anticipato ieri, la relazione di 106 pagine consegnata nello scorso mese di marzo a Cottarelli contiene una radiografia approfondita dei costi della politica nei Comuni e nelle Regioni. Arrivando alla conclusione che su questo fronte si potrebbero realizzare economie per 630 milioni di euro l’anno oltre a quelle già portate a casa con le riforme fatte a partire dal governo di Mario Monti. Quasi metà, pari a 300 milioni e 698 mila euro l’anno, deriverebbe da interventi sulle amministrazioni comunali. Il rapporto suggerisce l’accorpamento dei piccoli Comuni (quelli sotto i 5 mila abitanti), la riduzione del 20 per cento del numero di consiglieri e assessori (oggi quasi 139 mila), l’eliminazione del trattamento di fine rapporto per i sindaci e il taglio compreso fra il 10 e il 20 per cento delle remunerazioni per il personale politico nei municipi al di sotto dei 15 mila abitanti. Tutte misure, si aggiunge nel documento, che andrebbero necessariamente estese anche alle Regioni a statuto speciale alle quali viene riconosciuta autonomia finanziaria nella gestione della finanza locale, quali Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Altri 330 milioni sarebbero i risparmi attesi dall’applicazione dei «costi standard» agli apparati politici regionali. Alcuni dei quali, va detto, si sono mostrati decisamente riluttanti di fronte ai tagli già imposti sull’onda degli scandali di Batman&co. alla Regione Lazio. Innanzitutto sulla trasparenza. Nonostante in seguito al decreto Monti sia stata fissata una retribuzione lorda onnicomprensiva uguale per tutti i consiglieri (11 mila euro mensili), i dati pubblicati per legge sui vari siti «non dicono», sostiene il rapporto, «quanti consiglieri cumulano all’indennità di carica le varie indennità di funzione previste, ed è dunque impossibile calcolare la retribuzione effettiva». Poi c’è il caso della Sardegna, che ha fatto ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto Monti e non l’ha applicato, dov’è fissata «un’indennità di carica molto più alta (14 mila euro) della soglia su cui possono cumularsi le altre indennità».

Del resto le differenze nei costi delle assemblee, fra Regione e Regione, restano rilevantissime anche dopo la quasi generale equiparazione delle indennità. La media nazionale per consigliere «è superiore ai 900 mila euro ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di un milione e mezzo mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila euro», rivelano gli autori. Affermando la necessità di ridurre anche qui, ulteriormente, di 266 unità il numero di assessori ed eletti, con un risparmio possibile di 35 milioni: più altri 25 se si allineasse lo stipendio del consigliere a quello del sindaco del capoluogo. In tutto, dunque, sessanta milioni. Che salirebbero a 107 se, come propone il rapporto, si eliminasse anche il rimborso forfettario mensile. «In fondo», scrivono gli esperti di Cottarelli, «ai percettori di redditi di lavoro dipendente non è in genere riconosciuto un rimborso per le spese attinenti alla loro attività». Non si capisce quindi per quale ragione i consiglieri regionali debbano averne diritto. Altri 50 milioni di minore spesa potrebbero derivare dalla revisione dei vitalizi pagati agli ex consiglieri in base ai cosiddetti diritti acquisiti: semplicemente ricapitalizzando i contributi effettivamente versati sulla base del sistema contributivo e ricalcolando così gli assegni mensili. I vecchi vitalizi rappresentano una fetta gigantesca del costo della politica regionale: 173,4 milioni nel 2012. Che continua a lievitare. Basti pensare che nella sola Regione Lazio l’esborso è salito di oltre il 30 per cento in due anni, da 15,9 milioni nel 2012 a più di 20 quest’anno.

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Giro di vite su Regioni, Comuni e stipendi

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La prudenza. La necessità di non incattivire i rapporti con le Regioni mentre si ammorbidisce il Titolo V della Costituzione. O la voglia di non farsi altri nemici. Di ragioni per giustificare che il rapporto sui costi della politica sia in un cassetto anziché sul web come vorrebbe Carlo Cottarelli, ce n’è un migliaio: magari plausibili. Ma non accettabili. Non sono ragioni accettabili da un governo che ci ha promesso trasparenza assoluta e annunciato guerra agli sprechi. Anche perché se quella roba non diventa di pubblico dominio è come se non fosse mai esistita.

Ma cosa c’è in quel documento pronto da quattro mesi e ancora misteriosamente ignoto, come ha denunciato ieri con irritazione su questo giornale da Riccardo Puglisi, uno del gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon che l’ha curato? Per esempio, il fatto che il problema principale, come molti del resto ormai sostengono, è rappresentato dalle Regioni. Da qui la proposta di allineare il costo degli apparati politici regionali a parametri standard. Il che non significa soltanto gli stipendi degli eletti, ma anche il loro numero e quello del personale che gli ruota intorno, con tutte le spese relative. Garantirebbe un risparmio di almeno 300 milioni l’anno, e sarebbe un’operazione di puro buonsenso. Portata alle conseguenze più radicali potrebbe anche modificare la geografia politica. Un esempio? Secondo il rapporto la Regione Molise non avrebbe ragione di esistere. Ancora: chi ricopre un incarico pubblico ed elettivo non può avere uno stipendio e una pensione o un vitalizio, o magari addirittura due, come non raramente capita. Il tutto accompagnato anche da un articolato di legge bell’e pronto messo a punto con la collaborazione del predecessore del commissario alla spending review Cottarelli, Piero Giarda.

Il gruppo di lavoro incaricato di mettere a nudo gli aspetti più delicati (e scabrosi) di un sistema impazzito segnala circostanze incresciose nelle quali sono state rifiutate loro le informazioni. Il che tuttavia non ha impedito di scoprire come in molti casi norme moralizzatrici quali quelle del decreto Monti del 2012 sono state aggirate con autentiche furbate che hanno limitato la riduzione dei consiglieri prevista dalla legge, fatto rientrare dalla finestra spese uscite dalla porta, vanificato l’innalzamento dell’età pensionabile. Un fatto, quest’ultimo, clamoroso: Monti aveva previsto che dal 2012 in poi nessun consigliere regionale avrebbe più intascato il vitalizio prima di 66 anni, e ancora oggi alla Regione Lazio è invece possibile incassarlo a 50 grazie alla sopravvivenza delle vecchie regole. Per non parlare della Sardegna, dove l’ex presidente dell’assemblea regionale Claudia Lombardo, di Forza Italia, percepisce da pochi mesi un vitalizio da 5.129 euro all’età di 41 anni.

Il rapporto scomparso non risparmierebbe nemmeno i Comuni (un mondo da cui proviene il premier Matteo Renzi e alcuni dei suoi collaboratori più stretti a cominciare da Graziano Delrio) per i quali stima un minore esborso annuale di qualche centinaio di milioni grazie a una rigorosa politica di accorpamenti per quelli al di sotto dei 5 mila abitanti, i quali assorbono il 54 per cento della classe politica locale. Numerosissima, stando ai dati contenuti nella relazione della Corte dei conti sul rendiconto dello Stato, pubblicata qualche settimana fa. I politici comunali sono 138.834: uno ogni 427 cittadini italiani. Tanti. Troppi, anche se il loro costo unitario non è paragonabile a quello delle altre istituzioni. Con qualche significativa eccezione. Il documento cita il caso del Trentino Alto Adige, per sostenere la necessità, anche qui, di allineare gli esorbitanti stipendi dei suoi sindaci a quelli del resto d’Italia: considerando che il primo cittadino di Merano guadagna 3 mila euro al mese più di quello di Milano, città 35 volte più popolosa.

Per la Corte dei conti gli apparati politici comunali costano 1,7 miliardi l’anno, contro il miliardo e mezzo circa di Camera e Senato, che hanno 945 onorevoli più i senatori a vita, e il miliardo delle Regioni, dove si contano 1.270 fra eletti e assessori. Solo per pagare stipendi e pensioni di deputati e senatori si sono spesi nel 2013 ben 447 milioni, con un aumento di 8 milioni sul 2012. Ciò esclusivamente a causa della crescita della spesa per i vitalizi, pari ormai a metà del totale (220 milioni). Compresi gli europarlamentari e gli apparati provinciali, i politici italiani sono in tutto 145.591. Uno ogni 407 residenti nel nostro Paese. Il che la dice lunga sul peso della politica in Italia. I magistrati contabili riconoscono che nonostante l’aumento dei vitalizi le spese di Camera e Senato nel 2013 si sono ridotte rispettivamente del 5 e del 4 per cento. Inoltre il taglio dei vertiginosi stipendi del personale delle due Camere (arrivati a superare la media per dipendente di 150 mila euro l’anno) sarebbe ormai avviato. Mentre mancano pochi giorni alla rescissione dei costosissimi affitti dei palazzi Marini dell’immobiliarista Sergio Scarpellini, resa possibile da una legge voluta dal Movimento 5 stelle, che farebbero risparmiare a Montecitorio fra 32 e 37 milioni l’anno. Al netto s’intende, delle inevitabili cause giudiziarie che saranno intentate contro questa decisione. Vedremo. L’impressione è che per allineare davvero le uscite di Camera e Senato a quelle degli organismi equiparabili di altri Paesi la strada sia ancora lunga e insidiosa.

E se «il costo relativo al 2013» del Quirinale è stato di 228 milioni di euro, cioè «pari a quanto speso l’anno precedente», la Corte dei conti non manca di sottolineare che nel 2013 la presidenza del Consiglio ci è costata 458 milioni, con un aumento dell’11 per cento, e che gli apparati politici dei ministeri «hanno comportato una spesa di oltre 200 milioni». Le sforbiciatine saranno state dunque volenterose, ma di sicuro non sufficienti considerando la mole delle uscite delle sole strutture politiche istituzionali: 6 miliardi. Lo scorso anno le quelle centrali (Camera, Senato, Quirinale, Palazzo Chigi…) sono costate circa 3 miliardi, con un calo del 4 per cento sul 2012. Altri 3 miliardi sono stati spesi per mantenere quelle locali, giunte e consigli di Regioni, Province e Comuni: in flessione, secondo i magistrati contabili, del 5 per cento. Troppo poco, dopo un’indigestione di quella portata. I costi della politica «rappresentano una voce di spesa significativamente maggiore rispetto a quella sostenuta nei paesi demograficamente confrontabili con l’Italia, quali Germania, la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna. Ne consegue l’esigenza, non ulteriormente procrastinabile, di un’adozione di misure contenutive coerenti», conclude la Corte dei conti. Senza citare, per carità di patria, l’indotto. Innanzitutto quello dei partiti: sul quale si è fatta fin troppa melina. Tanto per dirne una, aspettiamo ancora la famosa legge attuativa dell’articolo 49 della Costituzione, quella che dovrebbe regolamentare dopo quasi settant’anni natura e funzioni dei partiti. E la legge che ha riformato il finanziamento pubblico continua a suscitare perplessità. Non a caso quel rapporto svanito propone di anticipare l’abolizione dei rimborsi elettorali…

I documenti svaniti sui costi della politica

I documenti svaniti sui costi della politica

Riccardo Puglisi – Corriere della Sera

Dove sono finiti i 25 documenti Pdf che contengono le relazioni finali dei gruppi di lavoro della spending review di Cottarelli? Questi file sono stati consegnati all’inizio di marzo, ma sembra che siano rimasti chiusi in qualche (virtuale) cassetto. Esperienza personale: io stesso ho fatto parte di uno dei gruppi di lavoro – quello dedicato all’analisi dei costi della politica – e ricordo la data d consegna. Eppure posso leggere il documento solo andando a ripescarlo dal mio computer. Né io, né nessun altro, può leggerlo nel sito internet dedicato alla revisione della spesa.

Facciamo un passo indietro. Ho il sospetto che la famosa frase di Margaret Thatcher, premier britannico dal ’79 al ’90 – «Non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti» – trovi sempre più consensi in Italia, a motivo dell’asfissiante livello di pressione fiscale raggiunto. Il denaro dei contribuenti finanzia nel nostro Paese una spesa pubblica che sembra difficile da domare, specialmente nella sua parte corrente, cioè al netto degli investimenti. Con un anglicismo forse superfluo, il processo di revisione della spesa pubblica è noto dalle nostre parti come spending review. Esso viene delegato a commissioni tecniche, le quali devono identificare i capitoli di spesa meno giustificabili dal punto di vista sociale, e le sacche di inefficienza che non hanno alcuna giustificazione. Lo scopo finale è naturalmente quello di creare gli spazi per una riduzione consistente della pressione fiscale di cui sopra.

L’ultima esperienza di revisione della spesa è quella guidata da Carlo Cottarelli, su incarico del governo Letta. Sul sito revisionedellaspesa.gov.it esiste una sezione apposita chiamata Revisione aperta, all’interno della quale «[…] verranno inseriti progressivamente tutti i dati e le informazioni disponibili sulla spesa e sui dati raggiunti dall’attività di Revisione della spesa». Il dato di fatto è che i 25 gruppi di lavoro costituiti da Cottarelli hanno consegnato le proprie relazioni finali nel mese di marzo, ma la sezione è e resta desolatamente vuota. Il governo Renzi ha dichiarato di avere recepito molti dei suggerimenti forniti dai gruppi di Cottarelli, ma al momento non è possibile sapere con esattezza che cosa non è stato recepito.

Su questo tema, come accennavo, posso aggiungere qualche dettaglio proveniente dalla mia esperienza personale. Insieme ad altri economisti ho fatto parte del gruppo di lavoro – presieduto da Massimo Bordignon dell’Università Cattolica – a cui Cottarelli aveva affidato il compito di analizzare i cosiddetti costi della politica, sia a livello statale che a livello locale. I numeri sono importanti: ai primi di marzo abbiamo consegnato un file Pdf di 106 pagine, il quale riassume i risultati della nostra analisi. Con uno spericolato esercizio di estrapolazione posso immaginare che gli altri 24 gruppi di lavoro abbiano prodotto documenti simili al nostro. La domanda sorge spontanea: come mai questi documenti non sono liberamente consultabili all’interno della suddetta sezione del sito apposito?

Intendiamoci: sono ben lungi dal pensare che il governo debba passivamente recepire tutti i suggerimenti provenienti dai gruppi di lavoro della spending review. Evidentemente governo e parlamento hanno l’ultima parola sui tagli da farsi. La questione è un’altra, ed è di carattere procedurale: ritengo che i cittadini-contribuenti abbiano il diritto di sapere quali suggerimenti siano contenuti nei documenti della spending review, in modo tale da poter verificare che cosa è stato recepito dal governo, e che cosa non lo è stato. Il governo potrebbe anche spiegare le ragioni politiche o tecniche per cui ha deciso di non recepire questo suggerimento o quell’altro.

Nel novembre 2012 – durante la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico – Matteo Renzi aveva rimarcato la necessità di un Freedom of Information Act (Foia), cioè di un’assoluta trasparenza su documenti e informazioni della Pubblica amministrazione, per «combattere corruzione e inefficienze». Per quali strane ragioni il Renzi premier del 2014 deve «cambiare verso» rispetto al Renzi del 2012, lasciando chiusi nel cassetto i 25 documenti Pdf della spending review?

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Pagamenti alle imprese e bot, debito pubblico al nuovo record

Stefania Tamburello – Corriere della Sera

Ancora un record per il debito pubblico, che è un primatista eccezionale. Recede raramente e va sempre avanti: in maggio, secondo i dati della Banca d’Italia, è cresciuto di 20 miliardi arrivando a toccare i 2.166,3 miliardi. Una cifra altissima. Toccò la cifra di un miliardo di lire nel 1948 e dieci anni fa, a maggio del 2004, era a 1.471,804 miliardi di euro.

Fatte le riflessioni sulla pesantezza dei numeri, si deve osservare che i record, mese dopo mese, non devono sorprendere perché nella sostanza il debito si accresce perché le entrate dello Stato continuano ad essere inferiori alle sue spese facendo emergere un fabbisogno da finanziare. I titoli che lo Stato emette per raccogliere le risorse di cui ha bisogno rappresentano circa l’83% del debito e producono a loro volta interessi da pagare a chi li ha comprati che incidono sul bilancio e quindi finiscono per produrre altro debito.

In secondo luogo il dato più significativo per capire quanto il debito limiti l’azione di uno Stato è il suo rapporto con il Prodotto interno lordo che in Italia, vista la stagnazione seguita all’uscita dalla recessione, è molto alto, superiore al 132%. È questa percentuale, non il valore in assoluto, che fa dell’Italia, agli occhi degli investitori, un Paese a rischio, perché il reddito che produce non sarebbe in grado di far fronte ai debiti.
Di positivo c’è il fatto che l’Italia è un ottimo pagatore e che, se si esclude il periodo nero a cavallo tra il 2011 e il 2012, ha sempre goduto della fiducia degli investitori istituzionali e non ha problemi a collocare i suoi titoli sul mercato a costi che negli anni sono comunque diminuiti.
Come dice il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, «la via maestra per ridurre il debito è solo una crescita sostenuta». Per il resto, a meno di operazioni straordinarie finora solo immaginate, la strada per farlo calare passa necessariamente per avanzi primari di bilancio crescenti e quindi con una riduzione del fabbisogno e delle spese correnti, visto che le entrate – vedi le tasse – sono ai massimi e a loro volta frenano la crescita. Ieri la Banca d’Italia ha diffuso anche il dato sulle entrate tributarie, pari in maggio a 31 miliardi, in aumento del 2,9% rispetto allo stesso mese del 2013. Nei primi cinque mesi dell’anno le entrate sono invece cresciute dell’1,6% (2,2 miliardi).
Ogni italiano, quando nasce, ha già circa 30 mila euro di debiti. Ma chi ne è responsabile? In maggio, spiega il comunicato di Bankitalia, il debito è aumentato di 20 miliardi: l’incremento riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro, pari a 92,3 miliardi contro i 62,4 miliardi di maggio 2013, che sono in pratica il cuscinetto di risorse che il ministero utilizza per le necessità correnti. In particolare, approfittando del buon andamento dei tassi di interesse dei primi mesi dell’anno, il Tesoro, spiegano a Via Venti settembre, ha fatto pre-funding, ha collocato cioè più titoli di quanto avesse bisogno per poter affrontare con tranquillità le più pesanti scadenze della seconda metà dell’anno. Ha messo insomma fieno in cascina per il periodo di maggior bisogno,approfittando delle condizioni favorevoli di approvvigionamento, sintetizzabili in un unico dato. Il costo medio dell’emissione dei titoli nei primi mesi del 2014 è stato pari all’1,58%, il minimo storico per l’Italia. Non per nulla la gestione dei titoli aggiunta agli effetti dell’apprezzamento dell’euro hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.
Questo aumento di 20 miliardi, dice ancora il comunicato dell’Istituto di via Nazionale, è il risultato di un aumento di 20,9 miliardi del debito delle amministrazioni centrali e di una diminuzione di 0,9 miliardi di quello delle amministrazioni locali, con l’invarianza di quello degli enti previdenziali. Ma al di là della distribuzione tra centro e periferia, sul debito incidono – e la cosa è visibile nei dati definitivi del 2013 – anche il programma dei pagamenti dei crediti della Pubblica amministrazione alle imprese e la partecipazione dell’Italia ai piani di sostegno dei Paesi europei in difficoltà.

L’anno scorso, infatti, il fabbisogno pubblico da finanziare è stato pari a 78,8 miliardi a fronte di 74,2 miliardi nel 2012. Su quella cifra, però, hanno inciso le risorse destinate al sostegno finanziario dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà, pari a 13 miliardi (erano stati 29,5 nel 2012 e 60 miliardi dal 2010 ad oggi), e i fondi per accelerare il pagamento dei debiti commerciali delle Pubbliche amministrazioni e dei rimborsi fiscali, pari a 21,6 miliardi, ma che dovrebbero arrivare a 40 miliardi entro il 2014. Interventi e cifre, questi, che hanno dunque appesantito il fabbisogno da finanziare e quindi il debito, anche se quest’ultimo, vista la sua ampiezza, sembra poter camminare da solo. Nel Documento d’economia e finanza il governo ha previsto che il rapporto debito-Pil, pari nel 2013 al 132,6% (al 129,1% al netto del sostegno finanziario ai Paesi europei), salga nel 2014 al 134,9% proprio, prevalentemente, per effetto dell’accelerazione del pagamento dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche. Guardando al numero assoluto del debito, l’83% è rappresentato da titoli di Stato che per circa il 30% sono detenuti da soggetti stranieri, o comunque non residenti in Italia. In giugno il 65,73% dei titoli in circolazione, con una vita media residua di 6,33 anni, erano Btp, seguiti lontanissimo, con il 7,85%, dai Bot.

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Andrea Ducci – Corriere della Sera

All’Agenzia del Demanio lo considerano un banco di prova. Il tentativo di prendere il polso al mercato immobiliare per riavviare le annunciate dismissioni di palazzi e terreni pubblici, incontrando, finalmente, l’interesse di investitori e operatori del real estate. Così, l’Agenzia, guidata da Stefano Scalera, annuncia un nuovo bando per piazzare 15 immobili di Stato con l’obiettivo di incassare almeno 11 milioni di euro. L’operazione non è nuova e sottopone al mercato un elenco di beni in parte già noti agli addetti ai lavori. Ma tant’è. L’importante è rimescolare le carte e portare a casa più soldi possibile. A ricordarlo è la legge di Stabilità del 2014, che indica un gettito derivante dalle dismissioni pubbliche di almeno 500 milioni di euro all’anno. Allo stato attuale un mezzo miraggio.

Per avvicinarsi all’obiettivo il primo lotto di immobili resterà in offerta fino al 29 settembre. All’interno del pacchetto c’è un po’ di tutto e per tutte le tasche: appartamenti, uffici, palazzetti storici, ex conventi, terreni ed ex aree militari. Il pezzo più a buon mercato è una ex caserma a Triora (Imperia), per un paio di fabbricati e il terreno annesso la base d’asta è 430 mila euro. Per poco di più (494 mila euro) è possibile presentare un’offerta per un edificio intero (15 appartamenti) in una zona centrale di Trieste. L’immobile più costoso inserito nel bando è nella periferia sud di Verona, vicino alla zona artigianale. Nel dettaglio, si tratta di un’area di 3 mila metri e di un capannone con un valore di base d’asta fissato a 1,42 milioni. In Veneto si trova anche l’ex base missilistica di Ceneselli (Rovigo), chi acquista dovrà farsi carico della bonifica dei terreni e della rimozione dei beni mobili abbandonati dai militari sul terreno. In totale l’area è grande poco più di 8 ettari e comprende 42 fabbricati. Il prezzo di partenza per aggiudicarselo è 1,35 milioni.
Al Demanio, vista la taglia e la tipologia degli immobili, confidano molto sul mercato retail puntando sul pregio storico architettonico di alcuni beni. A Firenze e a Spoleto, per esempio, finiscono in asta due palazzine ad uso ufficio mentre a Caravaggio (Bergamo) è prevista la vendita all’incanto dell’ex Casa del Fascio (tre piani per un totale di oltre 1.200 metri di superficie). Un capitolo a sé fa l’elenco degli immobili inseriti nel progetto Valore Paese Dimore. L’intento dell’operazione è valorizzare castelli, conventi e strutture di pregio creando un modello integrato di ospitalità e attività culturali con la collaborazione delle amministrazioni locali. Non a caso il progetto, oltre al Demanio, vede coinvolti Invitalia, Anci (Associazione dei comuni), Ministero dei beni Culturali e Cassa Depositi e Prestiti.

In tutto sono circa 200 gli immobili individuati e inseriti nel portafoglio del progetto Valore Paese Dimore. Il valore aggiunto agli occhi degli investitori dovrebbe essere il corredo di «strumenti tecnici normativi e finanziari» riservato a questo genere di beni. Tradotto, vuol dire un percorso agevolato per la conversione in strutture turistiche e ricettive. È quanto previsto per il Forte Pianelloni (850 mila euro) a Lerici (La Spezia), un’ex fortificazione con tanto di terreni e antica cinta muraria, Casa Nappi (511 mila euro), un palazzetto storico nei pressi del santuario mariano di Loreto (Ancona), e l’ex convento seicentesco di S. Domenico (921 mila euro) nella città vecchia di Taranto. Nel caso di questi due ultimi immobili, però, qualcosa non ha funzionato. Tornano in asta dopo essere rimasti invenduti in occasione dei precedenti bandi.

Conventi e isole all’asta, ora il demanio ci riprova

Conventi e isole all’asta, ora il demanio ci riprova

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una base d’asta per ciascun immobile, offerte segrete e vincolanti, non solo online, e tempi lunghi per la loro presentazione, con il bando che resterà aperto almeno fino a tutto agosto. “Recepite” le indicazioni del mercato e soprattutto degli operatori internazionali, che non hanno gradito la mancanza del prezzo base nelle precedenti aste, l’Agenzia del Demanio rimette in vendita cinque grandi complessi immobiliari che a marzo non avevano trovato acquirenti, insieme (sul mercato torneranno l’isola veneziana di Poveglia, il convento di San Domenico a Taranto, Casa Nappi a Loreto, il Castello di Gradisca) e altri dieci grandi proprietà, con una base d’asta che va da un minimo di 400mila euro ad un massimo di 1,5 milioni. La nuova asta, la cui data non è ancora fissata, sarà un test fondamentale per l’Agenzia del Demanio, che aveva in programma la dismissione entro quest’anno di almeno 50 grandi complessi immobiliari, ma l’operazione non è decollata. Nel 2014, con il meccanismo delle aste, ne è stato ceduto solo uno, un vecchio ospedale a Trieste, per 610mila euro. Tutti gli altri sono rimasti invenduti. O perché le offerte erano troppo basse o perché non contenevano le garanzie previste. Certo, la congiuntura del mercato immobiliare non aiuta ma gli obiettivi sono ancora molto lontani. La legge di Stabilità del 2014 varata dal governo Letta prevedeva un incasso di 500 milioni di euro l’anno dalla dismissione degli immobili pubblici. Ospedali, fari, vecchi conventi e soprattutto tantissime caserme distribuite nei centri storici delle città italiane. Quelle dismesse dalle Forze armate sono centinaia ma anche del famoso piano per la loro dismissione ormai da mesi si sono perse le tracce.

I distruttori del lavoro

I distruttori del lavoro

Maurizio Ferrara – Corriere della Sera

La disoccupazione giovanile continua a crescere, soprattutto fra le donne. Due mesi ha preso avvio il programma “Garanzia giovani” cofinanziato dall’Unione Europea, il cui obiettivo è proprio quello di aiutare chi ha meno di 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro. Otto settimane non bastano certo a produrre risultati concreti. È però lecito chiedersi a che punto siamo e che cosa possiamo aspettarci da questa ambiziosa aspettativa. Quasi 100mila giovani si sono già inseriti al portale Internet e molti sono stati anche intervistati dai servizi per l’impiego. La vera sfida comincia adesso. La “Garanzia” prevede infatti che entro quattro mesi il disoccupato riceva una proposta concreta di inserimento. Sul portale si legge che le aziende per ora hanno segnalato circa 2mila occasioni di lavoro: un numero davvero esiguo, anche tenendo conto della crisi. Bisogna migliorare con urgenza i flussi informativi sulle posizioni vacanti in tutti i settori dell’economia.

Il compito di attuare la “Garanzia” spetta alle Regioni. Quelle del Centro-Nord (in parte anche la Puglia) sembrano sulla buona strada. Lombardia, Toscana e Lazio hanno già incontrato più di un terzo dei loro iscritti. Le Regioni del Mezzogiorno sono invece quasi ferme. E ciò che sta accadendo solleva, purtroppo, più di una preoccupazione. Nel piano di spesa della Sicilia, ad esempio, quasi due terzi dei 178 milioni di euro disponibili verranno destinati all’«accoglienza»e alla formazione, solo il 6 per cento ad attività concrete come l’apprendistato. Per quest’ultima voce («già incentivata da altre leggi») la Sardegna non prevede neppure un euro mentre abbonda in sussidi a formatori e mediatori. La Calabria dal canto suo ha appena chiuso un bando per 500 tirocini con modalità di selezione che rischiano di riprodurre sotto nuove spoglie le tradizionali logiche clientelari.

Dati questi segnali, vi è un’alta probabilità che la “Garanzia” fallisca proprio nelle aree del Paese dove è più necessaria. Invece di innescare dinamiche virtuose nei mercati del lavoro del Mezzogiorno, le risorse europee rischiano di alimentare, come in passato, il sottosviluppo assistito. Bruxelles è preoccupata e non ha ancora formalmente approvato il piano italiano: non una bella figura per il paese che più aveva insistito per mobilitare i fondi Ue e che ora detiene la presidenza di turno. Per evitare il fallimento, il governo deve attivarsi subito su almeno due fronti. Innanzitutto imponendo alle Regioni il rispetto dei criteri minimi di trasparenza ed efficacia nella fornitura dei servizi (costi standard, pagamento sulla base dei risultati, apertura alle agenzie del lavoro private e così via). In secondo luogo, collegando la “Garanzia giovani” in modo più diretto al mondo delle imprese. Occorrono incentivi, accordi, politiche di livello nazionale. Nel Mezzogiorno ciò significa trarre investimenti, avviare una seria politica per il turismo e per i servizi, in modo da facilitare anche iniziative dal basso di autoimpiego e di start-up. Un’opportunità concreta di mettersi in gioco nel mercato, in base alle proprie capacità e ai propri talenti: questa è la vera “garanzia” che dobbiamo offrire ai giovani italiani. Iniziando da quelli (troppi) che oggi non riescono a uscire con le proprie gambe dalle trappole dell’inattività, della disoccupazione e dell’assistenzialismo.

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Rientro dei capitali, ultima spiaggia

Fabio Tamburini – Corriere della Sera

Il film è di quelli più conosciuti. Il portafoglio dei conti bancari e degli investimenti in Italia è piuttosto vuoto, mentre i capitali veri vengono custoditi all’estero. Nella maggior parte dei casi neppure troppo lontano ma girato l’angolo, nel sempre accogliente Canton Ticino. Come farli rientrare evitando la solita trafila, decisamente logora, dei condoni e degli scudi fiscali? Sulla carta è l’uovo di Colombo: un nuovo provvedimento, ribattezzato voluntary disclosure, che funziona se contemporaneamente viene previsto un nuovo reato penale, l’autoriciclaggio. Insomma, è l’ultimo treno che può essere preso dagli esportatori clandestini di capitali. Prendere o lasciare. Si pagano le intere imposte evase (compreso gli interessi ma con riduzione delle sanzioni) riacquistando piena disponibilità dei beni, ma si evitano guai peggiori con la giustizia.

Peccato che un meccanismo tanto semplice, peraltro suggerito dall’Ocse, faccia tanta fatica a decollare. O, meglio, potrebbe di nuovo riproporsi un’anatra zoppa: sì alla voluntary disclosure ma rinvio a tempo indeterminato per l’autoriciclaggio, come dire vorrei ma non posso. Limitarsi alla voluntary disclosure, tra l’altro, significa andare in direzione opposta da quella di buona parte degli altri Paesi, in cui provvedimenti sul rientro di capitali hanno una cornice di contrasto anche penale all’evasione. Ora il pallino è nelle mani della maggioranza e della faccenda, a quanto pare, se ne occuperà personalmente Matteo Renzi. Il verdetto è tutt’altro che scontato. La lunga marcia della voluntary disclosure è cominciata all’epoca del governo Monti, con ministro della Giustizia Paola Severino. La scelta fu di nominare un gruppo di lavoro, affidandolo alla guida di Francesco Greco, procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, specializzato nei reati economici e finanziari, sostenitore convinto dell’opportunità d’introdurre il reato dell’autoriciclaggio, come ha concluso la commissione nella relazione finale.

Scritto e confermato dalla stessa commissione nel prolungamento dei lavori (su base volontaria) richiesta dal governo Letta. La sorpresa è poi arrivata nel momento in cui si è passati dalle parole ai fatti, con la prima edizione dell’anatra zoppa. Il decreto che prevedeva la voluntary disclosure è stato approvato nel gennaio scorso ma le disposizioni sul reato di autoriclaggio si sono perse per strada. Al loro posto sono subentrate le promesse di rimediare al momento della conversione in legge del provvedimento. Promesse rimaste sulla carta per causa di forza maggiore perché il governo Letta è caduto poche settimane prima della scadenza del decreto legge e il giro dell’oca è ricominciato. Proprio in questi giorni è in corso il confronto suoi nuovi provvedimenti. A parole, nella maggioranza, prevalgono i sostenitori dell’accoppiata tra voluntary disclosure e reato di autoriciclaggio. Nei fatti lo si vedrà. Di sicuro la posta in gioco è di quelle che pesano perché i capitali custoditi all’estero rappresentano una ricchezza importante. E negli anni seguiti alla grande crisi economica sono aumentati invece di ridursi.

Riportali in Italia significa anche evitare la trafila di sempre, che punta a risolvere le emergenze picchiando i bambini, cioè tassando sempre di più chi paga già tanto al fisco, dai lavoratori dipendenti ai pensionati passando dalle imprese. La conferma che si tratta di un fiume di denaro da cui è possibile attingere ottenendo soddisfazioni adeguate risulta evidente dal bilancio degli ultimi sei mesi di voluntary disclosure effettuate senza certezze di legge. In tutto l’Agenzia delle Entrate, con patti sulla parola, ha avviato le procedure per il rientro di 1,5 miliardi di euro. Troppa grazia, verrebbe da dire. Perché non osare di più evitando la riedizione di un’altra anatra zoppa?

Tutti i numeri dello stato famelico

Tutti i numeri dello stato famelico

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Sì, certo, avere speranza, l’Italia può uscire dalla palude, uno sforzo tutti insieme, e va bene. Ma poi i numeri di un’invadenza statale asfissiante e senza limiti uccidono senza speranza. E allineare le cifre dell’oppressione statalista raccontate da Paolo Bracalini nella “Repubblica dei mandarini” pubblicata da Marsilio toglie il fiato. Non per le tante bizzarrie surreal-burocratiche che fanno dell’Italia un Paese bellissimo, un Paese ridicolo. Ma per la scientifica e pervicace volontà di mortificare, di soffocare gli spiriti animali del mercato, ogni desiderio di fare, ogni audacia, ogni energia imprenditoriale, ogni voglia di uscire dal pantano.

«Lo Stato parassita è vorace quando deve incassare, ma lentissimo quando deve pagare». Se sei in credito con lo Stato, mettiti in fila e aspetta 450 giorni, la media del tempo che ci vuole per farsi restituire i propri soldi. Se invece paghi in ritardo anche di un solo giorno, il Moloch pubblico, l’aguzzino fiscale ti sequestra i beni, guadagna indebitamente sull’«aggio» e sbaglia addirittura nel 48,3 per cento delle volte in cui i tartassati fanno ricorso. Il giurista Sabino Cassese calcolò in circa 150mila leggi l’abnorme carico di regole che paralizzano l’Italia, contro le circa 10mila di Francia e Germania: e ogni volta si chiedono in aggiunta «nuove regole». Per aprire un negozio devi adempiere per legge a 118 procedure. Una nuova manifattura, tra autorizzazioni, concessioni, «subingressi», comunicazioni richiede soltanto 84 obblighi di legge da rispettare. Nella giustizia civile bisogna attendere in media 1.210 giorni per recuperare un credito. Le imprese sono costrette a 15 pagamenti annui che richiedono mediamente 269 ore l’anno per «inghiottire», annota Bracalini, il 65,8 per cento dei profitti. Per complicarci ancora più la vota dal 2008 al 2013 «sono state approvate ben 491 norme fiscali, di cui 288 con impatto burocratico sulle imprese». Per gli adempimenti tributari è necessario ogni anno un tempo pari a 36 giorni lavorativi.

A Firenze un mercato dell’Esselunga ci ha messo 44 anni per aprire. Il titolare dell’omonimo pastificio, Giovanni Rana, ha raccontato che per aprire uno stabilimento a Chicago ci ha messo un settimo del tempo impiegato in Italia, sette anni, per dare lavoro a centinaia di persone. La British Gas, dopo undici anni di paralisi e di attese inconcludenti, ha rinunciato al progetto di rigassificatore di Brindisi: 125 milioni di euro buttati, un migliaio di posti di lavoro anch’essi buttati. Con le tasse occulte la pressione fiscale raggiunge quasi l’80 per cento: leggete bene le bollette e ve ne accorgerete. E vi accorgerete che catastrofe è stato il discredito verso un’espressione ormai sputtanata, «rivoluzione liberale», ma che era l’unica speranza di mettere a dieta uno Stato prepotente e oppressivo, l’unica speranza di ripartire davvero, l’unico modo per uscire dal pantano. Chissà come, oramai. Chissà quando.