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Il boom della finanza questa volta è sociale

Il boom della finanza questa volta è sociale

Andrea Di Turi – Avvenire

Una crescita in doppia cifra di questi tempi è cosa piuttosto rara. Ma non per la finanza socialmente responsabile (Sri), più nota come finanza etica, che dimostra ancora una volta la sua capacità di “contaminare” i mercati finanziari guardando alle performance non solo economiche ma anche sociali e ambientali degli investimenti.

I numeri presentati ieri da Eurosif, l’organizzazione dei forum nazionali europei che promuovono la finanza Sri (per l’Italia il Forum per la finanza sostenibile), parlano da soli. Tra il 2011 e il 2013, nei 13 Paesi europei considerati dallo studio, si è assistito a una crescita in doppia cifra per tutte le modalità d’investimento riconducibili allo Sri. E tutte hanno fatto meglio, in termini di performance, del settore del risparmio gestito complessivamente considerato a livello continentale.

In particolare, secondo lo studio, che è stato realizzato grazie al contributo di realtà come Edmond de Rothschild asset management o Generali Investments Europe, a registrare un vero e proprio boom è stato il settore degli impact investing, gli investimenti che ricercano allo stesso tempo un rendimento accettabile e un impatto sociale (ad esempio garantire l’accesso a beni e servizi essenziali alle fasce svantaggiate della popolazione nei Paesi in via di sviluppo), sulla cui importanza si è soffermato di recente lo stesso Papa Francesco: l’impact investing, infatti, è la strategia di investimento socialmente responsabile che è cresciuta di più (+132%), tanto che si stima che il mercato europeo valga circa 20 miliardi di euro. Ed è un mercato in cui, dopo Olanda e Svizzera che insieme valgono i due terzi (il 50% dell’impact investing in Europa è rappresentato dalla microfinanza), l’Italia è ben posizionata, insieme a Gran Bretagna e Germania.

Notevole anche la crescita delle strategie di investimento responsabile dette di esclusione (o negative), che cioè escludono dall’universo investibile singole società quotate o interi settori considerati eticamente discutibili o quanto meno controversi: un caso tipico è quello degli investimenti in società che producono cluster bomb (bombe a grappolo) e mine anti-uomo, che in alcuni Paesi (ad esempio in Belgio) sono stati addirittura vietati per legge. Gli asset soggetti a criteri di esclusione sono cresciuti del 91%, a quasi 7 trilioni di euro (7mila miliardi di euro), cioè oltre il 40% degli asset gestiti complessivamente a livello europeo, e costituiscono oggi la modalità di investimento Sri più diffusa in Europa.

È ancora l’Italia, poi, a distinguersi in relazione alle pratiche di “engagement”, ossia di dialogo tra investitori e imprese su temi sociali e ambientali, che può sfociare nel voto in assemblea: l’engagement interessa 3,3 trilioni di euro di asset, è cresciuto dell’86% in Europa ma più di tutti è cresciuto in Italia, dov’è quasi raddoppiato (+193%) rispetto a due anni fa. Gli investitori etici italiani stanno dunque diventando anche investitori “attivi”? Forse. Di certo sarà uno degli argomenti della terza Settimana italiana dell’investimento sostenibile, in programma dal 4 al 12 novembre.

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

In cinque anni pagheremo oltre 45 miliardi di tasse in più

Il Giornale

«Oltre 45 miliardi di euro di tasse in più in cinque anni. Le entrate tributarie nel nostro Paese correranno molto più del Pil e aumenteranno, complessivamente, tra il 2014 e il 2018, di 45,7 miliardi di euro». La previsione deriva dal rapporto del Centro studio di Unimpresa, basato sulla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Il gettito raggiungerà quota 487,5 miliardi alla fine di quest’anno e crescerà costantemente, negli anni successivi, fino a raggiungere i 531,6 miliardi del 2018.

Già dalla fine di quest’anno, infatti, lo Stato incasserà 1,6 miliardi in più da imprese e famiglie, «un incremento lieve – sottolinea Unimpresa – lo 0,34% in più, ma che va nella direzione opposta rispetto all’andamento dell’economia, prevista in calo dello 0,3% secondo il Def approvato dal governo». Una doppia velocità che si registra costantemente anche nelle previsioni degli anni successivi. Nel 2015 tasse in crescita dell’1,27%, mentre il Pil dovrebbe salire solo dello 0,5%; nel 2016 rispettivamente tasse +2,68% e Pil +0,8%; nel 2017 gettito tributario in aumento del 2,19% e prodotto interno lordo in crescita dell’1,1%. Chiude il conto il 2018, quando le tasse saranno in aumento del 2,42%,mentre il Pil sarà ben più lento (+1,2%). In tutto, secondo il rapporto, nel quinquennio 2014-2018, le tasse pagate dai contribuenti in Italia arriverebbero a toccare 2.540,1 miliardi di euro.

«Ci sentiamo presi in giro, come imprenditori e come cittadini» afferma il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. «Si è perso tempo – aggiunge – avevamo segnalato subito, dopo la nascita di questo altro esecutivo delle larghe intese, la necessità di intervenire sul fisco: l’alleggerimento dei tributi è cruciale per sperare di portare il Paese fuori dalla recessione». Invece «i dati dimostrano che il dibattito sulle tasse è solo propaganda», commenta Longobardi, il quale conclude: «In questi giorni ascoltiamo esponenti della maggioranza e del governo di Matteo Renzi avanzare ipotesi di abbattimento del cuneo fiscale, ma il peso delle tasse è destinato a salire e le misure varate in questi ultimi mesi non hanno fatto altro che incrementare il carico sulle famiglie e sulle imprese».

Piccole misure senza ambizioni

Piccole misure senza ambizioni

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Il governo sta compiendo un errore che potrebbe costarci un altro anno (sarebbe il quarto consecutivo) di crescita negativa con conseguente, ulteriore aumento della disoccupazione. Nessun Paese industriale, almeno negli ultimi 70 anni, ha avuto una recessione tanto lunga. Se non cresciamo, il debito (già al 131,6% del Pil ) rischia di diventare insostenibile, almeno nella percezione degli investitori internazionali, che ne detengono oltre 600 miliardi. Se non ricominciamo rapidamente a crescere rischiamo una crisi finanziaria.

La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza pubblicata dal governo la scorsa settimana assume che la crescita miracolosamente aumenti di quasi un punto: dal -0,3 previsto per il 2014 a +0,6 nel 2015. L’Ocse invece prevede un misero +0,1. Da dove verrà quel mezzo punto di crescita in più? Previsioni ottimistiche sono un vecchio trucco per fare apparire più roseo il bilancio. Se la crescita non dovesse raggiungere il livello previsto dal governo anche l’obiettivo di un deficit inferiore al 3% verrebbe mancato, salvo una correzione dei conti in corso d’anno che in parole semplici vuol dire un aumento di imposte. E comunque il ministro Padoan ha detto che già nella legge di Stabilità gli ammortizzatori sociali «saranno coperti dalla spending review e da alcune misure di efficientamento delle entrate». Ecco come si sta sotto il 3%: con un aumento della pressione fiscale!

Deve essere chiaro che c’è un solo modo per sperare di poter riprendere a crescere: ridurre la pressione fiscale. Abbassare le tasse sul lavoro pagate dalle imprese italiane al livello di quelle tedesche significa tagliarle di 40 miliardi. Tagliare immediatamente le spese di una cifra corrispondente non è possibile perché per ridurre la spesa serve tempo. Se solo si fosse cominciato prima! Nei prossimi due, tre anni quindi supereremmo la soglia del 3%. Se sforiamo, entreremmo nella procedura prevista per chi viola le regole europee, ma senza effetti significativi se già avessimo approvato un programma vincolante di tagli alla spesa e varato per decreto una riforma seria del mercato del lavoro. È ciò che fece la Germania nel 2003 quando Schröder varò la sua riforma del lavoro. La Francia ha annunciato per il 2015 un deficit del 4,3%, ma finora Hollande non ha fatto alcuna riforma significativa.

Certo, è più facile per il ministro dell’Economia fare poco o nulla cercando di resistere sotto il 3%, magari con un aumento mascherato della pressione fiscale, e farsi applaudire nei consigli europei. Un piano complesso e innovativo di tagli di tasse, riduzioni di spesa e riforme richiederebbe un massiccio investimento di credibilità politica. Ma è l’unica via per salvare il governo di Matteo Renzi e, ciò che è più importante, l’Italia.

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Nota di aggiornamento del Def deludente nelle proposte: urge delineare una strategia alternativa. Ecco quale

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014, approvata dal Consiglio dei Ministri del 30 settembre, è stata diffusa in sintesi (nove pagine essenzialmente di diapositive per la illustrazione alla stampa) il primo ottobre e posta (nel suo testo integrale di circa 135 pagine) sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Occorre dare atto che il documento non solo è presentato in modo pregevole ma aiuta il lettore differenziando graficamente le misure ‘in itinere’ da quelle che rappresentano un ‘focus’ per le decisioni di politica economica. La Nota sarà in gran misura la base della legge di stabilità e questo commento riguarda due suoi aspetti:
a) l’analisi della situazione attuale con pertinenti previsioni a medio termine;
b) le indicazioni di politica economica che se ne possono ricavare.
L’analisi della situazione attuale corrisponde, in linea di massima, a quella delle principali organizzazioni internazionali (Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, OCSE), dei 20 principali istituti internazionali privati di previsioni macro-economiche e dei maggiori istituti di ricerca italiani (Cer, Irs, Prometeia) operanti in questo campo. In estrema sintesi, siamo al sesto anno di una recessione contrassegnata da leggere indicazioni di ripresa spesso seguite da nuovi tassi di crescita negativa. Un dato che caratterizza l’intera eurozona, anche se presenta aspetti più severi della media in Italia a ragione della fragilità di un tessuto imprenditoriale costituito in gran misura da piccole e medie imprese con elevato tasso di autofinanziamento e difficile accesso al credito.
In materia di analisi del quadro attuale, la critica principale è che non si sottolinea adeguatamente come la situazione dell’eurozona, e in particolare quella dell’Italia, dipenda in larga misura dalla politica economica e monetaria americana. Un fenomeno analogo si è verificato alla fine degli anni Novanta, ai tempi di quella che è stata chiamata ‘la crisi asiatica’. Da allora, i Paesi asiatici si sono, almeno in parte, svincolati dalla politica economica americana applicando politiche di cambio flessibili. All’interno dell’eurozona questo non è né fattibile né concepibile. Tuttavia, in generale l’eurozona potrà leggermente avvantaggiarsi dal leggero riallineamento del cambio tra euro e dollaro. Questo sortirà però effetti asimmetrici tra i vari Paesi dell’area dell’euro a ragione delle differenze in composizione merceologica e direzioni degli scambi totali (importazioni ed esportazioni).
L’Italia, in breve, avrà vantaggio modesti a ragione di un orientamento dell’interscambio fortemente orientato sugli altri Paesi dell’eurozona. La dipendenza dalla politica economica e monetaria americana comporta, comunque, un elemento di incertezza sulle scelte di politica economica europea, e in particolare italiana, di cui la Nota avrebbe avuto tenere maggiore conto delineando una risposta flessibile all’andamento del quadro internazionale (in specie al non inverosimile aumento, nei prossimi mesi, dei tassi d’interesse a medio e lungo termine negli Stati Uniti) e all’accentuarsi di riduzione dei prezzi nel resto dell’eurozona così come all’associato timore di una deflazione che aggravi ulteriormente la situazione dell’economia reale.
Dove la Nota delude è nella parte propositiva poiché non delinea né una strategia differente da quella degli ultimi tre anni (che con un aggravamento della pressione tributaria e contributiva ha accentuato le determinanti interne della recessione e dei segnali di deflazione in Italia) né una tattica che tenga conto degli elementi di incertezza provenienti dal resto del mondo (specialmente dagli Stati Uniti) sino al 30 settembre e da ieri primo ottobre anche dall’interno dell’eurozona (con la decisione della Francia di non considerarsi vincolata al limite del 3% del Pil per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. Non solo. Le principali misure per la crescita sembrano essere un’estensione a una più vasta platea del ‘voucher’ o ‘bonus’ di 30 euro in busta paga da aumentare, per il settore privato, con un ipoteco versamento di parte del Tfr al fine di favorire una crescita dei consumi. Sino ad ora, le analisi anche econometriche rilevano che il ‘voucher’ o ‘bonus’ non ha avuto alcun effetto apprezzabile. L’operazione, peraltro non precisata, relativa al Tfr avrebbe implicazioni disastrose soprattutto per le piccole e medie imprese nonché sulla previdenza integrativa, e i suoi ipotetici impatti sulla domanda aggregata sono quanto meno dubbi.
È urgente delineare una strategia alternativa. Essa deve essere caratterizzata su quello che può essere chiamato ‘uno sgabello’ a tre pilastri:
– una riduzione della pressione fiscale sul lavoro (Iperf) e sull’impresa (Irap) di circa 40 miliardi da attuarsi già nel 2015;
– una riduzione della spesa iniziando dai 20 miliardi individuati dal commissario alla Spending Review Carlo Cottarelli e dalla sua équipe (che includeva la Ragioneria generale dello Stato) nella recente operazione di ‘revisione della spesa’;
– un rilancio degli investimenti pubblici e privati come individuato con grande chiarezza nel rapporto di Chatham House Building Growth in Europe Innovative Financing for Infrastructure datato settembre 2014 , tenendo conto che esiste notevole liquidità, specialmente presso le famiglie, alla ricerca di investimenti di lungo periodo.
Una strategia di questa natura porterebbe a superare, almeno temporaneamente, il vincolo relativo all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil ma avrebbe il vantaggio di riattivare la crescita, facendone diventare l’investimento il suo motore, e di avere un buon grado di flessibilità per rispondere a evoluzioni della politica economica e della situazione americana.
Italia in recessione e senza lavoro

Italia in recessione e senza lavoro

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

L’Italia avrà un deficit pari al 3% del prodotto interno lordo per quest’anno e del 2,9 nel 2015. Che nel 2014 la tanto attesa ripresa dell’economia non fosse possibile, al di là di qualche piccolo segnale positivo, lo ha confermato ieri sera l’aggiornamento del Documento di economia e finanza (Def) 2014-2016, approvato dal Consiglio dei ministri. Del resto le primissime stime dell’Istat diffuse ieri indicavano un dato negativo del Pil anche per il terzo trimestre di quest’anno.

In base alle nuove stime di Palazzo Chigi, il rapporto tra debito e Pil si attesterà al 131,7% nel 2014 e al 133,4 nel 2015: il pareggio strutturale di bilancio slitta così al 2017, un anno in più rispetto alle previsioni del Def illustrate dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan ad aprile. Per quanto riguarda il Pil, il governo Renzi ipotizza nel 2014 un dato negativo (-0,3%), per poi crescere dello 0,6% il prossimo anno grazie «all’impulso positivo della Legge di Stabilità», spiega il ministro Padoan secondo il quale nel Def il tasso di disoccupazione si attesterà al 12,6% nel 2014 e al 12,5% nel 2015.

Altre cattive notizie per l’occupazione vengono dall’Istat che «nonostante qualche segnale positivo», non vede «nel mercato miglioramenti significativi». Preoccupa soprattutto il tasso della disoccupazione giovanile: ad agosto è pari al 44,2% (+ 1% rispetto a luglio e +3,6 nel confronto tendenziale), facendo così registrare il peggior risultato dal 1977. Piccolo segnale positivo arriva dal tasso di disoccupazione generale che ad agosto si attesta sul 12,3%, facendo segnare una piccola diminuzione in termini congiunturali (0,3) e rispetto agli ultimi 12 mesi (0,1): i senza lavoro sono 3 milioni e 134 mila (82 mila in meno rispetto al mese precedente). In pratica ci sono 32 mila occupati in più rispetto a luglio, fa notare il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, e il numero dei disoccupati diminuisce del 2,6%.

Altro indicatore che spinge l’Italia in deflazione è l’indice nazionale dei prezzi al consumo che a settembre diminuisce dello 0,3% rispetto ad agosto e dello 0,1 se lo si paragona a settembre 2013. In questo quadro a dir poco negativo il Cnel definisce «una ipotesi irrealizzabile» una discesa del tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi (7% nel 2007) perché questa operazione «richiederebbe la creazione da qui al 2020 di quasi 2 milioni di posti di lavoro».

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Al direttore – La riunione dei banchieri centrali tenutasi alcuni giorni fa nel Wyoming ha avuto come tema centrale del dibattito il mercato del lavoro, un tema che affligge da anni le democrazie occidentali che presentano un tasso di crescita modesto o, come nel caso italiano, negativo, dopo oltre cinque anni di recessione. E sinora la ricetta messa in campo dagli Usa, dal Giappone e dalla stessa Gran Bretagna e sempre la stessa, una politica monetaria e di bilancio espansiva, con debiti pubblici crescenti. E’ davvero questa l’unica ricetta? Noi crediamo di no anche se per invertire un ciclo economico negativo c’e bisogno in prima battuta di politiche monetarie accomodanti e di politiche di bilancio espansive che mettano al centro dell’attenzione una diversa qualità della spesa pubblica orientata, prima ancora che alla sua riduzione, alla crescita per concorrere a una politica anti ciclica. Bene ha fatto Mario Draghi nel ribadire che la politica monetaria non può sostituire una politica economica fatta di politiche di bilancio, di politiche sociali, di formazione, di ricerca e di innovazione, Avremmo gradito, in verità, anche un riferimento più preciso dall’insieme dei governatori delle Banche centrali sulla crisi che ha investito in particolare l’occidente. Una crisi che, a nostro giudizio, e di domanda e non di offerta tant’è che il nuovo spettro e la deflazione mentre se fosse una crisi dell“offerta avremmo visto crescere i prezzi. Sottolineiamo questo aspetto perché un’analisi non precisa o non completa rischia di portare a soluzioni parziali o addirittura incoerenti, Non e un caso, infatti, che i suggerimenti emersi dalla riunione dei banchieri centrali siano in una unica direzione, ridurre il costo del lavoro e contrarre gli stessi salari per recuperare competitività all’impresa, unico soggetto, pubblico o privato che sia, capace di produrre ricchezza, E questo sarebbe un errore. Non perché non sia necessario ridurre il costo del lavoro ma perché la competitività di una impresa ha anche altre componenti altrettanto importanti come, ad esempio, la finanza intesa nel suo doppio versante, patrimoniale e del fabbisogno di credito. Una questione, questa, del tutto assente non solo nel dibattito ultimo tenuto a Jackson Hole nel Wyoming, ma anche e principalmente nei comportamenti delle Banche centrali e, per quanto riguarda l’Europa, nella messa a punto di Basilea 3 che aumenta in maniera notevole per le banche l”onere dei propri impieghi e quindi, a cascata, gli oneri finanziari per le imprese. Sembra quasi che l*unica preoccupazione debba essere la salvaguardia del denaro delle banche e non dell’altra componente dell’impresa che e il lavoro dell’imprenditore e delle s ue maestranze. Tanto per f’are un esempio di casa nostra, la Banca d’Italia da per il trimestre luglio-settembre 2014, per affidamenti creditizi superiori a 5 mila euro, una forchetta di tassi applicabili tra il 10,20 e il 16,75. Un siffatto onere e o non è un elemento che pesa sulla competitività delle imprese almeno quanto il costo del lavoro? E per non indurre in errore chi ci legge, anche in paesi diversi dal nostro che hanno, cioè, tassi più bassi, il costo del denaro è un elemento non secondario sulla competitività delle aziende. Questo aspetto non può che rientrare nella competenza delle banche centrali ma anche in quella delle imprese bancarie che devono poter ridurre il costo della propria struttura per alleggerire il peso di quel pilastro degli oneri finanziari che opprime la competitività delle imprese alla stessa maniera di come il carico tributario pesa sulle banche e sui loro equilibri di bilancio, essendo anche esse imprese. Come si vede e una filiera il cui anello terminale resta l’impresa e la sua competitività.Ma c’e di più. Da vent’anni a questa parte la finanza ha via via dismesso il suo ruolo di infrastruttura al servizio dell”economia reale per diventare una industria a se stante in cui la materia prima son quattrini e il prodotto son più quattrini, La dimostrazione di questa mutazione genetica sta nella vita delle stesse imprese, in particolare in quelle medio-grandi, il cui fatturato e per almeno un quinto legato ad attività finanziarie e non ad attività di produzione o di servizi. Un solo dato: nel triennio 2009-2011 gli impieghi di natura finanziaria (acquisizioni, dividendi e liquidità )delle multinazionali americane, europee e giapponesi sono stati 1,5 volte quelli industriali. Questa e una grave distorsione del capitalismo occidentale perché investe in pieno la crescita del benessere fondato sulla diffusione di prodotti e di servizi che elevano il tono di vita complessivo delle società moderne. Una modernità che non prevede una utopica uguaglianza nel tono di vita ma che non può a lungo sostenere una crescita esponenziale di disuguaglianze, come quelle che abbiamo visto in questi venti anni durante i quali larghe masse di quello che una volta si chiamava ceto medio produttivo e professionale si sono impoverite mentre una sempre più stretta élite finanziaria ha accresciuto in maniera notevole le proprie ricchezze. Questa mutazione genetica del capitalismo occidentale arriva da lontano, dalla deregolamentazione dei mercati finanziari che con i suoi prodotti innovativi hanno attratto sempre più risorse sottraendole alla economia reale e, per essa, alla competitività delle imprese per quanto abbiamo sinora detto, creando, inoltre, una economia di carta sovrastrutturale che, se non fermata a tempo, farà scoppiare una bolla monetaria dagli effetti devastanti. Quando invochiamo una diversa regolamentazione dei mercati finanziari non pensiamo a vecchie tentazioni dirigiste ma a una diversa convenienza tra investimenti finanziari e quelli nell’economia reale, privilegiando questi ultimi. Il capitalismo finanziario, infatti, rischia di ammazzare quella economia di mercato che per crescere e consolidarsi ha bisogno di una armonia di tutte le proprie componenti (della incidenza della componente energetica sulla competitività parleremo in altra occasione), e senza la quale diventa difficile difendere anche quel sistema democratico che l’occidente si è dato nel secolo scorso. Come si vede in politica come in economia tutto si tiene ed è forse giunto il tempo che la politica torni a discutere di economia, rompendo quella esclusività di un dibattito solo tra economisti e banchieri centrali.