massimo blasoni

Quel lusso che non possiamo più permetterci

Quel lusso che non possiamo più permetterci

di Massimo Blasoni – Metro

Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa?

Continua a leggere su Metro

Immigrazione, governo pigro

Immigrazione, governo pigro

di Massimo Blasoni – Panorama*

Per frenare i flussi diretti nel nostro continente correttamente la Commissione Europea ha correttamente proposto iniziative di sviluppo nei Paesi di origine dei migranti. Resta però una grande incertezza sui tempi e sull’entità dei finanziamenti e per il momento continuano gli sbarchi sulle nostre coste. Bloccata o quasi la rotta balcanica, in questa fase siamo la porta di accesso all’Europa. Ma quanto ci costa l’emergenza? Una stima per il 2016, prudenziale, è contenuta nel Def, il Documento di ecoomia e finanza proposto dal governo e approvato dal Parlamento. Secondo il governo il costo è di 4 miliardi e 115 milioni, cioè un miliardo e mezzo in più rispetto a quanto abbiamo speso l’anno scorso. Gli importi si dividono tra soccorso in mare, spese di accoglienza, sanità e istruzione a cui si aggiungono gli altri costi dei ministeri degli Interni e della Giustizia.

La solidarietà è lodevole e spesso necessaria, nulla da dire, tuttavia camminando per le nostre città è difficile non avere la sensazione che i profughi siano davvero molti, in prevalenza giovani maschi e forse non tutti in fuga da una guerra. È evidente che l’emergenza non è stata gestita bene ed è diventata dopo dieci anni un fenomeno ormai strutturale. Le fotosegnalazioni sono troppo lente ed è infinita la prassi che consente ai richiedenti asilo di fermarsi nel Paese anche in caso di diniego e sino agli esiti dell’appello. Tutto ciò con spese legali e mantenimento a carico della collettività. Non va dimenticato poi che il numero dei profughi sbarcati è nettamente superiore a quello degli oltre 100mila presenti nelle strutture di accoglienza. È un fatto: quelli che non risiedono nei vari Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e Cas (Centri di accoglienza straordinaria) o sono andati all’estero o si sono “persi” nel nostro Paese. Ben pochi per il momento si sono visti riconosciuto il diritto d’asilo, un po’ per la lentezza della nostra burocrazia, un po’ perché obbiettivamente non ne avevano diritto essendo migranti economici e non profughi.

L’Europa non si è dimostrata particolarmente solidale con il nostro Paese nella gestione della crisi. Sia chiaro, la concessione al nostro governo di maggiore flessibilità di bilancio per questi fini da parte di Bruxelles rappresenta semplicemente l’autorizzazione a spendere i nostri denari. Il concreto contributo europeo all’Italia è stato unicamente di 120 milioni nel 2015 e le previsioni per il 2016 sono in linea. Una cifra irrisoria se pensiamo che i costi superano i 4 miliardi. Non è così per tutti. Per la Turchia sono stati stanziati 3 miliardi di euro per gestire l’emergenza siriani. Di questi uno è a carico del bilancio europeo, il resto a carico degli Stati membri. Fatti due conti il nostro apporto supera i 300 milioni. Il fatto è che nel nostro Paese non solo aumentano gli sbarchi ma in assenza di rimpatri il numero dei migranti fisicamente presenti cresce senza un freno. Le soluzioni ovviamente non sono facili ma non è nemmeno accettabile rinviare ogni azione ad iniziative tutte ancora da definire sui territori di provenienza dei migranti. Ci sono in Europa governi pigri ed altri più autorevoli. Difficile non ascrivere il nostro alla prima categoria.

* Da “Panorama” del 21 luglio 2016

Perché assumere è vietato

Perché assumere è vietato

Massimo Blasoni – Metro

«Divieto di assumere»: non si tratta di un paradosso ma del tentativo di spiegare il comune sentire percepito da imprese e lavoratori nel nostro Paese. I licenziamenti e le mancate assunzioni di questi anni non sono solo – giova ribadirlo – la conseguenza di una strutturale crisi economica, né possono essere semplicemente imputati all’aggressività delle imprese. Sono, anzi, il frutto di un sistema antiquato, barocco e fortemente burocratizzato che pone in capo a chi deve assumere e creare occupazione un quesito amletico: mi conviene o è meglio rinunciare? Non si assume essenzialmente perché le leggi che regolano i rapporti di lavoro sono eccessivamente rigide e, oltre al costo economico, vi è un costo normativo ormai insostenibile. A tal punto che il divorzio tra datore di lavoro e dipendente risulta ormai più difficile e oneroso di quello tra coniugi.

Continua a leggere sul sito di Metro

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

Udine20 

“Sold out” per l’incontro di ieri sera a palazzo Kechler dal titolo “Estate 2016: opinioni su economia, lavoro, Tv e giornali” . Oltre duecento persone erano presenti al convegno organizzato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” che ha visto protagonisti il Presidente di “Impresalavoro”, l’imprenditore udinese Massimo Blasoni e il conduttore televisivo NIcola Porro, vicedirettore de Il Giornale e reduce dalla fortunata esperienza alla guida di Virus, in prima serata su Rai2. Introdotti dal direttore del Centro Studi, Simone Bressan, i due protagonisti sono stati incalzati dalle domande del giornalista Vittorio Pezzuto. Blasoni e Porro si sono confrontati in un acceso dibattito sull’attualità economica e sui principali temi in agenda in queste settimane: dalla Brexit alla crisi delle banche, dall’emergenza profughi al futuro delle pensioni.

In apertura, Nicola Porro ha raccontato i retroscena della sua dipartita dalla RAI parlando di “mano forte della censura televisiva”. Con una versione “politically correct”, la RAI ha dato il benservito al giornalista motivando una volontà di “trovare nuovi linguaggi televisivi”. “in un contesto storico così delicato mi hanno voluto imbrigliare, togliere la possibilità di parlare dimostrando una debolezza politica scollegata alla realtà”, ha sottolineato Porro.

Numerosi i temi di grande attualità affrontati durante la serata. Dall’immigrazione, della quale Blasoni ha evidenziato i costi, 4 miliardi di cui soltanto 120 i milioni di aiuti provenienti dall’Europa, alla Brexit e le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dallo scacchiere dell’UE. Continuando con il terrorismo per il quale Porro definisce “inaccettabile il senso di colpa occidentale” e le riforme costituzionali. Blasoni si è soffermato sulla presenza pervasiva dello Stato, definendo “troppo ampio il perimetro di azione” e ponendo l’accento sugli eccessi e sui difetti. Eccessi in quanto ”troppe persone vogliono vivere di politica”, difetti identificati nella “poca capacità degli amministratori”. Per Blasoni “bisogna ridurre la burocrazia e ridare speranza perché non sarà lo Stato a rilanciare il paese, ma le imprese”. Blasoni, imprenditore di prima generazione, in conclusione ha volutamente lanciato una provocazione: la proposta di una legge che preveda un’esperienza lavorativa di almeno 5 anni per accedere alle massime cariche politiche.

“ImpresaLavoro” è un centro studi di ispirazione liberale che promuove sul panorama nazionale studi e ricerche sui temi dell’economia e del lavoro. L’attività di ricerca è coordinata da un board scientifico presieduto dall’economista Giuseppe Pennisi, ex dirigente della Banca Mondiale e attuale consigliere del Cnel, e composto da Salvatore Zecchini (Presidente Commissione Ocse sulle Pmi), Luciano Pellicani (sociologo e professore alla LUISS) e Cesare Gottardo (professore di materie economiche). Recentemente il centro, che ha una sede anche a Roma, ha pubblicato il suo report annuale sulla Libertà Fiscale in Europa e un articolato rapporto sulla sanità digitale in Italia, realizzato in collaborazione con il Censis.

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Nessuna ripresa con un fisco così duro

Una delle ragioni cruciali della nostra crisi (e della crisi europea in cui si colloca) va individuata nell’espansione del prelievo fiscale. Se non si riuscirà a invertire il processo in atto, questo crescente spostamento di risorse dal settore privato al settore pubblico è destinato a mettere in grave crisi l’intera società occidentale. Nel corso della storia sono numerose le società fallite a causa di una tassazione abnorme: deve allora farci riflettere il fatto che nel corso del ventesimo secolo, nonostante il massiccio ricorso all’indebitamento e all’espansione monetaria, la tassazione abbia raggiunto livelli sempre più alti e sia aumentata mediamente di cinque volte nella maggior parte dei Paesi occidentali.

Continua a leggere su Metro

Università davvero all’italiana

Università davvero all’italiana

di Massimo Blasoni – Metro

Come fanno le Università a finanziare la ricerca se spendono in stipendi quasi tutti i loro fondi? Semplice, non lo fanno. Non stupisce così che i nostri atenei stentino a brillare nelle graduatorie internazionali. Nel Qs World Universities Ranking 2014-2015 l’Università italiana al primo posto è Bologna, piazzata al 182esimo (nel 2010 era la 176esima), seguita dalla Sapienza di Roma al 202esimo posto e dal Politecnico di Milano al 229esimo. Ai primi tre posti troviamo il Mit di Boston, Cambridge in Inghilterra e Harvard sempre negli Stati Uniti. La classifica tiene conto della capacità di produrre cervelli, della didattica, dei costi per gli studenti, delle pubblicazioni accademiche, del livello occupazionale degli studenti, della capacità di internazionalizzazione delle università. Tutti settori in cui non eccelliamo.

Che dire poi della proliferazione – quasi sempre ingiustificata – di mini Facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati talora dall’esigenza politica di accontentare un territorio in cambio di rinnovate alleanze, talora per giustificare questa o quella cattedra spesso ottenuta attraverso la procedura, tutta italica, dell’«idoneità multipla»? Tra il 2000 e il 2006 le Università hanno bandito 13.232 posti per professori. Ne sono usciti 26.004 idonei. Più professori, più corsi, più fondi, più potere. A tutto discapito della qualità dell’offerta. In Italia ci sono decine di corsi di laurea che non arrivano nemmeno a 15 iscritti (qualcuno con un solo studente) e comportano costi elevatissimi e una quantità d’offerta inversamente proporzionale al suo pregio. In Italia esistono più di 20 Facoltà di agraria, in Olanda una sola. Facile pensare che lì sia concentrata l’eccellenza.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio, vecchia battaglia di Luigi Einaudi, avrebbe costretto le Università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti tanto dei corsi di laurea che della ricerca. Oggi invece una laurea conseguita in una nota Università vale tanto quanto quella ottenuta dall’unico studente iscritto a Camerino. Così i migliori tendono ad andare all’estero, le aziende non assumono chi non ha le abilità richieste e ai laureati tocca adattarsi a lavori che non c’entrano nulla con la loro preparazione.

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Domani, giovedì 7 luglio, a Udine, incontro a Palazzo Kechler per un dibattito tra il Presidente del centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, e il vicedirettore de “Il Giornale”, Nicola Porro. Vittorio Pezzuto intervista gli ospiti su “economia, lavoro, tv e giornali”. Introduce il direttore di ImpresaLavoro, Simone Bressan.

udine-07-07-16

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

di Matteo Basile – Il Giornale

Taci, il capo ti ascolta. O almeno potrebbe. E potrebbe fare pure di peggio. Spiare, controllare, intromettersi. Tenerti sotto controllo. Avere un accesso diretto alla tua casella di posta elettronica, al tuo smartphone ma anche monitorare la tua produttività e addirittura avere un quadro preciso del tuo stile di vita e delle tue abitudini. Potrebbe, almeno in teoria e, chissà, forse in un futuro prossimo potrà farlo davvero. Perché la tecnologia unita alla volontà delle aziende di aumentare la produttività in periodo di crisi economica potrebbe portare a questo e altro.

Negli ultimi anni in tema di spioni aziendali è successo un po’ di tutto, per nostra fortuna soprattutto all’estero. Emblematico il caso di una segretaria negli Stati Uniti, licenziata perché in una mail indirizzata ad un’amica aveva scritto «Il mio capo è un idiota». E lui, il capo, che controllava la corrispondenza, non l’ha presa bene. Ma se in America le leggi possono consentire episodi di questo tipo, anche in Europa, dove la legislazione è più stringente in tema di spionaggio aziendale, episodi analoghi non sono del tutto assenti. A Londra, pochi mesi fa, i giornalisti del Daily Telegraph hanno trovato sotto le loro scrivanie una scatoletta con scritto «OccupEye». È bastata una ricerca sul web per scoprire che quelle scatolette misteriose contenevano sensori di movimento e temperatura capaci di rivelare ai datori di lavoro se una scrivania era occupata o meno. Niente altro che una spia in grado di monitorare quanto e come i dipendenti stavano alla loro postazione. Sollevazione generale inevitabile, proteste durissime, scuse dell’azienda e provvedimento ritirato. Ma la convinzione che sì, un giorno, l’eccezione potrebbe anche diventare norma. E potrebbe pure essere peggiore. Succede già oggi infatti che molti minatori e camionisti australiani indossino il cappellino «SmartCap» che, attraverso sensori simili a quelli necessari per effettuare un elettroencefalogramma, verifica che i lavoratori siano svegli e reattivi. Tornando al Regno Unito, i magazzinieri dei supermercati della catena «Tesco» indossano un braccialetto che traccia i loro spostamenti e la percentuale di lavoro svolto: benefit se si finisce in anticipo il proprio compito, penalità se si va in pausa senza preavviso. Ma il top si è raggiunto in Messico dove la «InterMex» ha obbligato i dipendenti a scaricare un’applicazione che tramite gps comunica in tempo reale ai vertici dell’azienda tutti gli spostamenti e i movimenti dei dipendenti. Una sorta di braccialetto elettronico come quelli installati ai carcerati in regime di semilibertà, tanto che un’impiegata ha denunciato l’azienda. E ha pure vinto. Troppo, senz’altro. Ma sarà questo il futuro che ci aspetta sul posto di lavoro?

Forse, ma non ora. Perché in Italia la legislazione parla chiaro e non consente nulla di simile. Anche se il Jobs Act ha leggermente allargato le maglie dei controlli sui lavoratori da parte dei propri capi. «Si è modificata le norma del 1970, quando esistevano solo telecamere e registratori ma non c’erano computer, posta elettronica e smartphone», spiega l’avvocato Aldo Bottini, presidente dell’Associazione nazionale avvocati giuslavoristi e tra i massimi esperti del settore. Alcune cose si possono fare ma con limiti e confini ben precisi. «Con le nuove norme si mantiene il principio per cui non si possono installare strumenti tecnologici di monitoraggio con l’unica finalità del controllo dell’attività lavorativa – spiega il legale -. Per installare strumenti tipo telecamere serve ancora un accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa. La novità è che il principio non si applica agli strumenti di lavoro come pc e smartphone che non sono assoggettati all’autorizzazione. Di fatto attraverso questi strumenti si può legittimamente controllare l’attività del lavoratore a patto che lo stesso venga informato della possibilità in maniera chiara e completa. È lo stesso principio che vige in tutta Europa. L’unica novità è che le aziende dovranno dotarsi di un’adeguata policy per l’utilizzo il controllo, il funzionamento e le eventuali conseguenze nell’abuso di tutti questi strumenti».

Il problema dunque, alla fine rischia di ricadere sulle aziende, costrette a districarsi tra norme e cavilli burocratici che complicano non poco la vita. «La legislazione italiana è un incubo, il numero di norme è elevatissimo e spesso in aperta contraddizione», attacca Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del centro studi «ImpresaLavoro». «Accanto alle sacrosante norme per la tutela della privacy ne servirebbero anche altre a tutela della produttività e di chi fa impresa». Un altro problema per le aziende sono i furbetti del certificato medico, quelli che cioè tendono a darsi malati con eccessiva leggerezza se non con cadenza regolare. «Ci sono pessime abitudine da parte di alcuni medici un po’ troppo benevoli nel fornire certificati – spiega Blasoni -. Le verifiche sono assolutamente labili e chiedere un intervento è pressoché inutile. Questo finisce per essere un ulteriore gravame per chi deve districarsi quotidianamente tra tasse, cavilli e burocrazia. Spesso si è arrivati a contese con dipendenti indifendibili che grazie all’intervento dei sindacati e a sentenze sconcertanti sono riusciti ad essere reintegrati».

Già, i sindacati. Organo a tutela del lavoratore sfruttato o maltrattato oppure ultima spiaggia per chi fa il furbo ma sa che in un modo o nell’altro, alla fine, avrà le spalle coperte? «Non scherziamo, chi commette una truffa non solo è indifendibile ma da attaccare – racconta Guglielmo Loi, della segreteria nazionale della Uil -. L’importante è agire sempre nell’ambito delle regole, dall’ultimo impiegato fino al massimo dirigente. Deve essere chiaro quali sono i limiti e quali i doveri. Un lavoratore deve essere informato con precisione quando entra in possesso di un’apparecchiatura aziendale». Anche perché il controllo sul dipendente, alla fine, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Capita spesso che il telefono aziendale resti acceso ed operativo per motivi di servizio ben oltre l’orario di lavoro. In caso di controllo eccessivo un dipendente potrebbe decidere di rendersi irreperibile finito il suo orario e, a quel punto, nessuno potrebbe lamentarsi».

Alla fine, come spesso accade, a far la differenza è il buonsenso. Ma nel dubbio è sempre meglio comportarsi secondo le regole. Perché il Grande Fratello è tra noi e, forse, guarda proprio noi. Anche sul posto di lavoro.

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

di Massimo Blasoni – Metro

Che in Italia vada ridotto il carico fiscale son tutti d’accordo. Il problema è capire quali tasse tagliare e in che misura. L’ultima legge di Stabilità prevede ad esempio che l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società (Ires) passi l’anno prossimo dal 27,5% al 24,5%. A leggere alcune dichiarazioni del governo tale norma potrebbe però essere modificata. Insomma, l’aliquota attuale non si toccherebbe per agire sull’Irpef o contribuire a scongiurare l’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia. Anche questi sono obbiettivi sacrosanti ma sarebbe un errore non continuare l’azione a favore delle imprese che è stata avviata con la riduzione dell’Irap sul lavoro.

Continua a leggere su Metro