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Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

di Massimo Blasoni

Pubblichiamo la prefazione di Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro, a “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri, libro della collana “Fuori dal coro” in edicola con Il Giornale.

lottieri“Proprietà”, per alcuni, è un termine che identifica diseguaglianze ed egoismi, riecheggiando prevaricazioni antiche. “La proprietà è un furto”, diceva Proudhon. Per altri, e per fortuna sono i più, la proprietà privata è espressione del lavoro e della libertà.

Nella mia memoria, la proprietà è l’appartamentino comprato da mio padre e la sensazione di emancipazione che questo acquisto gli dava. Se vogliamo, tanto la nostra libertà trova un limite nella libertà altrui, altrettanto la proprietà rappresenta il confine che opponiamo agli altri. Un confine naturale, facendo eco a John Locke e Frédéric Bastiat, che ognuno ha diritto di difendere come la sua libertà e la sua persona. “Non è perché ci sono leggi che ci sono le proprietà, ma è perché ci sono le proprietà che ci sono le leggi”. E questo confine viene colto da molti di noi soprattutto come prodotto del lavoro. La proprietà scaturisce dal lavoro, ne è un’estensione e non è ovviamente il privilegio di un’oligarchia; anzi è la sua larga diffusione che ulteriormente la legittima e, oltre che naturale, la rende democratica.

Nel nostro Paese la proprietà non è particolarmente tutelata e indubbiamente è fortemente tassata. Questo soprattutto per la ridondante presenza della politica nelle nostre vite che trae potere dalla propria capacità di spesa. Peraltro il retaggio di una cultura di sinistra che poneva, e forse pone, al centro lo Stato è rilevante, nella storia recente del nostro Paese, sin dalla Costituente.

Certo è che nell’ultima edizione dell’Index of Economic Freedom, realizzato dal Wall Street Journal e da Heritage Foundation, alla voce “diritti di proprietà” l’Italia ha un punteggio di 50 su 100. È insomma una sorta di Paese “parzialmente represso” e si piazza mestamente in 57esima posizione dietro Paesi come Qatar, Giordania, India e Malesia.

Il livello di tassazione sulla proprietà ha raggiunto da noi livelli difficilmente accettabili. La tassazione sulla casa e quella sul risparmio sono cresciute in maniera esponenziale negli ultimi anni. E, ricordiamolo, le imposte sulla proprietà sono tasse sulle tasse, nel senso che al prelievo sul nostro reddito da lavoro si aggiunge quello sui nostri acquisti. Eppure dovrebbe essere chiaro che lo Stato è un gestore poco efficiente e, mentre tassa la case degli italiani, utilizza senza criterio il proprio patrimonio: 530.000 unità e 760.000 terreni in parte liberi, in parte affittati male.

Diversamente, è chiaro, si comporta il padre di famiglia con la sua abitazione come già Aristotele rilevava nella Politica: “Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto alla proprietà loro”.

Le tasse diminuiscono ma solamente a parole

Le tasse diminuiscono ma solamente a parole

«Diminuiremo le tasse», «Anzi, no: le abbiamo già abbassate!» Quante volte avete letto sui giornali queste rassicuranti dichiarazioni del governo? Capita però che studiando i dati Ocse e prendendo come indicatore il cosiddetto “cuneo fiscale” (cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio), si scopra che negli ultimi anni questo fardello è invece cresciuto in Italia del 2,57%, arrivando nel 2015 al 48,96% del costo del lavoro. Un dato in controtendenza rispetto alla media delle altre 34 economie occidentali analizzate, nelle quali il cuneo fiscale e contributivo è sceso dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Altrove il cuneo è invece aumentato, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia: negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%).

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Blasoni: Rivoluzioniamo il lavoro

Blasoni: Rivoluzioniamo il lavoro

Massimo Blasoni – Panorama

Panorama_2016-04-28Debito, deficit, scarsa crescita: sono molti i problemi che attanagliano la nostra economia. Meno trattato è il tema della produttività. Eppure, uno dei primi indici di difficoltà del nostro Paese è la capacità di produrre con efficienza, che si va riducendo. I dati Eurostat sono eloquenti. Preso a riferimento il 2010 la produttività reale per lavoratore è scesa ad oggi in Italia di 2,5 punti. Nello stesso periodo è invece aumentata di 1,7 punti in Francia, di 2,8 in Germania e addirittura di 3,9 nel Regno Unito. Negli anni Settanta l’Italia era al primo posto per crescita della produttività nell’industria rispetto alle principali economie comunitarie. Il ritmo è rallentato nei due decenni successivi ma è dal Duemila che rapidamente siamo scivolati in fondo alla classifica.

La produttività, in buona sostanza, misura l’efficienza delle aziende: più lavoro e tempo sono necessari per raggiungere un determinato risultato peggiore è la prestazione. Da cosa dipende la nostra bassa performance? Non esiste una risposta univoca e sono molti i fattori che concorrono. Quanto è complesso e costoso dare vita a una nuova azienda in Italia? Quanto tempo, sottratto alla produzione, debbono utilizzare gli imprenditori per i mille adempimenti ad esempio richiesti dal fisco? Lo ha calcolato Doing Business, il rapporto annuale della Banca Mondiale, che ci dice che un medio imprenditore deve utilizzare 269 ore all’anno soltanto per pagare le tasse. Sulla bassa produttività incidono anche le mancate liberalizzazioni e le non adeguate infrastrutture materiali. Le reti portuali, autostradali e ferroviarie non paiono certo pari a quelle dei nostri concorrenti e quanto a infrastrutture informatiche siamo 25esimi secondo la Commissione Europea. Se all’incertezza e alla lentezza della nostra giustizia si aggiunge una burocrazia tortuosa e lenta purtroppo il gioco è fatto.

Concentriamoci infine sull’aspetto forse più rilevante: il lavoro. Il nostro tasso di occupazione è dieci punti sotto la media comunitaria. Malgrado il Jobs Act è difficile assumere, premiare il merito e restano estremamente complesse le relazioni sindacali. Secondo il rapporto annuale del World Economic Forum ci collochiamo al 126esimo posto per efficienza del mercato del lavoro, dopo Paesi come la Grecia e il Marocco. Ci penalizzano la scarsa flessibilità nella determinazione dei salari, il loro scarso legame con la produttività e l’enorme tassazione. Inoltre si fa pochissima formazione e il numero di laureati è il più basso d’Europa. Nel nostro Paese resta troppo forte l’idea della job property, cioè del posto fisso immutabile in un medesimo contesto e i contratti, troppo rigidi, disciplinano la quantità di tempo impiegata dal lavoratore e non il numero e l’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale. Solo se sapremo riconsiderare il nostro modo di lavorare e drasticamente innovare il sistema di regole e di reti che condizionano le nostre aziende avremo una possibilità. Il punto è ineludibile.

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Il pubblico pesa troppo

Il pubblico pesa troppo

Massimo Blasoni – Metro

Nel 1861 l’Italia, su circa 25 milioni di abitanti, aveva appena 3 mila o poco più impiegati pubblici censiti nella pianta organica dei Ministeri, specificamente collocati negli apparati centrali. Sarebbero diventati 11 mila nel 1876. Circa 90 mila alla fine del secolo. La spesa statale, come percentuale del Pil, si attestava intorno al 10%. Oggi i dipendenti pubblici dichiarati dalla Ragioneria dello Stato sono tre milioni e 300 mila. A questi però si aggiungono, secondo l’Istat, 38 mila tra professori universitari a contratto e ricercatori, a cui sommare i dipendenti delle partecipate degli enti locali. Vi sono poi i dipendenti delle partecipate e controllate dal Tesoro. Dai dati della Corte dei Conti, ad esempio, la Rai ha oltre 12 mila dipendenti, le Ferrovie 69 mila e le Poste 144 mila.

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Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Sandro Iacometti – Libero

Servizi funzionanti, tasse basse, burocrazia inesistente. Siamo a Liberrima, paradiso di modernità ed efficienza, dove trionfa l’ideale dello Stato minimo e si celebrano i diritti fondamentali dell’individuo. Un sogno, ovviamente, a cui Massimo Blasoni ha voluto dedicare l’ultimo capitolo del suo saggio Privatizziamo!, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubettino Editore. Imprenditore del Nordest, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione di strutture socio-sanitarie e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Blasoni maneggia con disinvoltura i grandi maestri della tradizione liberale e liberista, da Smith a Nozick, da Hayek a Friedman.

L’autore descrive, numeri alla mano, il declino dell’Italia, l’impoverimento delle famiglie, il tracollo dei conti pubblici. «Così non va», sintetizza, e una via d’uscita «è immaginabile solo rompendo gli schemi» del dibattito culturale e politico. La rottura non è il liberismo selvaggio. Quello che viene proposto è un cambio di prospettiva. Un mondo di regole e leggi (drasticamente ridotte) dove «lo Stato continua a garantire servizi, ma in modo diverso». Dove tutti, siano essi soggetti pubblici o privati, cercano sul mercato prestazioni che vengono fornite da «società in concorrenza che si sfidano su qualità, innovazione e costi».

Ma Privatizziamo! è molto più di un inno alla privatizzazione. È un appello alla rivoluzione liberale in ogni settore. Dal fisco, che ancor prima di essere più leggero dovrebbe essere semplice e trasparente, alla politica, che dovrebbe ridurre le sue competenze e i suoi rappresentanti, al lavoro, che malgrado le recenti novità del Jobs Act continua a proporre modelli di rigidità costosi e poco orientati ai bisogni di lavoratori e aziende.

Blasoni non si fa troppe illusioni sulla capacità della classe dirigente di raccogliere i suoi suggerimenti. Alla sinistra, spiega, «non si può chiedere di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale». Quanto ai moderati, bisogna riconoscere «i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze». La soluzione è quella di ripartire da zero. Cominciando da un elettorato più consapevole, che abbia ben chiaro che «il mondo intorno a noi è competitivo, non solidale» e che «lo sviluppo del nostro Paese, con più libertà e meno Stato, così come il lavoro dei nostri figli non saranno frutto di casualità, ma la conseguenza della nostra capacità di decidere per il tempo a venire e creare le occasioni per concorrere. Senza compromessi».

Una Buona Spesa. Ecco quello che manca

Una Buona Spesa. Ecco quello che manca

Massimo Blasoni – Metro

I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno costretto ad accogliere nel nostro lessico il termine anglosassone di spending review. Ad oggi manca però ancora una sua concreta attuazione nonostante la nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora insufficiente. Lo dimostra ad esempio la scarsa attenzione che la politica italiana ha a suo tempo prestato al programma quinquennale di spending review presentato a Westminster dal Cancelliere dello scacchiere George Osborne. Alla sua base c’è il concetto liberale di Enabling State, che permette di attuare una spending review che non sia una caccia a politici e funzionari “spreconi”, ma che fornisca una base forte che può essere declinata anche in parametri quantitativi.

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Blasoni: “Diamo libertà di scelta ai lavoratori”

Blasoni: “Diamo libertà di scelta ai lavoratori”

Massimo Blasoni – Panorama

L’ormai strutturale deficit di gestione dell’Inps è l’emblema dell’insostenibilità del nostro impianto previdenziale: un modello che per anni ha eluso il mercato e che ora sta provando a salvarsi con una tardiva transizione al sistema contributivo. I numeri ci dicono che si tratta di uno sforzo probabilmente non sufficiente, il cui costo verrà fatto pagare alle giovani generazioni: non esiste infatti alternativa alI’adozione di un sistema liberale basato sulla scelta del cittadino.

La gestione pubblica e monopolista della nostra previdenza ha infatti fallito, bruciando in cinque anni più di 40 miliardi di patrimonio Inps a cui si aggiungono i disavanzi annualmente ripianati dalla fiscalità generale. Ai lavoratori deve essere finalmente lasciata la possibilità dl decidere dove investire i propri contributi, optando tra una molteplicità di soggetti finanziari accreditati e vigilati dalla Stato.

Ricetta liberista senza esitazioni

Ricetta liberista senza esitazioni

Massimo Blasoni – Metro

Mentre la teoria keynesiana ha sempre privilegiato il consumo secondo logiche sostanzialmente meccanicistiche (illudendosi che fosse sufficiente elargire risorse per mettere in moto lo sviluppo), gli economisti liberali – da Jean-Baptiste Say fino a Joseph Schumpeter e Israel Kirzner – hanno insistito correttamente a più riprese sul ruolo imprescindibile dell’iniziativa imprenditoriale. Questa economia dell’offerta, basata sull’idea che senza produzione e senza una produzione ispirata dalla ricerca della soddisfazione del pubblico non ci può essere crescita né sviluppo, fu anche alla base della rivoluzione reaganiana degli anni Ottanta. Senza la cosiddetta supply-side economics, che valorizzava appunto il ruolo delle imprese e della creatività del lavoro, non ci sarebbe stata, ad esempio, la Silicon Valley e tutto quello sviluppo di informatica e telematica che ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere e produrre.

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Massimo Blasoni a MattinoCinque – Canale 5

Massimo Blasoni a MattinoCinque – Canale 5

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto a “MattinoCinque”, su Canale 5. In studio, insieme a lui, Alessandro Cecchi Paone.

Trovare un posto di lavoro non è facile né per i giovani né per chi, magari a 50 anni, l’ha purtroppo perso. Si…

Posted by Massimo Blasoni on Wednesday, March 30, 2016