L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

Renato Brunetta – Il Giornale

Recessione, spread su, borse giù. Autunno nero. Berlusconi non farà come la sinistra, che di fronte all’attacco speculativo contro il nostro debito sovrano del 2011 giocò al tanto peggio tanto meglio, imputando al governo in carica quello che, invece, dipendeva dalla crisi mondiale e dalla risposta inadeguata dell’Europa e della Banca centrale europea.

Le parole di Mario Draghi di giovedì scorso sono sacrosante. Sulle indicazioni del presidente della Bce dovrebbe confrontarsi il Parlamento, per definire finalmente una strategia seria e condivisa che porti l’Italia fuori dalla crisi. Ma questo non sembra. Per capire il paradosso, facciamo quattro passi indietro.

Dopo il Nazareno, il programma di Renzi era costituito da 3 grandi linee guida: 1) la legge elettorale, da realizzarsi nel più breve tempo possibile, in ragione della sentenza della Corte costituzionale; 2) la riforma del Senato, che nei giorni del Nazareno sembrava la meno urgente e la meno concordata e definita; 3) le riforme strutturali, per cambiare l’assetto economico, sociale e produttivo italiano, su cui Renzi aveva costruito la sua vittoria alle primarie. Jobs Act in primis.

Il presidente del Consiglio parte con la legge elettorale. Ma il dibattito alla Camera – ove, nonostante dovesse esserci una maggioranza blindata, si susseguono votazioni da brivido – finisce con la dimostrazione amara che proseguire con l’approvazione definitiva della legge elettorale al Senato è impossibile. Ecco che, allora, Renzi cambia la sua agenda, d’accordo con Berlusconi; insabbia l’Italicum e si inventa la priorità del superamento del bicameralismo paritario. Ottima mossa di realismo e opportunismo, che, però, finisce con la polvere sotto il tappeto.

Nel frattempo vengono messe in cantiere e approvate alcune delle cosiddette e tanto pubblicizzate riforme strutturali. Quelle, per intendersi, del #cambiaverso #lasvoltabuona . Anche in questo caso, le difficoltà che Renzi incontra alla Camera sul decreto Poletti lo portano alla cautela, e a rifugiarsi su argomenti, contenuti, provvedimenti meno divisivi, nella speranza che la congiuntura migliori. Proprio per questo, dopo il decreto Poletti, finito malamente e per approvare il quale il governo ha dovuto fare ricorso a ben 3 voti di fiducia, il premier rallenta sulla riforma del lavoro, il tanto sbandierato Jobs act , possibile fonte di conflitti interni. E proprio per questo non accelera neanche sulla riforma fiscale che, invece, vista l’approvazione in via definitiva della delega da parte del Parlamento già a febbraio, avrebbe potuto realizzare in poche settimane.

Insomma, pragmaticamente e opportunisticamente Renzi si trova a rinviare sulle riforme divisive, mentre si concentra sull’unica scelta su cui nel suo partito tutti sono d’accordo: il «bonus 80 euro», che serviva a vincere le elezioni europee. Poco importa se quel provvedimento ha poi scassato i conti pubblici, in quanto finanziato in deficit.

Fino al 25 maggio, dunque, le cose vanno esattamente come voleva l’intelligenza opportunistica del presidente del Consiglio: tutto il dibattito politico-istituzionale concentrato, da un lato, al Senato, sul superamento del bicameralismo paritario, di fatto innocuo, nonostante le fronde, dal punto di vista della tenuta (anzi, grazie al patto del Nazareno, di rafforzamento) della maggioranza di governo; dall’altro, sulla mancia elettoralistica degli 80 euro, forte collante politico per il suo partito, in vista delle elezioni.

Grazie poi agli errori e agli eccessi del Movimento 5 stelle, le elezioni europee segnano il trionfo del presidente del Consiglio. Gli danno quella legittimazione democratica che non aveva avuto ai tempi di #enricostaisereno e lo convincono, e qui sta l’errore, a proseguire nella politica del rinvio delle scelte difficili e potenzialmente divisive. Anche sul fronte europeo, Renzi sceglie la strada più semplice, vale a dire quella della richiesta di una non ben precisata flessibilità e indulgenza nei confronti dei conti pubblici italiani.

Questo è stato il grande errore di Matteo Renzi: non aver cambiato strada dopo la legittimazione elettorale. Ma si capisce anche perché lo ha fatto: nonostante le elezioni europee, infatti, i numeri in Parlamento non sono cambiati. Quindi il presidente del Consiglio sa benissimo di non avere una maggioranza sull’Italicum. Come non ce l’ha sulla riforma del mercato del lavoro e sulla riforma fiscale. E, dunque, su questi temi, è costretto a rinviare. A questo punto, su questo errore si abbatte poi la doccia fredda della recessione. Dato congiunturale, in gran parte esogeno, vale a dire fuori dalle responsabilità del presidente del Consiglio, che, però, gli scopre il gioco: quello di non aver affrontato le scelte difficili per la tenuta della sua maggioranza e per il suo partito, ma fondamentali per il Paese. E qui la critica non è solo di Draghi, ma di tutti gli osservatori internazionali.

Proprio per questo, in autunno l’agenda parlamentare di Renzi sarà infernale. Ci saranno in contemporanea la riforma costituzionale in discussione alla Camera e la legge elettorale al Senato. E le due cose, visto che viaggiano di pari passo, non potranno non influenzarsi a vicenda, in un gioco perverso: la tensione di un ramo del Parlamento non potrà non riflettersi sull’altro. In più, tra settembre (nota di aggiornamento al Def) e ottobre (legge di Stabilità) si aprirà la sessione di bilancio, che vuol dire la verità sui conti pubblici: manovra, tagli, tasse. Con il ritorno inevitabile delle riforme divisive, ma non più rinviabili: Jobs act e decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, che non possono più aspettare.

Troveranno, il governo e il Partito democratico, la quadra sul mercato del lavoro, per esempio sulla moratoria per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Troveranno la quadra sull’Italicum, con modifiche in grado di accontentare simultaneamente Alfano e Berlusconi? Sulla manovra inevitabile da 25-30 miliardi nel 2014 e sulla legge di Stabilità per il 2015-2017? Tutto quello che nei primi 6 mesi di governo Renzi era stato opportunisticamente rinviato, in autunno non solo torna al centro del dibattito, ma diventa esplosivo.

Un’agenda infernale. Ha, il premier, dentro il Pd, una maggioranza che lo segua su tutti questi terreni minati? Mentre l’autunno rischia di essere un Vietnam per Renzi, per il centrodestra potrebbe diventare l’occasione per la rinascita, ritrovando l’unità, con la guida di Berlusconi e di Forza Italia. Lasciando per un momento da parte il patto del Nazareno, al contrario del centrosinistra, su lavoro, attacco al debito, taglio delle spese, taglio delle tasse, fisco, pubblica amministrazione, crescita, il centrodestra italiano è unito. Il programma, con gli opportuni aggiornamenti, è quello con cui nel 2013 la coalizione quasi vinse le elezioni. E in questo ha ragione il ministro Boschi: centrosinistra e centrodestra sono due mondi diversi, con programmi diversi. Ma la ricetta del centrodestra, guarda caso, coincide con quella di Mario Draghi e della Commissione europea. È la sinistra che è fuori rotta. Al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, i nostri migliori auguri.