Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno
di Claudio Antonelli – La Verità
Nell’arco delle 24 ore in cui questa edizione sarà valida, in Italia avranno chiuso per insolvenza 57 aziende. È la media aritmetica dei fallimenti registrati. Un numero spaventoso che se viene spalmato dal 2009 a oggi arriva a contare 6 cifre. Se continua cosi chiuderemo, infatti, l’anno con 100.000 imprese finite a gambe all’aria.
I conti li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, presieduto da Massimo Blasoni, e definiscono un Paese in profonda crisi. Rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, società di servizi per la gestione del credito, appare chiaro come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di crac superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto alle nostre. Tutti le altre nazioni segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le imprese costrette a chiudere per insolvenza sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). Idem per la Finlandia, il Belgio e la Svezia.
Lo stupore di fronte a tale mortalità dovrebbe però lasciare spazio alla consapevolezza che la nazione che ci ospita è fondamentalmente avversa all’imprenditoria privata. Statalisti nel Dna, i politici che guidano il Paese sono molto restii a ridurre il perimetro della burocrazia e dello Stato. Qui sta il male originario di tutti i problemi e i gravami che cadono sulla testa di chi investe i propri capitali. Lo straripamento della spesa pubblica non genera solo una pressione scale abnorme, che obbliga un’azienda a versare allo Stato non meno di 55 centesimi per ogni euro incassato (arrivano a essere 68 se si aggiungono altri oneri o imposte), ma produce una lunga serie aggiuntiva dí tasse occulte. Sono scartoffie, corsi obbligatori per il personale, certificazioni vissute non come una tutela ma una vera e propria vessazione.
Un artigiano che lavora l’intera settimana senza pause può essere costretto a sborsare 160 euro + Iva per un certificato contro lo stress da lavoro correlato. Chi si occupa di autotrasporto sa che le norme nazionali o regionali sono un labirinto che finisce immancabilmente con un prelievo dal portafogli. Un’azienda che si occupa di impianti termoidraulici e magari ha 5 dipendenti nell’arco di cinque anni avrà finito con lo spendere 4.000 euro per la formazione professionale e oltre 250 ore sottratte alla produttività. In molti si chiedono a che servano i corsi di primo soccorso, se poi nessuno si azzarda a intervenire per timore che arrivi una denuncia penale e si finisca con l’essere processati. Così si chiama sempre il 118. Eppure se il titolare non si mette in regola (serve almeno un dipendente formato) scattano le sanzioni e persino le multe.
Da tenere nel cassetto ci sono anche le certificazioni sul rumore (300 euro + Iva) e il documento per la valutazione dei rischi che ovviamente passa per le mani di un professionista e non costa meno di 380 euro, sempre Iva esclusa. E questa è solo una veloce carrellata che rende l’idea di come la burocrazia appesantisca un’impresa quasi più della pressione fiscale. Certo, un giovane che si mette a fare l’imprenditore capisce subito che dovrebbe trasferirsi altrove. Per avviare un’impresa servono almeno nove procedure e si può arrivare ad attendere 36 mesi per avere tutte le carte in regola. E ci sarà un motivo se le persone pagano più per timore delle multe che per reale convinzione: perché spesso gli adempimenti servono a giustificare l’esistenza di chi li ha inventati.
Ovviamente queste «rogne» riguardano solo le attività che sono in salute. Le altre devono affrontare la rigidità dei finanziamenti, la crisi del credito e alla fine la voragine della giustizia civile. Il primo motivo per cui gli stranieri sono restii a investire in Italia. Nel complesso, l’ambiente è ostile alle aziende. Non è odio. È solo aridità. Come vivere nel deserto se si è una pianta di mele: molto difficile. Non a caso tutte le statistiche internazionali ci dipingono come una nazione del Terzo mondo. Ultimo in ordine di tempo è il Global Competitiveness Index. L’Italia si è piazzata al 44° posto (43° nel 2015) preceduta, tra gli altri, da Islanda 29°, Malesia, Azerbaigian, Federazione Russa e Spagna (33°). L’efficienza del mercato del lavoro è al numero 119 su 138 in classifica. L’efficienza delle istituzioni è al numero 103 e la trasparenza del mercato finanziario al 122° posto. Per innovazione tecnologica ritorniamo nella parte alta della classifica. Come ci riusciamo, con tutte le zavorre, non si sa. Deve essere lo stesso mistero che permette all’Italia di svegliarsi ogni mattina. E ripartire dai fallimenti.