fallimenti imprese

In Italia, ogni giorno, 53 imprese messe Ko dalla crisi

In Italia, ogni giorno, 53 imprese messe Ko dalla crisi

di Elena Barlozzari – Ilgiornale.it

Entro la fine dell’anno saranno quasi 114mila le imprese dello Stivale messe ko dalla crisi. Non si tratta di un’oscura profezia, bensì di un dato reale, fotografato in tutta la sua ineluttabile drammaticità da una ricerca condotta dal Centro Studi ImpresaLavoro.

Il think tank presieduto da Massimo Blasoni si è preso la briga di rielaborare i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenziando uno scenario a dir poco fosco: “Rispetto a 8 anni fa i fallimenti in Italia sono cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016”. In questo ambito il nostro Paese detiene un primato assoluto. Tra le altre grandi economie monitorate dall’OCSE, infatti, “solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009” ma le proporzioni del fenomeno sono “decisamente più limitate rispetto all’Italia”.

In tutti gli altri Paesi, invece, il numero di aziende fallite è inferiore a quello di 8 anni fa. “Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%)”. Tornando all’Italia, il ritmo dei fallimenti è impressionante. Nel Belpaese assistiamo ad uno stillicidio quotidiano: le imprese strozzate dai debiti e costrette a chiudere per insolvenza sono 53 ogni giorno.

A mitigare il quadro tracciato dall’indagine sono alcuni segnali confortanti, quelli relativi ai primi tre trimestri di quest’anno, che confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto al 2016. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro “alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività)”. Siamo però ancora troppo distanti dal traguardo, ossia dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009.

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

di Claudio Antonelli – La Verità

Nell’arco delle 24 ore in cui questa edizione sarà valida, in Italia avranno chiuso per insolvenza 57 aziende. È la media aritmetica dei fallimenti registrati. Un numero spaventoso che se viene spalmato dal 2009 a oggi arriva a contare 6 cifre. Se continua cosi chiuderemo, infatti, l’anno con 100.000 imprese finite a gambe all’aria.

I conti li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, presieduto da Massimo Blasoni, e definiscono un Paese in profonda crisi. Rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, società di servizi per la gestione del credito, appare chiaro come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di crac superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto alle nostre. Tutti le altre nazioni segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le imprese costrette a chiudere per insolvenza sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). Idem per la Finlandia, il Belgio e la Svezia.

Lo stupore di fronte a tale mortalità dovrebbe però lasciare spazio alla consapevolezza che la nazione che ci ospita è fondamentalmente avversa all’imprenditoria privata. Statalisti nel Dna, i politici che guidano il Paese sono molto restii a ridurre il perimetro della burocrazia e dello Stato. Qui sta il male originario di tutti i problemi e i gravami che cadono sulla testa di chi investe i propri capitali. Lo straripamento della spesa pubblica non genera solo una pressione scale abnorme, che obbliga un’azienda a versare allo Stato non meno di 55 centesimi per ogni euro incassato (arrivano a essere 68 se si aggiungono altri oneri o imposte), ma produce una lunga serie aggiuntiva dí tasse occulte. Sono scartoffie, corsi obbligatori per il personale, certificazioni vissute non come una tutela ma una vera e propria vessazione.

Un artigiano che lavora l’intera settimana senza pause può essere costretto a sborsare 160 euro + Iva per un certificato contro lo stress da lavoro correlato. Chi si occupa di autotrasporto sa che le norme nazionali o regionali sono un labirinto che finisce immancabilmente con un prelievo dal portafogli. Un’azienda che si occupa di impianti termoidraulici e magari ha 5 dipendenti nell’arco di cinque anni avrà finito con lo spendere 4.000 euro per la formazione professionale e oltre 250 ore sottratte alla produttività. In molti si chiedono a che servano i corsi di primo soccorso, se poi nessuno si azzarda a intervenire per timore che arrivi una denuncia penale e si finisca con l’essere processati. Così si chiama sempre il 118. Eppure se il titolare non si mette in regola (serve almeno un dipendente formato) scattano le sanzioni e persino le multe.

Da tenere nel cassetto ci sono anche le certificazioni sul rumore (300 euro + Iva) e il documento per la valutazione dei rischi che ovviamente passa per le mani di un professionista e non costa meno di 380 euro, sempre Iva esclusa. E questa è solo una veloce carrellata che rende l’idea di come la burocrazia appesantisca un’impresa quasi più della pressione fiscale. Certo, un giovane che si mette a fare l’imprenditore capisce subito che dovrebbe trasferirsi altrove. Per avviare un’impresa servono almeno nove procedure e si può arrivare ad attendere 36 mesi per avere tutte le carte in regola. E ci sarà un motivo se le persone pagano più per timore delle multe che per reale convinzione: perché spesso gli adempimenti servono a giustificare l’esistenza di chi li ha inventati.

Ovviamente queste «rogne» riguardano solo le attività che sono in salute. Le altre devono affrontare la rigidità dei finanziamenti, la crisi del credito e alla fine la voragine della giustizia civile. Il primo motivo per cui gli stranieri sono restii a investire in Italia. Nel complesso, l’ambiente è ostile alle aziende. Non è odio. È solo aridità. Come vivere nel deserto se si è una pianta di mele: molto difficile. Non a caso tutte le statistiche internazionali ci dipingono come una nazione del Terzo mondo. Ultimo in ordine di tempo è il Global Competitiveness Index. L’Italia si è piazzata al 44° posto (43° nel 2015) preceduta, tra gli altri, da Islanda 29°, Malesia, Azerbaigian, Federazione Russa e Spagna (33°). L’efficienza del mercato del lavoro è al numero 119 su 138 in classifica. L’efficienza delle istituzioni è al numero 103 e la trasparenza del mercato finanziario al 122° posto. Per innovazione tecnologica ritorniamo nella parte alta della classifica. Come ci riusciamo, con tutte le zavorre, non si sa. Deve essere lo stesso mistero che permette all’Italia di svegliarsi ogni mattina. E ripartire dai fallimenti.

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sempre più difficile fare impresa in Italia. I segnali di ripresa, se ci sono, si traducono in un lieve rallentamento della strage di imprese iniziata già da anni e mai interrotta. Con buona pace di chi ancora vede segnali positivi e incoraggianti. Il Centro Studi ImpresaLavoro ha messo in fila i dati sui fallimenti degli ultimi sei anni. Dal 2009 a oggi sono fallite 95mila imprese e alla fine del 2016 si prevede avranno chiuso i battenti 100mila. Il ritmo è impressionante: in Italia chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo. Fallimenti veri, non un dato fisiologico, rileva il centro studi diretto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

ImpresaLavoro, basandosi su dati provenienti dall’Ocse, evidenzia come i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42% rispetto a sei anni fa, cioè da quando è iniziata la crisi mondiale. Sono passati dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia.

In altre parole il problema dell’Italia non è la crisi della finanza mondiale. Semmai i mercati in tempesta dal 2009 ad oggi, hanno fatto emergere la debolezza del Paese. E l’incapacità della politica a dare risposte ai problemi delle imprese. In tutti gli altri Paesi, c’è infatti stato un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono calate in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). L’unico sollievo per l’Italia è un lieve rallentamento dei fallimenti nei primi due trimestri di quest’anno rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro, alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Un po’ di ottimismo è d’obbligo, ma il problema è che l’Italia resta lontanissima dai livelli pre-crisi (nel 2009 i fallimenti furono 9.384) ed è sempre più distante dagli altri Paesi europei. La soluzione secondo Blasoni, imprenditore del Nord Est, sono le riforme. «La ripresa del ciclo economico dipende dalla salute delle imprese. Occorrono politiche volte a ridurre il macigno della burocrazia e il peso delle tasse». Altrimenti il rischio è quello di «un ulteriore incremento del numero dei fallimenti».

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Alla fine di quest’anno la crisi avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti dall’Ocse, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015.

Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi a oggi sono fallite nel nostro Paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.