corte dei conti

Partecipate: quasi la metà non fattura più di 500mila euro e di queste 1.198 sono in perdita

Partecipate: quasi la metà non fattura più di 500mila euro e di queste 1.198 sono in perdita

Degli attuali 5.776 Enti a partecipazione pubblica, quasi un terzo (1.798) hanno un numero di dipendenti inferiori ai membri del proprio Cda mentre più di due terzi (4.052) operano con meno di 20 dipendenti. Di quest’ultimi all’incirca un quinto (1.104) è inoltre a totale partecipazione pubblica. Per quanto infine riguarda il loro fatturato, 2.272 Enti hanno un valore della produzione inferiore a 500mila euro e di questi ben 1.198 risultano in perdita. Questa fotografia degli organismi partecipati degli Enti territoriali emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati della Corte dei Conti.

L’analisi riguarda gli ultimi bilanci civilistici disponibili (anno 2016) e i dati numerici degli organismi sono messi in relazione alla tipologia di partecipazione, alla presenza di risultati di esercizio negativi e al numero complessivo del personale dipendente al fine di valutare le ricadute occupazionali di eventuali provvedimenti di dismissione. Dal censimento effettuato sugli Enti territoriali, nel complesso le partecipazioni che dovrebbero venire meno costituiscono circa il 23% del totale.

Quanto alla collocazione geografica dei 5.776 organismi partecipati è stato seguito il criterio della sede legale, per ovviare al problema di organismi partecipati da una pluralità di Enti insistenti su diversi ambiti territoriali. La Corte dei Conti evidenzia una significativa prevalenza di organismi partecipati dagli Enti appartenenti all’area Nord Ovest (il 29,55% del totale esaminato), seguiti da quelli collocati nel Nord Est (il 28,96%), a fronte di una presenza inferiore al Centro (20,64%) e soprattutto al Sud e nelle Isole (rispettivamente 14,46% e 6,27%). Per quanto riguarda le singole Regioni, la maggior parte delle partecipate si concentra in Lombardia (16,7% del totale), Emilia Romagna (9,6%), Toscana (9,5%) e Veneto (9%).

Con riferimento alla gestione finanziaria degli organismi oggetto dell’indagine, i debiti degli organismi partecipati ammontano nel complesso a 104,41 miliardi di euro (il 74% dei quali contratti dalle partecipate nel Nord Italia). In testa a questa particolare classifica troviamo gli enti con sede in Lombardia (26,52 miliardi), Friuli-Venezia Giulia (12,71 miliardi), Lazio (11,28 miliardi), Emilia-Romagna (8,89 miliardi), Veneto (7,28 miliardi), Piemonte (7,10 miliardi), Toscana (5,39 miliardi) e Trentino Alto Adige (5,16 miliardi).

«Le migliaia di aziende partecipate da Comuni, Province e Regioni molto spesso non sono indispensabili e producono debiti rilevanti, sottraendo quote di mercato alle aziende private che operano nel loro stesso settore» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I dati della Corte dei Conti parlano chiaro: queste realtà servono soltanto a chi vi lavora e andrebbero semplicemente dismesse. Un obiettivo che peraltro era espressamente previsto dalla Riforma Madia ma che purtroppo ancora oggi è rimasto lettera morta».

Corte dei Conti, “buco” di 16 mld all’anno nelle dichiarazioni fiscali

Corte dei Conti, “buco” di 16 mld all’anno nelle dichiarazioni fiscali

di Mino Rossi

Sono due le cifre che risaltano leggendo le anticipazioni della Corte di Conti pubblicate il 23 giugno scorso sui risultati conseguiti dalle Entrate, nel 2015, circa le attività di contrasto alla evasione fiscale (Rendiconto generale dello Stato per il 2015 vol. I – vedasi qui). Oltre 65 mld di euro consegnati a Equitalia per la riscossione forzosa. Ed oltre 14 miliardi già riscossi. Si veda sotto la tabella di sintesi dei risultati 2015, con particolare riferimento a:
– arretrati recuperati da Equitalia (4,3 mld, Tab.3),
– pagamenti tardivi post-dichiarazione (altri 4,3 mld, Tab.2),
– incassi immediati per accertamenti con adesione (5,6 mld, Tab.1).

E’ utile rimarcare la distinzione fra tasse nascoste al Fisco (le sole che, propriamente, possono dirsi “evase”), rispetto al caso diverso della semplice morosità, che si ha quando il contribuente, previa dichiarazione poniamo di un debito per 100, versa poco o nulla allo Stato (può accadere per momentanea difficoltà, ma anche a seguito di precisa strategia dolosa).  Un dato inedito di rilievo concerne invece il 2013, che è l’anno più recente disponibile al riguardo: l’ammontare dei mancati pagamenti in dichiarazione è stato di quasi 16 mld. Siamo tuttavia in un trend in forte crescita, dato che quattro anni prima, il 2009, l’ammontare annuo era di 4 mld in meno (vedasi sotto Tab.2 e, per la fonte, qui – pagina 45, Tavola 2.21).

Da rimarcare che questo accade anche per via della convenienza ad auto-finanziarsi a spese del Fisco, consentita in questi ultimi anni per via delle politiche di compliance. Che ti lanciano ponti d’oro, purché alla fine – quando che sia – ti decidi a pagare. Un esempio è quello del cosiddetto “ravvedimento operoso lunghissimo”, che ti consente di sanare il tutto, praticamente al prezzo di un finanziamento competitivo: anche se ti ravvedi dopo qualche anno dalla scadenza di legge, infatti, lo Stato ha recentemente deciso di applicare una penalità fissa pari al 5% delle somme che avevi omesso di versare.

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La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

Davide Giacalone – Libero

La sola spending review fatta è consistita nel tagliare il commissario incaricato di metterla a punto. Le sole spinte alla ripresa vengono da fattori esterni e le dobbiamo alle scelte della Banca centrale europea (altro che eurorigore). Gli 80 euro hanno funzionato egregiamente come messaggio elettorale, ma non hanno spinto i consumi, appesantendo invece la spesa pubblica, proprio perché non sono permanenti sgravi erariali e sono stati finanziati con aggravi fiscali. Così messe le cose c’è il serio rischio di vedere scattare le clausole di salvaguardia, messe a presidio dei conti pubblici e grazie alle quali il governo ha ottenuto il consenso delle autorità europee. Clausole che significano una sola cosa: ulteriore pressione fiscale. Tutte cose che i nostri lettori hanno già letto molte volte, ma che ora sono scritte anche nel «Rapporto sulle prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità», inviato dalla Corte dei conti al Parlamento.

Cose che noi abbiamo illustrato e temuto per tempo. Senza alcun compiacimento, semmai con rammarico. Sono le cose che portano a prevedere (dati della Commissione europea) una crescita dell’Italia inferiore alla metà della crescita dell’eurozona (0,65 contro 1,3%). Noi qui suoniamo e cantiamo l’inno alla fine della crisi e all’inizio della ripresa, ma si tratta di un risultato che dobbiamo al pezzo d’Italia che non ha  ai smesso di restare agganciato ai mercati globali, non ha mai smesso di vedere crescere le esportazioni (nel 2014, rispetto al 2013, in crescita del 2% verso il mondo intero e del 3,7 verso l’Ue), ma commettiamo il gravissimo errore, o cediamo al perfido trucco propagandistco, di misurarci solo con noi stessi, mentre ci si deve misurare con gli altri paesi, con i concorrenti. E mentre le nostre imprese concorrono bene con i loro simili, l’Italia concorre male, sprofondando più degli altri e poi crescendo meno degli altri. Perché? La spiegazione sta tutta nelle cose non fatte, nella spesa non rivista, nella burocrazia pazzotica, nell’incertezza del diritto, nelle tasse troppo alte. Abbiamo messo troppa zavorra sulle spalle dell’Italia che corre. Che non è stramazzata e ancora procede perché ha una forza straordinaria, ma non può reggere il ritmo di chi non viene salassato negli spogliatoi. Questo è quel che ci siamo sforzati di spiegare. Questo quel che la Corte dei conti certifica. Non se ne sentiva il bisogno, ma ora c’è anche il bollo dei contabili in toga.

Grazie alle politiche della Bce pagheremo, quest’anno, fra i 5 e i 7 miliardi in meno di interessi sul debito pubblico. Basta dare un occhio agli spread, che tre­quattro anni fa erano l’indicatore (falsato, lo spiegammo, ma reale) del nostro collasso, per rendersi conto che quelle politiche hanno avuto successo. Ma, da sole, non bastano. I tagli alla spesa pubblica, ricorda la Corte, sono previsti, dal governo, in 16 miliardi per il 2016 e 23 nel 2017. Con la legge di stabilità, per far tornare i saldi, se ne sono aggiunti altri 3 nel 2016. Come pensiamo di arrivarci se manca una politica coerentemente a ciò indirizzata? Anzi, andiamo in direzione opposta, come testimonia la gioia con cui s’è comunicata l’imminente assunzione di un’altra vagonata d’insegnanti, rigorosamente presi da quelle graduatorie che altro non sono se non testimonianza fossile dell’inefficienza pubblica, sicché avremo più spesa per meno (o, nel migliore dei casi, medesima) qualità.

Questo è l’andazzo, che difficilmente conduce verso i risultati annunciati. Sicché si passa alle misure d’emergenza già previste: tasse. Le quali, a loro volta, comprimono la crescita, contribuendo a spingerci sotto la metà di quella altrui. L’ossigeno viene da fuori, ma noi ne sprechiamo una parte per alimentare il fuoco che ci arrostisce le terga. La Corte fa due ulteriori osservazioni. Prirna: la si smetta d’indicare la lotta all’evasione come fonte di copertura delle nuove spese. Giusto, ne sento parlare da quando sono nato e se fosse anche solo lontanamente vero gli evasori fiscali dovrebbero essere protetti come il Wwf protegge i Panda, invece si moltiplicano come conigli. Seconda: l’elasticità concessa dalle autorità europee agevola il govemo. Vero solo apparentemente, perché fa perdere tempo. Anche questo lo abbiamo ripetuto cento volte: crea effetti illusori, lasciando correre l’infezione della spesa improduttiva. Il Rapporto morirà nei cassetti parlamentari. I problemi irrisolti s’incancreniscono, infischiandosene delle sceneggiate assembleari.

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Premi e assenteismo, se la Corte dei Conti salva solo se stessa

Paolo Bracalini – Il Giornale

«Una corruzione devastante per la crescita». Come ogni monito della Corte dei conti anche dall’ultimo esce un Paese allo sbando, una pubblica amministrazione preda di sciacalli, tangentari, ladri di ogni tipo. Ma chi vigila su questo disastro di pubblica amministrazione? La Corte dei conti stessa, per l’appunto. Che però, quando si tratta di giudicare il proprio operato, pur di fronte ad uno scenario descritto come devastante, si promuove a pieni voti. Basta guardare le tabelle sugli incentivi e premi pubblicati dalla magistratura contabile nella sezione «Trasparenza» per l’ultimo anno disponibile, il 2011 (e quelli più recenti?). Anche per i severissimi giudici contabili non ci si distacca da una prassi molto diffusa negli uffici pubblici italiani: la percentuale schiacciante cioè di funzionari modello che si meritano, ogni anno, un premio economico in aggiunta allo stipendio. Nel caso della Corte dei conti, su 2.477 dipendenti totali (circa 600 magistrati), le pecore nere che non hanno avuto incentivi o bonus sono stati soltanto 56, gli altri 2.421 invece hanno incassato premi fino a 1.760 euro a testa per i risultati ottenuti nel controllo di sprechi, opacità e dissesti delle finanze pubbliche, oggetto però di malagestione e corruzione come denunciato dalla stessa Corte. Se la percentuale di premiati si avvicina al 100%, non così avviene per le presenze negli uffici. A gennaio 2014 un terzo degli uffici superava il 30% di assenze, mentre negli ultimi mesi dell’anno ferie e malattie sono calate, anche se con punte del 26% all’Ufficio servizi sociali o e del 27% all’Ufficio centralino.

E come sono i conti della Corte dei conti? Nel decreto di approvazione del bilancio firmato dal presidente Raffaele Squitieri, segnala come le misure della spending review «abbiano inciso in modo evidente anche sulle risorse assegnate alla Corte dei conti». Rispetto al 2014, parliamo di un 5% in meno di fondi. Quest’anno, per il funzionamento della Corte dei conti, andranno 268.427.893 euro, 12 milioni in meno del 2014. La dieta a cui la spending review ha costretto i magistrati contabili – che non sembrano averla gradita particolarmente – non tocca però alcune voci di spesa, definite «non modulabili», cioè intoccabili. Leggiamo: «Risultano incomprimibili le spese non rimodulabili, che incidono per circa il 78% sul totale del bilancio, con una percentuale del 74% riservata alle competenze fisse ed accessorie a favore di tutto il personale. In particolare, per i capitoli relativi al trattamento economico del personale di magistratura si rileva uno stanziamento invariato rispetto a quello del precedente esercizio».

La spesa per gli stipendi e il personale, dunque, resta «incomprimibile». Il totale previsto per questa voce, nel 2015, è di 236 milioni di euro. I vertici hanno subito il taglio della retribuzione al tetto di 240mila euro fissato dal governo. Così, se fino al 30 aprile 2014 al presidente della Corte andavano 311mila euro, ora lo stipendio, al netto di contributi previdenziali e assistenziali, è solo di 227mila euro. Tra i 150mila e i 200mila sono gli altri incarichi di vertice, mentre ai dirigenti vanno dai 70mila ai 135mila. Tra le spese del segretariato generale, «missione tutela delle finanze pubbliche», si trovano 140mila euro per «erogazione dei buoni pasto al personale di magistratura», 475mila euro come «indennità di rimborso spese di trasporto al personale di magistratura per trasferimenti nel territorio nazionale», 84mila per quelle all’estero, 76mila euro per «acquisto mobili e arredi», e 26 milioni complessivi come «retribuzioni corrisposte al personale di magistratura». I quali magistrati, poi, sono spesso impegnati fuori, con incarichi esterni. Il prospetto relativo al primo semestre 2014 conta 76 dipendenti, non solo magistrati, autorizzati a svolgere una funzione in un altro ente pubblico. Comuni, regioni, ministeri, Asl. Dove vengono chiamati a svolgere funzioni apicali. Come il consigliere Luigi Caso, che al ministero del Lavoro ricopre il ruolo di Capo di Gabinetto, o il consigliere Francesco Alfonso, capo dell’Ufficio del consigliere giuridico al ministero dell’Economia; o come i vari magistrati nei consigli di revisori o organismi di controllo di enti pubblici. Cioè proprio quella pubblica amministrazione verso cui la Corte dei conti lancia i suoi ripetuti (e sacrosanti) strali.

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

La Corte dei Conti: così le regioni truccano i conti

Federico Fubini e Roberto Mania – La Repubblica

Prestiti dal Tesoro non regolarmente iscritti fra debiti, in Piemonte. Cessioni di immobili della Liguria che risultano partite di giro in grado di arricchire, grazie alle commissioni, solo la Cassa di Risparmio di Genova. “Discrasie” che impediscono alla Corte dei conti di “parificare” (cioè dichiarare credibile) il bilancio della Campania. POI le spese non coperte della Sardegna, i controlli inesistenti della Calabria, le leggi senza relazione tecnica della Sicilia, gli aumenti di capitale delle società termali della Toscana, le spese non giustificate dei presidenti in Trentino-Alto Adige, i 1.600 dipendenti fuori bilancio del Friuli. Non c’è quasi Regione che ne esca indenne. Da quest’anno la Corte dei Conti ha il potere di controllare e certificare i conti dei governatori, grazie a una norma dell’ottobre 2012. E da qualche mese nelle relazioni della Corte stanno venendo alla luce centinaia di trucchi e imbellettature che a volte sconfinano nella falsificazione dei bilanci.

L’esercizio della magistratura contabile è di quelli condotti al di sotto dei radar, senza clamori. È un’operazione fra le più ardue perché – miracolo del federalismo all’italiana – ogni Regione d’Italia scrive il bilancio in base a regole che si è scelta da sola. Nell’ultimo decennio quasi nessuna si era mai dovuta assoggettare a un controllo esterno. Ora però sta succedendo mentre si avvicina una legge di Stabilità che taglia 4 miliardi alle Regioni stesse. E da un esame delle carte della Corte emerge che in molti casi i tagli e la pulizia di bilancio saranno durissimi.

Fra i casi più controversi c’è il Piemonte, dove la magistratura contabile ha negato la “parifica”, cioè la certificazione, di parte del bilancio. Una relazione della Corte dell’11 luglio parla di “dubbi sulla corretta iscrizione a bilancio della anticipazioni”, cioè di oltre due miliardi di euro prestati dal Tesoro nel 2013 per pagare gli arretrati alle imprese fornitrici della sanità. La Corte nota che il Piemonte nel 2012 “ha finanziato con le risorse ricevute dei debiti diversi”, e “passività pregresse extra bilancio”. L’accusa sarebbe dunque duplice: la giunta ha preso un prestito dal Tesoro per saldare le imprese creditrici, ma ha usato quei soldi per altre spese; in più, ha cancellato dal bilancio i debiti verso i fornitori già pagati, ma non ha iscritto i prestiti del Tesoro come nuovo debito. Se lo facesse uno Stato europeo, sarebbe un caso politico dirompente a Bruxelles e a Francoforte.

Ancora più drastico il giudizio sulla Campania, relativo al bilancio 2012. La Corte nega in blocco la parifica. “La Procura Regionale – si legge nella requisitoria del giudice – condivide le osservazioni attinenti alla mera regolarità contabile formulate dalla Sezione di controllo”. Poche parole burocratiche ma devastanti, a fronte di un bilancio da 16,8 miliardi con un deficit di 1,7 miliardi. La giunta ha fatto ricorso e per ora ha ottenuto il ritiro del giudizio della Corte dei Conti, ma questa resta un’amministrazione “vicina al default”.

Molto duro poi anche il giudizio sulla Liguria, dove la Corte nega il timbro su 91 milioni di “residui attivi” (crediti presunti ma in realtà inesigibili), su 103 milioni di cessioni di immobili e su 17,5 milioni di operazioni in derivati con la banca americana Merrill Lynch. L’amministrazione ligure presenta in realtà anche problemi più piccoli ma quasi grotteschi. Primo fra tutti, un bonus fino al 20% della paga in più dato ai direttori delle Aziende sanitarie. La Corte parla di “stortura”, perché l’obiettivo di produzione del premio di produzione 2013 ai dirigenti Asl viene fissato un mese prima della fine dell’anno stesso a un livello molto vicino: impossibile mancarlo, a quel punto. “Una scelta del tutto irrispettosa dei principi di efficienza”, dice il magistrato. Ancora peggio la presunta “cessione” per 103 milioni di immobili della Regione a Arte, un ente strumentale della Regione e con i soldi sempre della Regione transitati da un conto di Carige: certificazione negata.

Assai seri anche i problemi del Veneto, anch’esso a rischio bocciatura: la requisitoria del magistrato parla di “errori” di contabilizzazione dell’indebitamento e “rappresentazioni contabili scorrette”. Ma pure le giunte che passano l’esame non ne escono bene. Nelle provincie autonome di Trento e di Bolzano spese “di rappresentanza” dei due presidenti per decine di migliaia di euro non hanno giustificativi ritenuti credibili. In Toscana nel 2013 emerge uno scostamento al rialzo addirittura del 75% delle spese fra preventivo e consuntivo, da quota 10,4 miliardi fino a 18,4 miliardi. La giunta, invece di privatizzare, si è addirittura spinta a salire nel capitale della società Terme di Chianciano e in Fidi Toscana, una finanziaria in perdita che ha partecipazioni in tutto: dai caseifici della Maremma agli allevamenti ittici. Quanto al Friuli-Venezia Giulia, la Corte mostra che presenta 2.800 dipendenti, ma altri 1.700 lavorano per la stessa Regione, fuori bilancio, in un “sistema satellitare composto da enti, agenzie, aziende, società, enti funzionali”.

Insomma, credevamo che il fiscal compact ci avesse cambiato la vita. Fine della finanza pubblica allegra, nessuno sforamento se non in casi eccezionali. Le Regioni italiane, però, senza troppo clamore, vivono in un’altra epoca. Violando le regole dell’Unione, quelle del Parlamento nazionale, quelle del buon senso come quelle, infine, delle “più elementari regole contabili “, come ha scritto la Corte dei Conti nella relazione al bilancio della Sardegna. Già perché da quelle parti, ma non solo da quelle parti, si è davvero esagerato. Come nel 2010 e nel 2011 anche nel 2013 si è ricorso all’esercizio provvisorio. Il bilancio 2013 è stato approvato a maggio. Ma nel frattempo i legislatori sardi hanno approvato leggi senza alcuna copertura finanziaria, rinviando, per le coperture, proprio alla legge di bilancio che sarebbe arrivata dopo.

Pensate se un simile schema fosse adottato da un governo nazionale nei confronti di Bruxelles: prima spendo poi troverò le coperture. I giudici contabili parlano di una situazione “particolarmente grave”, di una situazione di “irregolarità complessiva”. E irregolarità per irregolarità, la regione Sardegna ha continuato a trasferire risorse alle partecipate, spesso senza che queste abbiamo un regolare contratto di servizio e spesso nonostante siano in perdita. Trasferimento, in quest’ultimo caso, in violazione della legge. C’è pure il caso della Fluorite di Silius (manutenzione e bonifica delle strutture minerarie) finita in liquidazione dal 2009. Bene, nel 2013 la Fluorite ha aumentato la propria spesa per il personale passando da poco più di tre milioni a 3,7 milioni. Si può? Certo che no. E la legge stabilisce che spetti proprio all’amministrazione regionale controllante il compito di contenere le voci della spesa corrente. Ma questa è una società partecipata da una Regione per di più a statuto speciale. Regione che non controlla nulla, non le partecipate, ma nemmeno i suoi assessorati. Hanno scritto i giudici della Corte dei Conti: “Si è potuto riscontrare che la Regione non esercita alcun controllo, in termini di semplice conoscenza, su aspetti essenziali ai fini dell’esercizio dei propri compiti gestionali e della propria programmazione finanziaria “. Regioni come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo.

In Sicilia solo la metà delle leggi presentate dalla giunta sono accompagnate dalla relazione tecnica. “Ciò – scrivono i giudici contabili – non consente l’emersione di oneri che potrebbero rimanere occulti “. D’altra parte siamo nella regione in cui ci sono ancora pensionati con l’assegno calcolato sull’ultima retribuzione tanto che dal 2009 al 2013 la spesa previdenziale è cresciuta dell’8%. L’89% delle risorse va a spesa corrente il che pone “a serio rischio, per il futuro, il mantenimento dei necessari equilibri di bilancio”, scrive la Corte.

Andiamo in Calabria. Qui i debiti fuori bilancio sono diventati la norma, non l’eccezione. Nell’esercizio del 2013 sono stati riconosciuti oltre 2,3 milioni di debiti senza copertura ai quali aggiungere 24,5 milioni di debiti “da riconoscere ” già pagati a seguito di pignoramenti senza però copertura. In totale quasi 27 milioni di debiti scoperti. “L’esistenza di debiti senza copertura finanziaria condiziona pesantemente gli equilibri finanziari della Regione, in piena continuità ed assonanza con la deleteria prassi di procedere al riconoscimento di debiti fuori bilancio per somme sempre più ingenti”. Ma quando si arriva a pagina 55 del Giudizio sulla Calabria si rischia di rimanere allibiti: “La Regione non solo non è dotata di strumenti e sistemi atti a garantire in termini di cassa il rispetto dei vincoli tra entrate e spese, ma non è oggettivamente nelle condizioni di conoscere le proprie disponibilità di cassa vincolata dell’anno, né quelle per le quali occorrerebbe provvedere alla ricostituzione. Tale situazione costituisce violazione del principio di trasparenza ed è certamente foriera di una grave situazione di squilibrio della gestione vincolata della cassa regionale”. E anche di quelle statali, aggiungiamo noi.

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Nei labirinti del 5 per mille si perde anche la Corte dei Conti

Valentina Melis – Il Sole 24 Ore

Il cinque per mille ha portato in dote al mondo del non profit tre miliardi e mezzo di euro, dal 2006 a oggi. Sulla destinazione dei fondi, però, la Corte dei conti adesso vuole vederci chiaro. I beneficiari, ormai, sono quasi 50mila, dagli enti di ricerca alle associazioni sportive dilettantistiche, e si contendono le firme degli italiani sulla dichiarazione dei redditi a colpi di pubblicità, newsletter e altre iniziative.

Ma le scelte dei contribuenti sono veramente “libere”, come prevedono le regole? Perché non tutti gli enti rendono pubblica la gestione degli incassi? E non sarebbe forse il caso di selezionare in maniera più rigorosa i potenziali beneficiari? Se lo chiedono anche i magistrati contabili, che hanno preso carta e penna e hanno scritto a sette ministeri, alle Entrate, al Coni, agli Ordini dei commercialisti e dei consulenti del lavoro e alla Consulta dei Caf, per chiedere quali iniziative metteranno in campo per una maggiore trasparenza.

La Corte dei conti dice che sì, semplificare le farraginose procedure del cinque per mille sarebbe opportuno, ma anche imporre alle organizzazioni l’obbligo di pubblicare i bilanci, usando «schemi chiari, trasparenti e di facile comprensione». E qui sta il primo nodo. Accanto a grandi organizzazioni, come l’Airc, Emergency, l’Associazione italiana contro le leucemie (solo per citarne alcune), che sul proprio sito spiegano come hanno speso i soldi assegnati dai contribuenti, ce ne sono altre, anche nelle prime posizioni della classifica, che non pubblicano un numero.

In effetti, mettere in rete il rendiconto non è obbligatorio: il documento deve essere mandato ai ministeri che erogano il contributo solo dagli enti che incassano più di 20mila euro. Ma questo passaggio rischia di essere solo formale, senza alcuna informazione chiara per i contribuenti che hanno premiato un’organizzazione con la propria firma.
La scelta, poi, dovrebbe essere libera, ma secondo la Corte dei conti non sempre lo è. Nella sua lettera ai ministeri, la Corte sottolinea che «risulterebbe assai utile un’attività di audit dell’agenzia delle Entrate sul comportamento degli intermediari, allo scopo di individuare eventuali scorrettezze».

La Corte evidenzia inoltre il «potenziale conflitto di interesse con gli optanti» da parte di quelle realtà che gestiscono direttamente una rete di Caf (come le Acli e il Movimento cristiano dei lavoratori) o di quelle associazioni «che possono fruire dei Caf dei sindacati di cui sono emanazione». E qui i magistrati contabili citano gli esempi della Cgil (Auser e Federconsumatori) e della Cisl (Adiconsum e Iscos). Alcuni di questi soggetti si piazzano da sempre in ottime posizioni della classifica per fondi ricevuti, ma questo ovviamente non dimostra niente di illecito: piuttosto, è la prova che le regole attuali tendono a favorire i soggetti più grandi (per numero di uffici, risorse da investire in pubblicità e così via).

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. La Federazione nazionale agricoltura, in una comunicazione ufficiale inviata dal segretario generale Cosimo Nesci ai dirigenti del sindacato, ai responsabili del patronato Epas – presieduto dal figlio Denis Nesci – e ai responsabili dei centri di raccolta Caf Italia Srl (legati alla stessa Fna), garantisce che riconoscerà un euro in più di rimborso per ciascun modello 730 «riportante l’adesione volontaria del contribuente del 5 per mille a favore della Assipromos». Quest’ultima è un’associazione di promozione sociale che ha come unica fonte di finanziamento il cinque per mille, ed è nata nel 2007, l’anno successivo all’introduzione del contributo. L’Assipromos ha visto crescere continuamente i fondi assegnati dai contribuenti, passando da 154mila euro del 2007 a 1,5 milioni del 2012.

Tra le migliaia di organizzazioni del “volontariato” presenti negli elenchi, si piazza al quindicesimo posto. In tutto, contando anche la tranche 2012 (non ancora versata, ma attribuita dall’agenzia delle Entrate), l’Assipromos ha ottenuto 4,4 milioni. Ma come è stato speso questo robusto finanziamento? Sul sito dell’associazione, alla pagina «iniziative», ci sono solo due progetti: il bando «Crea il tuo futuro», uno stage di sei mesi per 50 ragazzi presso la stessa associazione (con un rimborso spese di 400 euro al mese), che si è concluso pochi giorni fa, e un corso di italiano per stranieri.

Dai rendiconti inviati al ministero del Lavoro, risulta che l’Assipromos ha acquistato un immobile a Roma, in via Falcognana, per 1.350.000 euro, con l’obiettivo di creare una «casa di riposo a prevalente accoglienza alberghiera». Obiettivo però non raggiunto, perché, secondo il Comune di Roma, l’immobile non è adatto a questo utilizzo. L’Assipromos ha dunque sottoscritto un preliminare d’acquisto per un altro immobile, sempre a Roma, in via Omboni, con lo scopo di creare una piscina per persone disabili e uno studio medico riservato a pazienti che si trovino in disagio economico. «Vorrei sottolineare – precisa la presidente di Assipromos Maria Mamone (subentrata nel ruolo a settembre 2013 allo stesso Cosimo Nesci) – che neanche un euro è stato utilizzato per versare un’indennità al presidente o ai consiglieri dell’associazione, e che tutti i fondi del cinque per mille sono impiegati per progetti sociali».

Passando all’elenco degli enti di ricerca scientifica, non mancano altre sorprese. L’Università telematica «Pegaso» di Napoli si piazza all’undicesimo posto, sorpassando tutti gli atenei pubblici e privati d’Italia, escluso il Politecnico di Milano. Per il 2012, grazie alla scelta di 224mila contribuenti, la Pegaso incasserà 421.895 euro, il 380% in più rispetto all’anno prima, quando il contributo era stato di 108.435 euro. Qual è il segreto di un simile balzo in avanti?
Un aiuto potrebbe essere arrivato da decine di convenzioni sottoscritte dall’Università Pegaso con Ordini professionali e con i sindacati sul territorio, anche se – precisa il direttore generale dell’ateneo online Elio Pariota – queste convenzioni nulla hanno a che vedere con il cinque per mille, ma solo con la formazione».
Nella sua lettera, la Corte dei conti cita esplicitamente un altro esempio: l’intesa tra il centro di ricerca Biogem di Ariano Irpino e l’Ordine dei dottori commercialisti di Avellino. Il presidente di Biogem, Ortensio Zecchino, ha dichiarato (come riporta la stessa Corte): «Ci rivolgiamo ai commercialisti perché hanno una grande forza di orientamento». Con buona pace della libertà di scelta.