massimo blasoni
Convegno “Prima le idee”
Redazione Media carlo lottieri, centrodestra, davide giacalone, impresalavoro, massimo blasoni, telefriuli
Convegno “Prima le idee” – servizio TgFriuli 3 dicembre 2014
Convegno “Prima le idee” – Interviste ai relatori
Redazione Media carlo lottieri, centrodestra, davide giacalone, impresalavoro, massimo blasoni, politica, simone bressan
Per parlare della situazione politica, ma soprattutto del centro destra, il Centro Studi ImpresaLavoro ha organizzato lo scorso 2 dicembre a Udine, presso Palazzo Kechler, un incontro in cui proporre alcuni punti di vista per contribuire al dibattito.
Ha introdotto Simone Bressan, Direttore ImpresaLavoro
Sono intervenuti:
Massimo Blasoni, Presidente ImpresaLavoro
Carlo Lottieri, Filosofo liberale, editorialista Il Giornale
Davide Giacalone, Scrittore, editorialista Libero
Intervista a Massimo Blasoni:
Intervista a Carlo Lottieri:
Intervista a Davide Giacalone:
Il servizio di TeleFriuli:
Bene il Jobs Act, ma i soldi?
Redazione Editoriali, Home impresalavoro, jobs act, lavoro, massimo blasoni, Matteo Renzi, metro
Massimo Blasoni – Metro
Riformare il mercato del lavoro non significa soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18 ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Se guardiamo alla legge delega sul Jobs Act – che prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive e la creazione di un salario minimo legale – scopriamo però che le buone intenzioni rischiano di essere sconfitte dalla cruda realtà dei fatti. Insomma, mancano i soldi o -peggio ancora – vengono spesi male perseguendo logiche superate e inefficienti. La stessa legge di Stabilità prevede solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega e d’altronde nel testo di quest’ultima approvato prima al Senato e poi alla Camera possiamo leggere che «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche? La risposta è ovviamente no.
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False promesse
Redazione Editoriali debiti PA, impresa, impresalavoro, lavoro, massimo blasoni, metro, pubblica amministrazione
Massimo Blasoni – Metro
Sappiamo bene come la politica viva di immagini e simboli in grado di far breccia nell’opinione pubblica. Chi governa tende però spesso a esagerare, contrabbandando come successi quelle che purtroppo restano soltanto promesse. Prendiamo il caso del pagamento dei debiti arretrati che la pubblica amministrazione ha con migliaia di imprese private: Renzi e Padoan sostengono di aver onorato la loro promessa di estinguerli ma i fatti purtroppo si incaricano di smentirli. I debiti di cui parlano sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013: solo per questi, infatti, è stato possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. E solo a questi debiti ci si riferisce anche quando si monitorano i risultati al 31 ottobre delle altre iniziative del governo sul tema (garanzia pubblica sulla cessione del credito, deroghe al patto di stabilità, compensazione con alcuni debiti fiscali). “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi così come certificata da Eurostat e quello dei tempi medi di pagamento così come monitorati da Intrum Justitia, ha stimato uno stock di debiti per il 2013 pari a 74 miliardi di euro. Alle stesse conclusioni è giunto anche l’Ufficio Studi di Bankitalia. Siccome fino ad oggi i debiti rimborsati sono stati solo 34 miliardi (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo affermare che la promessa del governo, a rigor di matematica, non è stata mantenuta.
Nel frattempo si è accumulato nuovo debito e chiunque può comprendere come il suo stock si possa ridurre soltanto se i nuovi debiti risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa pubblica e i suoi tempi medi di pagamento non subiranno una drastica diminuzione. I dati Eurostat ci dicono invece che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pa italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro. Contemporaneamente, l’analisi dei flussi di cassa delle amministrazioni tracciabile attraverso il SIOPE non segnala alcuna diminuzione dei tempi medi di pagamento, che restano con ogni probabilità di circa 170 giorni (altro che i 30 giorni imposti sulla carta dall’Europa!). Risultato? Lo stock di debito è rimasto invariato – cioè pari a 73,5 miliardi di euro – e i ritardi di pagamento determinano un costo del capitale a carico delle imprese italiane per oltre 6 miliardi di euro all’anno. Sulla singola fornitura, la loro incidenza è pari al 4,2%, circa 4 volte ciò che costa a un’impresa francese e a circa 7 volte ciò che costa a un’impresa tedesca.
Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti
Redazione Edicola - Argomenti, Scrivono di noi debiti PA, impresa, impresalavoro, la notizia, lavoro, massimo blasoni, pubblica amministrazione, sergio patti
Sergio Patti – La Notizia
La pubblica amministrazione non sta affatto riducendo i suoi debiti con le imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Dunque, limitarsi a liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce lo stock complessivo dei debiti: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.
«Nel caso concreto – osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa».
Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. «Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta» è la conclusione di Blasoni. «Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente».
Lo Stato paga i debiti vecchi, ma non è ancora puntuale: lo stock resta di 74 miliardi
Redazione Edicola - Argomenti, Scrivono di noi debiti PA, il tempo, impresalavoro, imprese, massimo blasoni, pubblica amministrazione
Il Tempo
Lo Stato paga i debiti vecchi ma non quelli nuovi. Con il risultato che lo stock di fatture non saldate ai fornitori è rimasto pressocché invariato. A spiegare che il vizietto dei pagamenti lunghi è rimasto una consuetudine nella pubblica amministrazione è il Centro Studi “ImpresaLavoro”. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.
«Nel caso concreto – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa». Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta. Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi. E le imprese che non ricevono il loro saldo in tempo sono costrette ad andare in banca e a pagare 6 miliardi in più complessivamente di interessi.
Massimo Blasoni ad “Agorà” – Rai Tre
Redazione Correlati, Media agorà, debiti PA, impresa, impresalavoro, lavoro, massimo blasoni, rai3
Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, ospite alla trasmissione di Rai3 “Agorà”
Incentiviamo gli acquisti
Redazione Correlati, Editoriali, Home consumi, impresalavoro, iva, legge di stabilità, manovra, massimo blasoni
Massimo Blasoni – Metro
Non occorre essere una Sibilla Cumana per prevedere che nel 2015 saremo costretti ad aumentare l’Iva complessivamente di almeno un punto percentuale. Il governo prevede infatti una crescita dello 0,6% del Pil nel 2015, dell’1% nel 2016 e dell’1,3% nel 2017. Sappiamo quanto poco valgano queste professioni di ottimismo (nel Def era prevista per quest’anno una crescita del Pil dello 0,8% e invece dobbiamo registrare addirittura una decrescita del -0,3%) ed è quindi purtroppo molto più realistico immaginare che anche l’anno prossimo il nostro Pil rimanga nella migliore delle ipotesi piatto. Questo dato comporterebbe minori entrate fiscali per 4 miliardi su base annua, compensabile solo con un immediato aumento dell’Iva. La clausola di salvaguardia, insomma, rischia di essere applicata in ogni caso, indipendentemente dall’effettivo conseguimento dei difficili obiettivi fissati dal governo Renzi: 15 miliardi dalla spending review e altri 3,8 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale. Se poi il Pil dovesse ulteriormente calare, ci troveremmo di fronte a uno scenario ancora più drammatico per i nostri conti pubblici.
Intendiamoci: le misure contenute nella legge di Stabilità non sono tutte da censurare, anzi. L’abolizione dall’imponibile Irap del costo del lavoro così come la decontribuzione per 3 anni per i nuovi contratti a tempo indeterminato sono misure intelligenti, che vanno nella giusta direzione. Tuttavia, e lo abbiamo già visto con gli effetti nulli prodotti dagli 80 euro in più in busta paga, non è detto che siano decisive per la ripresa economica. Il rischio è semmai che, in un contesto dominato dall’incertezza, imprese e lavoratori decidano semplicemente di accantonare queste risorse. La stessa Bankitalia conferma una netta ripresa dei risparmi: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca ben 37,4 miliardi. Ecco perché sarebbe più utile ridurre le imposte indirette a quanti decidono di acquistare una casa o cambiare la propria auto e al tempo stesso ridurre le tasse alle aziende che effettuano investimenti, piuttosto che ridurre genericamente l’Irap.
L’Italia è il paese peggiore per fare impresa
Redazione Edicola - Argomenti, Scrivono di noi imprenditori, imprenditorialità, impresa, impresalavoro, lavoro, massimo blasoni
Il Giornale
L’Italia non è un Paese per imprenditori, nonostante la confermata vocazione all’imprenditorialità dei suoi abitanti. Lo conferma la ricerca che il Centro Studi “ImpresaLavoro” ha effettuato elaborando i dati raccolti nell’ultimo Global Entrepreneurship Monitor (GEM), il monitoraggio dello stato dell’imprenditoria nelle principali economie avanzate che a partire dal 1999 viene condotto ogni anno sotto la guida della London Business School and Babson College. Si tratta di un’analisi puntuale effettuata da quasi un centinaio di Istituti di ricerca e che riesce a mappare il comportamento e le condizioni in cui agiscono gli imprenditori con riferimento al 75% della popolazione e all’89% del prodotto interno mondiale.
L’analisi e l’aggregazione dei 19 indicatori misurati da GEM ha permesso a “ImpresaLavoro” di elaborare un suo “Indice dell’Imprenditorialità” nei 23 principali paesi dell’Europa a 28. Ne esce purtroppo un quadro a tinte fosche: nel 2013 l’Italia è stata il fanalino di coda della classifica europea e ha perso il confronto con tutti i suoi principali competitor. L’indice misura il dinamismo e la propensione a fare impresa di ogni singolo Paese, premiando quei territori in cui gli imprenditori percepiscono migliori possibilità nell’intraprendere e ottengono migliori risultati. Svettano economie in grande crescita come Lettonia, Lituania o Polonia ma fanno segnare ottime performance anche Paesi con economie mature quali Olanda, Portogallo o Irlanda.
In particolare, nel 2013 il nostro Paese si è collocato nella classifica europea al 23esimo posto per la percentuale (2,4%) dei soggetti dai 18 ai 64 anni che sono nuovi imprenditori (non pagando salari, stipendi o altre forme di retribuzione da più di tre mesi), ha perso il confronto con quasi tutte le altre economie per la percentuale (17%) di quanti vedono buone opportunità di avviamento di un’impresa nell’area nella quale vivono ed è risultato al 22esimo posto per la percentuale (12%) delle nuove imprese che si aspettano di assumere almeno 5 impiegati nel prossimo quinquennio. L’Italia si è invece collocata al 15esimo posto – vincendo il confronto con Germania, Spagna, Gran Bretagna e Grecia – per la percentuale (9,8%) di quanti nonostante tutto intendono avviare un’impresa nei prossimi tre anni.
«Nonostante gli italiani abbiano, più o meno, la stessa voglia di intraprendere dei colleghi delle principali economie avanzate europee, difficilmente riescono a dar seguito ad iniziative di successo» osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro”. «L’ambiente in cui sono chiamati a muoversi è infatti particolarmente penalizzante rispetto a quello dei competitor europei in tema di tasse, regole, burocrazia. Concretamente questo si traduce in un bassissimo tasso di nuove imprese (siamo ultimi in Europa) e in un dato preoccupante sul fronte occupazionale: solo la Grecia fa peggio di noi in quanto a imprese che hanno intenzione di ampliare la propria base occupazionale nei prossimi cinque anni. In queste settimane – conclude Blasoni – si è a lungo parlato di regole del mercato del lavoro: il tema delle regole è certamente importante ma dobbiamo affrontare anche il tema della produzione di posti di lavoro da parte delle imprese. Se non nascono nuove imprese e se quelle esistenti non si sviluppano, rischia di rivelarsi inutile anche un’eventuale semplificazione delle regole».