Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi
Marco Onado – Il Sole 24 Ore
È un fatto che le banche popolari abbiano seri problemi di governance grazie all’uso disinvolto che molti istituti (ma non tutti) fanno del voto capitario. È un fatto che la categoria si sia dimostrata incapace di un adeguato processo di autoriforma, visto che i problemi si trascinano fin dai tempi del Testo Unico, quando le proposte della Commissione Draghi vennero stralciate in attesa di una riforma (ça va sans dire) «più complessiva», il classico termine politichese per “calende greche”. E così infatti è stato. A confronto Penelope sembra un operaio tessile cinese.
Diamo atto al Governo di aver finalmente affrontato il problema della governance nelle banche Popolari. Ma da qui a mettere al bando l’assetto cooperativo imponendo per decreto alle popolari oltre una certa soglia dimensionale la forma di società per azioni, corre un abisso. Non solo, in linea di principio, per la soluzione scelta, ma anche perché le motivazioni indicate prestano il fianco a qualche perplessità.
La prima riguarda il divieto della forma cooperativa per l’esercizio dell’attività bancaria per le popolari più grandi. Lasciando ad altri la valutazione sulla legittimità di un intervento a gamba tesa sulla libertà statutaria, va ricordato che in quasi tutti i paesi le cooperative di credito sono una componente importante dei sistema bancario e in particolare di quello più vicino alle esigenze del territorio. Ci sono ovviamente molti esempi negativi, non solo in Italia, in cui il voto capitario serve a costruire roccaforti inattaccabili per il management o i loro danti causa, ma anche casi – come il Regno Unito – in cui si è dovuto costatare che le grandi building societies che a partire dagli anni Ottanta abbandonarono la forma cooperativa si sono lanciate nelle operazioni più spericolate, fino a crollare miseramente al primo stormire della crisi. Northern Rock è solo l’esempio più clamoroso ma non l’unico.
Il punto debole della corporate governance delle banche popolari è l’uso eccessivo e disinvolto del voto capitario, non il voto capitario in sé. Banche che hanno raggiunto dimensioni ragguardevoli e che hanno nell’azionariato investitori istituzionali anche internazionali non possono limitare le deleghe a numeri micragnosi e soprattutto devono raccoglierle in forma trasparente. Senza dimenticare le popolari non quotate (ma con azioni scambiate sistematicamente) che alimentano mercati assai poco trasparenti delle azioni proprie. Sono questi i nodi fondamentali che la categoria ha eluso per troppo tempo e che a questo punto possono giustificare un intervento dall’alto.
Ma perché tanta fretta da scegliere una soluzione così radicale, per di più con lo strumento del decreto? Stando alle dichiarazioni ufficiali, perché in questo modo si favorirebbero aggregazioni che appaiono indispensabili e perché si creerebbero le condizioni per riaprire i rubinetti del credito, che continua a scarseggiare, soprattutto per le piccole e medie imprese. Al mercato naturalmente le aggregazioni piacciono, perché provocano aumenti nel breve periodo dei prezzi azionari e infatti la borsa ha reagito positivamente, ma non diversamente da quanto ha fatto di fronte ad ogni operazione di fusione, comprese quelle che hanno dato frutti velenosi: se non vogliamo scomodare l’Antonveneta, basta pensare all’acquisizione di Abn Amro da parte di Royal Bank of Scotland, salvata solo grazie al pesante salasso del contribuente britannico. La storia delle fusioni insegna che nell’attività bancaria le economie di scala sono assai difficili da conseguire e che al crescere delle dimensioni i costi unitari non scendono necessariamente. Ogni fusione nasce con il suo corredo di promesse di “sinergie”, certificate da ponderosi studi di banchieri di investimento e consulenti vari, tutti profumatamente remunerati, ma il numero delle delusioni è vicino a quello dei successi.
E ancora: abbiamo “troppi banchieri” come dice il Presidente del consiglio? A parte che pare difficile credere che l’eccesso stia tutto nei vertici delle grandi popolari, il problema – in Europa più che in Italia – è quasi l’opposto. Come ha certificato un recente studio della massima autorità di vigilanza (European Systemic Risk Board) il sistema bancario europeo è troppo grande rispetto all’conomia reale (334 per cento del pil, cioè il doppio degli Stati Uniti), soprattutto perché sono cresciute a dismisura le maggiori banche, che si sono alla fine dimostrate troppo grandi non solo per fallire, ma anche per essere gestite correttamente. Insomma: prima di lanciare la grande corsa alle fusioni nelle fasce dimensionali medio-grandi, bisogna almeno pensarci due volte.
Infine, non è detto che le dimensioni siano la soluzione al nodo del credit crunch. La paralisi del credito ha infatti origini strutturali, tanto che assume particolare gravità in tutti i paesi della periferia d’Europa. E comunque, in Italia, proprio la categoria delle popolari è quella che negli ultimi anni ha ampliato il credito in essere. La Banca d’Italia ha invitato più volte le banche popolari (a cominciare dalle grandi quotate) a risolvere i problemi derivanti dalla rigida applicazione del modello cooperativo, puntando su due criteri fondamentali: l’autodisciplina e i meccanismi di mercato. La riottosità della categoria giustifica l’abbandono del primo criterio, ma il secondo, cioè il rispetto del mercato, rimane sacrosanto.