insegnanti

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Davide Giacalone – Libero

Dalle stanze del governo assicurano che non si faranno barricate, in tema di riforma della scuola. Non sarà come per la riforma elettorale, dicono. Già questo solo serve a capire molto, visto che la riforma del sistema elettorale non è materia governativa, ma parlamentare, al contrario del riordino scolastico. Come a dire: sulla vita dei partiti, delle liste e degli eletti, non molliamo, sul resto accordiamoci.

Ma c’è una seconda ragione, per cui le barricate non avrebbero senso, perché a parte il gusto del baccano i due fronti, presunti contrapposti, sono totalmente convergenti nel volere assunzioni di massa nella pubblica amministrazione. L’unica differenza è che al governo promettono 160mila assunzioni, mentre gli oppositori ne vorrebbero di più. Come selezionarli, chi paga e a che servono sono quesiti lasciati a chi non abbia di meglio da fare nella vita. A chi non eccelle nell’arte del propagandista.

Ieri è stato reso pubblico il rapporto BetterLife, elaborato dall’Ocse. Su 36 paesi l’ltalia si colloca al gradino 23. Non un granché. Sull’istruzione, però, tocchiamo il minimo: 30. Ma degli indici percettivi non mi fido mai. Meglio guardare i risultati dei test Pisa: l’Italia è ai primi posti solo in un caso: giorni persi per studente. Siamo prodigi nel marinare la scuola. Matematica, lettura e scienze nessun primeggiare e spesso sotto la media. Desolante. Disaggregando i dati scopri che l’Italia scolastica riproduce quella produttiva: aree d’eccellenza europea e lande abbandonate alla deriva.

Non cambia nulla

Con la riforma in discussione tutto questo si consolida e conferma, perché si assumono quelli che già ci sono, posponendo anche i pochissimi vincitori di concorso vero. Si raccontano bubbole sulle nuove materie, ma le si mette nelle mani dei vecchi insegnanti. Ciò comporta il consolidarsi delle differenze di censo e di posizione geografica. Dicono: noi spenderemo soldi per la scuola. Falso: li spenderete per fare assunzioni. Roba neanche da democristiani governanti, ma da clientelari decadenti. Ecco la conferma: Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, si domanda perché ci si oppone al potenziamento dei presidi, tanto sono quelli che ci sono già. Si stupisce del fatto che tutti non vedano l’evidenza: non cambia nulla. E, comunque, il governo ha già mollato: l’autonomia scolastica resterà in mani collegiali. Non ci saranno misurazioni serie. Gli studenti svantaggiati resteranno fregati. I docenti cresceranno di numero, senza che la qualità s’alzi d’un capello.

Finta zuffa

Si poteva fare diversamente, facendo coincidere l’aumento del potere dei presidi con l’aumento delle loro responsabilità, promuovendo una seria misurabilità dei risultati (non la burletta dell’autovalutazione, che solo somari in carriera possono proporre senza sghignazzare). Sarebbe dovuto valere per ogni singolo docente, per ogni singolo preside, per ciascuna scuola: più qualità, più risultati, più carriera, più soldi. Lo stesso al contrario, con il segno negativo. Le parti che s’azzuffano, invece, sono solo correnti minimaliste o massimaliste del partito unico dell’assunzione pubblica, aderente alla federazione unica della spesa pubblica. Sono tutti convinti che sia un diritto avere soldi dallo Stato e che la spesa pubblica generi ricchezza. Il che è vero se si tratta di buoni investimenti, è falso se si generano mantenuti. I soldi che si danno agli incapaci vengono tolti ai capaci e quelli che si buttano nella spesa corrente improduttiva sono moltiplicatori di deficit, debito e miseria. Certo che non faranno le barricate: la pensano allo stesso modo.

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

Gianna Fregonara – Corriere della Sera

L’idea del governo di adottare una «terapia d’urto» per chiudere definitivamente le graduatorie ad esaurimento è «comprensibile», ma «assumere tutti e subito i circa 140 mila precari avrà effetti molto negativi sulla scuola italiana abbassandone la qualità e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire». Il grido dall’allarme sul decreto che Matteo Renzi dovrebbe presentare domenica prossima a Roma e il consiglio dei ministri approvare il 27 febbraio, è contenuto in un documento della Fondazione Agnelli, che da anni monitora e studia il sistema scolastico italiano: gli insegnanti che si stanno per assumere non sono quelli di cui la scuola avrebbe bisogno. Il direttore Andrea Gavosto e la sua squadra hanno confrontato numeri e proposte di quella che sarà la più grande «stabilizzazione di precari» della scuola degli ultimi trent’anni, mentre al ministero dell’Istruzione stanno scrivendo il testo del decreto, cercando di far tornare i conti di questa imponente operazione. Il punto di partenza dell’analisi della Fondazione Agnelli è che la promessa di assunzione di tutti i precari nelle graduatorie ad esaurimento non è stata preceduta da «un’analisi dei profili professionali necessari alla scuola italiana, ma si è adottata una logica capovolta: assumo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare», spiega Gavosto. Dei problemi denunciati dalla Fondazione si stanno occupando anche nel governo e nel Pd, tanto che il sottosegretario Davide Faraone ha annunciato che ci saranno delle correzioni.

Musica ed economia
Ma alcuni punti fermi restano. Come le ore di musica alle elementari: nelle graduatorie ci sono circa diecimila insegnanti di musica o strumento che verranno assunti a settembre. Così per economia e materie giuridiche, che il ministro Stefania Giannini ha annunciato verrà introdotta nelle superiori per una/due ore alla settimana, ma solo in terza e quarta, perché se si ampliasse l’offerta all’ultimo anno sarebbe necessario poi cambiare anche l’esame di maturità: ci sono almeno 3.000 insegnanti di questa classe di concorso nelle graduatorie, che altrimenti seguendo l’attuale fabbisogno della scuola che è di circa 200/400 insegnanti di economia ci metterebbero decenni ad essere assorbiti. Invece per una materia come la matematica non ci sono in molte regioni, a partire dalla Lombardia insegnanti in numero sufficiente nelle graduatorie ad esaurimento, neppure per coprire i posti di ruolo disponibili l’anno prossimo. Secondo gli esperti di «Voglioilruolo», il sito per prof che censisce graduatorie e scuole, risultano già esaurite le graduatorie per matematica a Como, Milano, Mantova, Ascoli Piceno, Roma, Pisa e Grosseto, Frosinone e Foggia: «In provincia di Milano – si legge nel testo della Fondazione Agnelli – servono ogni anno tra i 50 e i 100 insegnanti di matematica, nelle Graduatorie ad esaurimento ce ne erano a settembre solo 31».

La carica dei supplenti
Come si farà con gli altri posti? «Probabilmente continueranno ad essere almeno in parte coperti dai supplenti delle graduatorie di istituto, come avviene ora». Con il paradosso che in queste materie così importanti continueranno le difficoltà che si vorrebbero cancellare, a partire dai cambi continui di supplenti. «Non solo, se non si cambia il criterio di assunzione, si crea un problema di equità perché i prof che sono in queste graduatorie di istituto sono persone mediamente più giovani, con una preparazione e un’anzianità di servizio non inferiore a quella di chi verrà assunto, ma destinati a non diventare di ruolo», e a restare precari per chissà quanto tempo. Si aggiunga che proprio per materie importanti come quelle scientifiche proprio in questi giorni l’Ocse ha lanciato l’allarme: solo con professori più preparati ad affrontare le classi, usando metodi anche innovativi, si potranno migliorare la preparazione e i risultati dei ragazzi, che continuano a «soffrire» nei test proprio in queste discipline.

Nuove assunzioni
Il problema di questi precari fuori dalle graduatorie ad esaurimento è ben chiaro, non solo ai sindacati che oggi incontreranno il ministro Giannini, ma anche al governo tanto che il sottosegretario Faraone ha dichiarato che si sta pensando anche a loro, e qualcosa nel testo definitivo ci sarà: «Aspettate a dire chi sarà dentro e chi sarà fuori». Non sarà possibile cambiare molto ma potrebbero essere assunti almeno in parte a partire dall’anno prossimo, prima del concorso, per ora annunciato ma non indetto: il rischio restano i ricorsi in massa al Tar. «Ma il turn over nei prossimi anni è intorno ai 13 mila insegnanti all’anno. Si può ritenere che l’ingresso in ruolo dei 140 mila in blocco ostacoli per i prossimi dieci anni l’ingresso dei giovani neolaureati», si legge ancora nel documento elaborato dalla Fondazione. A tutto questo si aggiunge che i maestri e i professori che verranno assunti a settembre vivono lontano da dove il loro lavoro servirebbe. Le proiezioni sul numero di studenti in Italia nei prossimi dieci anni dicono che al Sud diminuiranno e cresceranno al Nord. E invece, per esempio, in una regione come la Sicilia, ci sono quasi 20 mila precari. Nel decreto, anche per non avere «migrazioni» di professori si sta pensando di irrobustire, con le nuove assunzioni, le scuole nelle zone più problematiche o dove i risultati dei ragazzi nei test internazionali non sono all’altezza, e dunque in molte aree del Sud.

La formazione rinviata
C’è un ultimo non secondario problema che non è stato risolto nei piani del governo: secondo l’approfondimento della Fondazione, di moltissimi di questi insegnanti non si sa nulla, se non i requisiti formali. «La metà di questi precari, che resteranno nella scuola per i prossimi venti anni, risulta non ha insegnato nelle scuole pubbliche negli ultimi anni – continua Gavosto – Una parte certamente lavora nelle scuole private, ma altri potrebbero aver intrapreso altre carriere e tornerebbero soltanto ora in vista di un posto a tempo determinato. Come pensiamo di prepararli al loro lavoro? Non è prevista alcuna verifica della loro preparazione e l’idea di un anno di prova non è sufficiente». Anche di questo si stanno occupando al ministero. Sempre Faraone: «Quest’anno i fondi sono per le assunzioni, il prossimo saranno per la formazione».

Tagli e ritagli

Tagli e ritagli

Davide Giacalone – Libero

Andò per tagliare e fu tagliato. Mentre la revisione della spesa pubblica è annunciata come sempre più consistente, ma diventa sempre più cieca e inconsistente. Una gara tipo “Miracolo a Milano” al contrario, con un “meno uno” al posto del “più uno”. Gara a rilancio, ma che parte inceppata. Ieri si sarebbe dovuta avviare la consultazione ministero per ministero, in modo da mettere a punto i tagli e passare alle forbici, ma Matteo Renzi ha preferito rinviare tutto e adottare un sistema che replica pari pari il verso antico: relazione di ciascun ministero, con quel che pensa di potere risparmiare. Poi si vedrà. Ciò non capita per caso. E’ la conseguenza degli errori commessi.

Il siluramento di Carlo Cottarelli è un passaggio che non ha nulla di personale, ma sostanza tutta politica. Bisogna studiarlo bene, per capire quello che accadrà. La sua sorte personale non desta preoccupazioni: all’inizio gli fecero un contratto triennale (cosa che qui criticammo, dato che si trattava di una missione a scopo, non a tempo), poi s’è chiesto al Fondo monetario internazionale di riprenderselo, come se fosse stato in aspettativa. Sono tutti pronti a dire che ha svolto un buon lavoro, purché non pretenda di farlo valere e si tolga silente dai piedi. Lo ha chiarito il ministro più politico e rappresentativo, Maria Elena Boschi: “se ne andrà dopo la legge di stabilità e se volesse andarsene prima ce ne faremo una ragione e troveremo altri”. Delle comparse, a quel punto. Qual è il motivo per cui il lavoro di Cottarelli infastidisce? Non perché ci sia un primato della politica, dacché l’incarico glielo diede e confermò il governo, quindi la politica, ma perché individuare il tessuto morto da tagliare significa seppellire interessi reali e immediati, che reagiscono. Mentre annunciare tagli sempre più consistenti genera vago dissenso e spaesato consenso. Tutto macro e niente micro, vale dire tutto fumo e niente arrosto.

Dicono al governo: non abbiamo mai proposto di fare tagli lineari. Falso, lo ha anticipato il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, al Sole 24 Ore. Ha anche quantificato: 3% per ciascun ministero. Ribattono: ma sarà ciascun ministro a decidere quali, quindi sono tagli mirati. Tanto mirati che il primo colpo, ieri, ha fatto cilecca. Bubbole, comunque, perché al netto del fatto che se il ministro non ne fosse capace ciò vorrebbe dire che s’è messo un incapace su quella sedia, sarà Palazzo Chigi, nel caso, a fare le veci del ministro. E questi sono esattamente tagli lineari, così come li impostò Giulio Tremonti, a sua volta copiando dal ministro dell’economia inglese, a quel tempo, Gordon Brown: si parte dai saldi per indurre la riduzione della spesa. La politica, se esistesse e se ne fosse capace, eserciterebbe il suo potere nello stabilire dove e quanto tagliare, non nel fissare l’entità dei tagli necessari per poi dire: fate vobis et favorite miki.

Ma non basta, perché sappiamo già che in certe amministrazioni non si potrà tagliare. Come nella scuola, sul cui bilancio si abbatterà la valanga delle assunzioni annunciate. Peccato che: a. abbiamo già troppi insegnanti per alunno; b. assumendone 150mila con un turn over di circa 30mila l’anno il primo docente nuovo lo vedremo fra otto anni; c. nel frattempo la riforma non cambierà la didattica, visto che ne mancano i nuovi protagonisti; d. la spesa per la scuola crescerà senza che cresca di un tallero la spesa per dare istruzione ai ragazzi. Si potrebbe rimediare con il digitale, ma anche quello viene continuamente rinviato. Assieme ai tagli lineari, quindi, ci becchiamo anche gli aumenti lineari. A tutto giovamento della burocrazia e del posto improduttivo.

I tagli possono basarsi su maggiori efficienze e minori sprechi, nel qual caso non esiste altra strada che farsi guidare da chi conosce la struttura della spesa, coprendogli le spalle dai pesanti attacchi che arriveranno. L’esatto contrario di quel che hanno fatto con Cottarelli. Oppure, e sono quelli più interessanti e promettenti, possono essere generati da riforme, da cambiamenti profondi dell’agire pubblico. Sono, in questo caso, più che tagli una vera e propria riqualificazione della spesa pubblica, con cui, naturalmente, si può anche ridurla aumentandone la qualità. Questo è il lavoro serio e alto della politica. Il resto è ragionerismo praticato da gente che non conosce la ragioneria. Con i risultati che si videro e si vedono.  

Scuola (d)istruttiva

Scuola (d)istruttiva

Davide Giacalone – Libero

Anteporre l’assunzione di 190mila insegnanti alla riforma della scuola fa risparmiare il tempo necessario a scriverla e approvarla, tanto è morta prima di nascere. Ancora una volta la spesa pubblica sarà indirizzata a soddisfare i bisogni di chi lavora per lo Stato anziché di quelli che ne dovrebbero ricevere il servizio. Inconciliabile il volere giudicare per merito e l’assumere ope legis. Quando si scoprirà di avere insegnanti incapaci (posto che tanti sono bravissimi) sarà istruttivamente distruttivo limitarsi a non aumentargli lo stipendio. Ammesso che ci si riesca. Comica l’iniziativa dei due mesi di ascolto, dal 15 settembre al 15 novembre, per sapere cosa ne pensano quelli che si prenderanno la briga di chattare con il governo. Sono lustri che ci ascoltiamo e governare non è sinonimo d’inseguire l’indice di gradimento. Ma dato che le critiche è bene siano sempre accompagnate da proposte alternative, e visto che chi dovrebbe decidere e indirizzare preferisce orecchiare ed essere indirizzato, non mi sottraggo. Oggi su due aspetti: il digitale e l’università. Il primo largamente frainteso, la seconda totalmente assente.

Nei documenti d’indirizzo, novella produzione in prosa che sostituisce le proposte di legge, il governo afferma due cose: a. la larga banda in tutte le scuole è la condizione per digitalizzare l’apprendimento; b. i ragazzi devono essere capaci non solo di usare le applicazioni informatiche, ma anche di crearle. Due errori.

Certo, sarebbe bello avere larga banda in tutte le scuole. Come anche in tutti gli uffici, fabbriche, tribunali e via elencando. Ma siccome non è possibile nel tempo pianificabile, si deve usare quel che c’è. Tutte le scuole italiane sono già oggi connesse in rete. Molte con più di una connessione (perché regalate da comuni e province). Usano la rete per l’amministrazione e non per la didattica. Quindi: partire subito con la scuola digitalizzata. Non solo è possibile, ma avverto i distratti che i gestori telefonici già si fanno pubblicità parlando dei testi scolastici digitali e di chi è bravo andando a scuola con un tablet, mentre chi rimane indietro si carica ancora sulle spalle qualche chilo di libri. Peccato che i secondi non sono fessi alla nascita, sono costretti dalla scuola. E peccato che la legge già prevede, dal 2008, il passaggio ai testi digitali, salvo che i vari governi (destra, tecnici e sinistra) sono stati solo capaci di prorogare l’uso dei cartacei.

È vero, si sono commessi molti errori. Fin qui l’informatica scolastica è stata una scusa per scaricare ferraglia su istituti e studenti. Qui avvertimmo per tempo sulla sciocchezza delle Lim (lavagne interattive multimediali), che servirono solo a svuotare i magazzini dei fornitori. Come abbiamo avvertito sulla sterilità dell’uso dei soldi pubblici per fornire tablet senza contenuti e sistemi utilizzabili. Cosa che ancora capita, che ancora quest’anno porterà a buttare soldi e che, paradossalmente, porta le regioni più efficienti nello spendere a essere anche quelle che più fanno danni. Ma per cambiare basta uno schioccar di dita, basta adottare piattaforme intelligenti (e ne abbiamo di italiane, mentre le regioni spendono finanziando quelle estere) e usarle nella didattica. La consultazione da remoto occupa poca banda, sicché anche le adsl esistenti possono bastare. Ripeto: basta volerlo. Quel che va fatto, subito, è usare tutti il digitale, che i ragazzi già usano massicciamente, ma non per studiare. Non serve che diventino tutti programmatori, perché una simile bischerata non è vera neanche in India, principale Paese formatore di tecnici informatici.

Sull’università il governo aveva annunciato la cancellazione dei test d’ingresso, che invece sono ancora lì. Trovo che siano utili, ma ridicoli. E’ stupido farne dei quiz generici, delle parole crociate, e se devi fare l’odontoiatra non si vede cosa rilevi il saper cos’è la “mano morta”. Nei sistemi sanamente aperti alla concorrenza i test di matematica e lingua o le applications per iscriversi all’università hanno valore generale: con questi risultati non puoi entrare nell’università x, ma puoi andare nella y. Poi tocca alle università sfidarsi in qualità dei docenti e livello dei risultati finali, in modo da attrarre soldi da famiglie e sponsor. Da noi ciascuno si gestisce i propri e da quelli non dipendono i finanziamenti, ma con quelli si mungono tasse d’iscrizione a studenti e famiglie. Satanismo fiscale in tocco e toga.

La didattica digitale incorpora la valutazione dei docenti, così come il ponte fra scuola e università, costruito con test a valenza generale, incorpora la competizione. Usando questi strumenti si può, da subito, sapere quali sono le aule migliori, premiando il merito e stimolando la gara. Il che non è un servizio all’amministrazione burocratica pubblica, ma agli studenti e alle famiglie. Per fare queste cose ci vuole meno tempo dei due mesi buttati nella consultazione. Tutto sta a saperlo e volerlo fare.

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Maurizio Belpietro – Libero

Ci sono voluti pochi giorni per capire chi avesse ragione tra Carlo Cottarelli e Matteo Renzi. Il dubbio che il commissario alla spending review avesse esagerato nel descrivere lo stato di salute dei conti pubblici è stato dissipato ieri da due notizie. La prima è la marcia indietro del governo sul prepensionamento di 4 mila insegnanti e sul tetto dell’età pensionabile per i primari, ossia sull’emendamento che proprio Cottarelli aveva dichiarato senza alcuna copertura, sostenendo che fosse stato finanziato con un generico quanto inesistente taglio di prossime spese.

La precedente settimana, quando il Parlamento aveva votato il provvedimento, il ministro della Pubblica amministrazione era stato zitto, lasciando intendere di essere favorevole alla misura. Ma poi, vista la denuncia del super commissario il quale ha di fatto dato le dimissioni beccandosi pure un poco gratificante saluto dal premier, ecco la retromarcia di Palazzo Chigi e di Marianna Madia. Segno evidente che le critiche erano fondate, altrimenti il presidente del Consiglio avrebbe tirato dritto. E allo stesso tempo prova concreta che la spending review è diventata la madre di tutte le spese, in quanto annunciando futuri tagli si dà via libera a costi immediati che prossimamente graveranno sullo stato di salute della contabilità nazionale e dunque sulle spalle dei contribuenti.

Tuttavia non c’è solo l’episodio di ieri a confermare che Cottarelli ha ragione e Renzi torto. E dunque che i tanto sospirati risparmi sulle uscite dello Stato sono solo sospirati ma non destinati a tradursi in realtà. L’altra notizia della giornata è che la sanità pugliese si prepara ad assumere 2.500 persone. Ad annunciarlo è stato il governatore della Regione che poi è pure il numero uno di Sinistra ecologia e libertà. Evidentemente, non contento di essere a capo di un sistema sanitario tra i più costosi d’Italia, tanto da dover approfittare della solidarietà del fondo sanitario da cui incassa 487 euro pro capite, Nichi Vendola vuole pure assumere. E poco importa che – come segnalava ieri il Sole 24 Ore – dal 2007 al 2013 il disavanzo della regione sia stato di 1 miliardo e 312 milioni, cioè uno dei più pesanti tra quelli registrati in Italia: il governatore prima di ritirarsi dalla politica preferisce fare un’altra infornata di medici e infermieri. Pazienza se questo si tradurrà in un aumento del ticket, che, sempre come segnalava il quotidiano confindustriale, sarà presto preso in esame con una revisione del contributo richiesto agli ammalati in base al reddito. Di questo passo altro che servizio sanitario nazionale, presto avremo il servizio sanitario fiscale, nel senso che per essere curati bisognerà presentare la dichiarazione dei redditi insieme con la carta di credito, mentre gli indigenti – e dunque la maggior parte degli immigrati – avranno cure gratis: tanto il ticket lo paga chi guadagna e versa le tasse.

È questo il fantastico mondo della spending review, che dopo le parole di Cottarelli è stata ribattezzata Spending di più. Del resto, l’operazione di rimettere in equilibrio i conti del welfare, facendo sparire il fondo sanitario che grava sulle regioni virtuose (Lombardia tra le prime) a favore di quelle che invece sono spendaccione, ha poche speranze di successo. La chiusura del rubinetto che ogni anno toglie alle Regioni meritevoli per dare a quelle che non meritano avrebbe dovuto avvenire nel 2013 e invece con i ritmi adottati da diversi governatori l’addio al sistema di finanziamenti a fondo perduto alle sanità colabrodo arriverà nel 2066. Sì, avete capito bene: fra cinquant’anni, parola della bibbia salmonata diretta da Roberto Napoletano. C’è da stupirsi dunque se in Italia continuano ad aumentare le tasse? Ovvio che no. La logica conclusione dei tagli alla spesa non fatti è il Fisco che diventa sempre più vorace.

E a proposito di imposte si segnala che è in dirittura d’arrivo un nuovo siluro: la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi che venerdì scorso ha ricevuto il via libera dalla commissione Finanze del Senato. Sempre secondo il solito Sole 24 Ore in molte città si registreranno rincari d’imposta, in quanto tra i valori catastali attuali e quelli di mercato che si vorrebbero adottare c’è una differenza che in qualche caso sfiora il 300 per cento. Ma a rischiare di più a quanto pare non sono i proprietari di attici, ma chi possiede un’abitazione di categoria A3, cioè quelle considerate economico popolari. Essendosi queste case rivalutate di molto nel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate si prepara a battere cassa. E ovviamente con i soliti metodi molto gentili, dato che nonostante il cambio al vertice nulla è cambiato. Insomma, Cottarelli ha ragione. Governo, Parlamento e Regioni spendono senza tagliare e ai soliti noti tocca pagare. Ma almeno ora è chiaro chi devono ringraziare.