Perché Draghi non è amato in Germania
Giulio Sapelli – Il Messaggero
Non sono sorpreso dell’aria di fronda – molto diplomaticamentc ricomposta ieri – che spira attorno a Mario Draghi: il presidente della Bce cammina su un filo sospeso. Ma il problema non è il modo poco consensuale con il quale il banchiere italiano guida l’Istituto, come è stato scritto da taluni. Il punto è che il conflitto interno all’Eurozona si sta disvelando. E il simbolo di questo conflitto è il valore da dare alla moneta unica, in un sistema dei prezzi ormai sovranazionale e non più governato dalle vecchie sovranità statuali. Mi aveva colpito l’ondata di critiche venuta dalla Germania in occasione del drastico abbassamento dei tassi di interesse che solo a maggioranza la Bce aveva deciso alcune settimane fa. Tutta la Germania, che è istituzionalmente costruita su una possente architettura di società intermedie (associazioni di risparmiatori, di consumatori, di assicurati e di assicuratori, di piccoli e grandi banchieri, di forti e deboli risparmiatori, eccetera), tutta la possente Germania costruita sul sistema glorificato da Friedrich Hegel nei suoi scritti sulla Costituzione tedesca, tutta la Germania era insorta. La ragione di ciò è profonda e va oltre l’immediato danno materiale che sottoscrittori di titoli di Stato tedeschi possono subire per le manovre della Bce; la ragione si trova, forse non mai così magnificamente esplicitata, nel recente saggio di Michael Hüther, “Die Junge Nation”.
La tesi è quasi disarmante. Il brillante autore ci ricorda che i tedeschi sono una nazione non giovane, giovanissima. Si sono unificati non nel 1870 dopo aver schiacciato sotto il tallone degli Junker la Francia e aver incoronato il loro Kaiser Guglielmo nella Reggia di Versailles: una violenza inaudita di fronte a uno Stato sconfitto che generò un rancore infinito. No, i tedeschi si sono unificati solo nel 1989, con il crollo del Muro e con l’insediamento di 80 milioni di anime nel cuore dell’Europa. Ma queste anime sono così giovani e hanno tanto sofferto da non volersi e potersi assumere nessun ruolo in Europa rispetto all’Europa medesima. Possono e debbono pensare solo a se stesse e alla loro giovane nazione. Del resto, era ben questo che erano riusciti a fare quegli 80 milioni guidati da un capo eccezionale come Helmut Kohl che mise in scacco i Mitterrand e gli Andreotti prima parificando il marco tra Germania Est e Germania Ovest, poi imponendo il marco come modello archetipale al nuovo euro, plasmando lo statuto della Bce non in forma transatlantica (la Federal Reserve americana), ma nella forma dell’ordoliberalismo di Walter Eucken e della sua Nationale Ökonomie. Ossia pensando solo a battere l’inflazione perché la crescita di una nazione così giovane e con un’architettura cetuale sarebbe stata automatica. Chi non l’avesse seguita, quella crescita, sarebbe stato perduto. Ma questo non era e non è un problema dei tedeschi. Gli inglesi capirono subito che qualcosa non funzionava e quindi aderirono solo all’Unione per non lasciare sola la Francia, secondo una vecchia logica diplomatica che affonda le sue radici nel Congresso di Vienna. Tanto per farci capire quanto possa la storia, e quanto diversa sia la saggezza e lo spirito civilizzatore dei popoli. Gli inglesi condannarono sì Napoleone Bonaparte a una precoce morte in esilio ma salvarono la Francia una volta che il mostro era stato sconfitto. Ecco una lezione storico-generale tra ciò che è una politica di equilibrio internazionale e una politica, invece, di dominio internazionale. Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Adesso per la politica di dominio è giunto il redde rationem, ossia l’ora della verità. È giunta la recessione, che lo squilibrio strutturale tra Paesi a dominanza teutonica e Paesi a dominanza mediterranea si fa preclara. Il problema, però, è che il plesso dei Paesi mediterranei o del Sud Europa, cui disgraziatamente si va sempre più assimilando la gloriosa Francia, non ha una vera leadership: si cammina in ordine sparso. Per questo da anni insisto nel dire che la solitudine di Draghi non è economica, ma politica. Ha come nemici organici i risparmiatori, gli investitori, le massaie tedesche e come reali amici in Europa inventa non ha nessuno. Una prova di ciò? Si guardi la composizione del nuovo governo europeo del signor Jean-Claude Juncker: domina la giovane nazione tedesca e gli altrettanto suoi giovani vassalli, a cominciare dalla Polonia per finire con gli stati baltici. L’Italia e la Francia sono in un angolo, la Spagna e il Portogallo non si può dire che abbiano dei leader nella Commissione. Del resto, basta pensare ai dieci anni di Manuel Barroso per capire quanto sia diverso il luogo di nascita dal modello culturale che si adotta, quando si assume una carica che sovranazionale e condivisa dovrebbe esserlo per sua stessa natura.
Non vi è dunque speranza? La forbice delle utilità tra le due Europa e dunque destinata ad allargarsi sino al punto da mandare in frantumi l’Europa stessa? Rimane un`ultima speranza: come sempre gli Stati Uniti d’America, oggi come ieri. Mi ha colpito la dichiarazione di Mitch Mc Connell, appena eletto senatore del Kentucky e capo dei repubblicani nell’Alta Camera che ha dedicato la sua prima dichiarazione alla politica commerciale di Obama. L’ha definita troppo timida, priva di risultati, tanto sul versante del Pacifico quanto su quello dell’Atlantico, che a noi europei interessa. Ecco che torna già in gioco il Trattato Transatlantico tra Ue e Usa ed è chiaro che quel trattato non si potrà mai siglare con un’Europa che va verso la deflazione e quindi la recessione. Le conseguenze delle elezioni nordamericane giungono così in Europa e sono l’unica vera speranza che può sorreggere sia Draghi – il solo che può disporre della leva capace di restituire vitalità all’Euroza, purché lo lascino fare – sia l’Europa. Die Junge Nation dovrà rapidamente invecchiare e giungere a una maggiore saggezza. E la saggezza, lo sappiamo, porta con sé l’equilibrio, non il dominio.