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La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

La qualità della spesa pubblica nelle regioni italiane

di Paolo Ermano

Con il rapporto Benessere Equo e Sostenibile, l’Istat da qualche anno sperimenta un diverso modo di sintetizzare la qualità della vita in Italia. Meno sintetico del PIL, ma per questo più ampio e ricco, il Rapporto BES propone, invece di un unico numero, dodici aree tematiche, dalla salute al paesaggio, dal benessere soggettivo al lavoro, ognuna analizzata tenendo conto di diversi indicatori, per fornire una lettura più articolata della nostra società. Dal punto di vista metodologico, dove possibile questi indicatori sono poi sintetizzati in un indice composito che permette anche di fare una classifica fra le regioni in ciascun settore analizzato.

Nel rapporto 2015, l’indice composito è proposto per le seguenti aree tematiche:

1) Salute
2) Istruzione e Formazione
3) Lavoro e conciliazione tempo libero
4) Benessere economico
5) Relazioni sociali
6) Sicurezza
7) Benessere soggettivo
8) Paesaggio e Patrimonio culturale
9) Ambiente

Sono esclusi, quindi: Politica e istituzioni, Ricerca e Innovazione, Qualità dei Servizi.

Indicativamente, questi nove indici sintetici si prestano a essere valutati alla luce della spesa pubblica sostenuta nelle singole regioni. Si potrebbe supporre che laddove la spesa risulti più alta si possano osservare valori più elevati nelle variabili considerate, cioè una qualità di vita migliore.

Da questo punto di vista i dati proposti dall’Agenzia per la Coesione Territoriale nei Conti Pubblici Territoriali (CPT) rappresentano un valido supporto d’indagine.

Purtroppo, data la composizione degli indici aggregati, non è sempre facile definire quali voci dei CPT siano da imputare al singolo indicatore. Per esempio, l’indicatore del Benessere Soggettivo è la sintesi di misure che hanno a che vedere con la soddisfazione per la propria vita, soddisfazione per il tempo libero e i giudizi sulle aspettative future: variabili sulle quali è impossibile determinare quale voce di spesa possa incidere e in quale misura.

Pertanto, partendo da queste nove aree tematiche è stato possibile compiere una valutazione appropriata fra l’indice composito e le voci di spesa dei CPT solo per cinque aree:

1) Salute
2) Lavoro
3) Sicurezza
4) Istruzione
5) Ambiente

Nonostante queste limitazioni, i risultati ottenuti propongono una riflessione importante sulla spesa pubblica in Italia. Emerge infatti come solo su alcuni ambiti (sicurezza e lavoro) una maggior spesa pubblica porti effettivamente a risultati migliori. In altri, come il settore istruzione, la spesa pro-capite non spiega i risultati ottenuti nelle singole regioni. Forse è il caso di riflettere in maniera meno ideologica sull’importanza di organizzare bene l’attività del settore pubblico.

Salute

Il tema della salute è alla base del benessere individuale e per questo è il primo dei temi affrontati dal rapporto Istat. Come già indicato, l’indice composito, che in tutti i temi discussi qui è costruito in modo da dare un voto più alto a chi ottiene i risultati migliori, tende a considerare sia dati direttamente influenzati dalla spesa sanitaria volta alla cura delle persone, sia dati relativi all’attività di prevenzione. Da questo punto di vista, la voce dei CPT relativa alle spese del comparto salute copre le stesse aree tematiche: cura e prevenzione. Confrontando la classifica ricavata dall’indice composito con la spesa regionalizzata non emerge chiaramente un legame fra spesa e risultati:

 

BES1

Ad esempio, la Liguria spende circa €200 pro-capite in meno della Lombardia raggiungendo circa gli stessi risultati in termini generali. Si confrontino poi i risultati di Emilia Romagna, Toscana e Friuli Venezia Giulia: con differenze intorno ai €400 pro-capite a testa, queste regioni ottengono sostanzialmente lo stesso risultato. Se la Toscana spendesse quanto l’Emilia Romagna dovrebbe indirizzare quasi €1,5 mld alla sanità in più, una cifra davvero ragguardevole, pari a quasi ¼ dell’attuale spesa. Senza parlare della Sardegna e Piemonte: a parità di spesa pro-capite, raggiungono posizioni molto diverse in classifica.

Da questi pochi indicatori, risulta chiaro che la qualità di un servizio sanitario non è solo una questione di risorse impiegate: in un periodo di restrizione della spesa pubblica, ragionare in maniera più strutturata su come migliorare il servizio diventa una priorità.

Lavoro

Anche il tema del Lavoro viene analizzato dal BES secondo quattordici variabili che vanno a comporre l’indice sintetico. Di queste solo una misura, la soddisfazione sul lavoro, riguarda una variabile sulla quale la spesa pubblica ha una scarso potere di influenza. Per il resto, la spesa pubblica sintetizzata nelle variabili lavoro dei CPT può essere ragionevolmente considerata la leva per migliorare gli indici del BES considerati.

BES2

 

La spesa pro-capite, è bene specificarlo, dipende da due voci dei CPT: quella relativa al lavoro e quella relativa alla previdenza. Per questo è influenzata dalla presenza di strumenti come la cassa integrazione che nel 2013 aveva un peso rilevante: le regioni con un tessuto produttivo più sviluppato sono quelle che più hanno beneficiato dello strumento di tutela dei lavoratori, e quindi sono le regioni con una spesa significativamente più elevata. Tuttavia le performance delle singole regioni dipendono, di nuovo, anche da altri fattori: per esempio, nelle prime dieci regioni troviamo solo regioni del Nord con livelli di spesa molto variegati e con risultati tutto sommato comparabili. Di nuovo, sembra emergere che più che la quantità della spesa, conti la qualità della spesa.

Colpisce il ritardo del centro-sud: Abruzzo e Lazio, con livelli di spesa pro-capite pari a quelli della Provincia di Bolzano e della Valle d’Aosta rispettivamente, ottengono performance di certo meno brillanti.

Sicurezza

Il tema della sicurezza in questi anni è diventato dirimenti in molti dibattiti politici, così come nella percezione della qualità di un territorio da parte dei cittadini. Anche per queste ragioni, l’indicatore Istat prende in considerazioni dati oggettivi, come il tasso di omicidi o di furti nelle abitazioni, e li incrocia con informazioni sulla percezione di sicurezza/insicurezza della popolazione. Entrambi i fattori sono influenzati nel medio lungo periodo dalla capacità d’intervento dello Stato, per quanto fattori culturali possano incidere in maniera sostanziale sul senso di sicurezza che una comunità può garantire ai suoi membri. Come mette in evidenza la tabella, il livello di spesa pro-capite nelle diverse regioni è, nuovamente, abbastanza variegato.

BES3

Paradossalmente, ad esclusione del Lazio, il cui costo pro-capite è di gran lunga il più elevato per la presenza delle Istituzioni più importanti del nostro Paese a Roma, tendenzialmente le regioni che spendono proporzionalmente di più in sicurezza presentano un valore composito più elevato.

Interessante notare, inoltre, come le regioni più problematiche, quelle in cui i dati sulla sicurezza sono i più modesti, sono collocate tanto al Nord quanto al Sud del Paese, indicando ad opinione di chi scrive come quei fenomeni di criminalità storicamente collocati in aree geografiche ben definite del Paese oramai non rappresentino più l’unica minaccia reale e percepita alla sicurezza delle persone; non è solo una questione economica, quanto demografica: molte delle regioni che ottengono scarsi risultati nell’indice composito non sono necessariamente le più ricche del Paese, ma sono quasi esclusivamente quelle a più alta densità abitativa.

Istruzione

Ecco un settore in cui ci si dovrebbe aspettare che chi spende di più riesce a ottenere risultati migliori, in un ambito che finalmente inizia a essere unanimemente considerato strategico sia per formare cittadini consapevoli, sia per creare le condizioni di sviluppo nella nuova economia della conoscenza.

Purtroppo, o per fortuna, così non è: spesa e risultati sembrano poco correlati:

BES4

Anche in questo caso l’indicatore analizza diversi aspetti: dal livello di alfabetizzazione, alla partecipazione all’alta formazione, alla capacità di dare opportunità a chi finisce il ciclo scolastico. Se impressiona la spesa pro-capite delle Provincie Autonome di Trento e Bolzano, zone i cui dati macroeconomici certificano sia una ripresa più vigorosa che nel resto del Paese, sia un’attenzione alla formazione di persone altamente qualificate più elevata che altrove, nelle altre regioni la spesa pro-capite è sostanzialmente simile, attestandosi poco al di sotto dei €1000 pro-capite. Eppure i risultati conseguiti sono diversi, con la Sicilia, ad esempio, che arriva ultima nella classifica con una spesa identica al Friuli Venezia-Giulia, posizionato in terza posizione, primo tra quelli con un livello di spesa in linea con la media italiana.

Quindi, di nuovo, il problema non è relativo alla risorse che mancano, quanto al modo in cui queste sono spese: e, parlando di educazione, una riflessione più seria rispetto alla semplice quantificazione delle dotazioni è d’obbligo per garantirsi gli investimenti in capitale umano necessaria rilanciare l’economia e la società italiana.

Ambiente

L’ultimo indicatore che abbiamo preso in considerazione è quello ambientale. Sempre più spesso ci troviamo a fare i conti con i danni derivati da un clima sempre più bizzoso e imprevedibile a causa del cambiamento climatico. Per rispondere a questo mutamento delle condizioni ambientali, investire sul territorio in termini preventivi diventa un elemento critico per garantire una gestione normale di eventuali eventi metereologici eccezionali.

In questi termini, l’indice composito riferito all’ambiente permette una prima valutazione della qualità di un territorio e degli investimenti fatti per garantire una sua stabilità ecologica.

bes5

Di nuovo, riemerge la grande varietà negli impegni di spesa: abbiamo regioni dove si spendono meno di €100 a testa e regioni in cui la spesa pro-capite supera di molto questa soglia. Tanta varietà per un territorio così complesso non sembra essere una risposta ottimale al problema della qualità dei territori. E colpiscono i risultati non certo lusinghieri di regioni, come ad esempio la Toscana, dove il territorio rappresenta un asset chiave per lo sviluppo economico del turismo e per la preservazione di un patrimonio artistico-culturale unico al mondo. Lo stesso potrebbe dirsi per la Regione speciale Sicilia.

Forse il regionalismo in ambiti come questi, in cui si deve preservare lo spazio e quindi l’identità di una comunità, dovrebbe essere ripensato in un’ottica di maggior accountability dell’azione di governo. Oramai sembra un obbligo più che una delle possibili proposte.

Il Fus resiste (o no?)

Il Fus resiste (o no?)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

Ammesso pure che per le regioni non ci sia la possibilità di “scontare” risorse dai fondi aggiuntivi per la sanità concordati con l’esecutivo, alcuni governatori adesso si mostrano pronti in linea di principio ad accogliere la sfida di Renzi. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ieri ha annunciato per esempio l’intenzione di “riorganizzare il servizio in tre aziende sanitarie ospedaliere universitarie al posto delle attuali 16. Tuttavia – e questa per certo sarà la seconda linea di difesa rispetto all’esecutivo – anche le riorganizzazioni più drastiche richiedono tempo per generare risparmi. Linea cui si potrebbero opporre alcuni dati pubblicati dalla Corte dei Conti, non esattamente un bastione di turbocapitalisti prevenuti con la Pubblica amministrazione: dal 2003 al 2008, cioè alla vigilia dell’inizio della crisi, la spesa regionale è cresciuta dell’53 per cento all’anno, con una frenata soltanto a partire dal 2009. Poi ci sono vicende patologiche che arrivano ai giorni nostri, e che contraddicono la retorica di chi agita lo spauracchio degli ospedali da chiudere: la stessa Corte dei Conti infatti, nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, osserva che “spesso i bilanci regionali si giovano delle risorse destinate alla sanità per far fronte ad esigenze di liquidità in altri settori”.

Non a caso alcune regioni tentano timidamente di differenziare la propria posizione rispetto a quella del “Fronte unico spendaccíone”: “Il fronte unico si forma per contrastare la palese irragionevolezza della proposta – dice al Foglio Massimo Garavaglia, assessore all’Economia della Lombardia, già deputato e senatore della Lega nord – Dopodiché al governo, che nella legge di stabilità propone di suddividere i 4 miliardi di tagli in base a popolazione e pil delle diverse regioni, chiediamo piuttosto di applicare i “costi standard”. Garavaglia fa un esempio, diverso da quello più noto della siringa che ha un costo diverso da Asl a Asl: “In Lombardia la spesa pro capite per il personale e di 19,8 euro. Quella della Basilicata è di 97,1 euro. Ridurre la spesa in modo ragionevole vorrebbe dire per esempio portare tutti e due a 18 euro, così da accrescere i risparmi. E non invece concedere con la stessa legge di stabilità 40 milioni di euro, o 1.200 euro pro capite alla sanità del Molise solo perché alla vigilia di un voto locale”. L’esecutivo della regione Lombardia, inoltre, è certo di avere “la giurisprudenza” dalla propria parte: già nel 2013, conclude infatti Garavaglia, la Corte costituzionale si è espressa contro i tagli lineari alle regioni. Procedere con la legge di stabilità di oggi vorrebbe dire dunque andare incontro a un’altra bocciatura, facendo automaticamente mancare le coperture per le misure dell”esecutivo Renzi.

Un terzo degli ospedali nella lista degli sprechi. Persi 4 miliardi all’anno

Un terzo degli ospedali nella lista degli sprechi. Persi 4 miliardi all’anno

Paolo Russo – La Stampa

Ospedali spreconi e pericolosi. Perché mantengono in piedi reparti che vanno sotto giri e che dovrebbero chiudere i battenti o essere riaccorpati. E perché fanno così poca pratica da mettere a rischio gli ignari pazienti. Mentre le regioni continuano a battere cassa con il governo, il ministero della Salute presenta il «Piano esiti», fotografia delle performance dei nostri ospedali che, nonostante qualche miglioramento rispetto agli anni precedenti, descrive un quadro ancora desolante. Oltre che a rischio per migliaia di pazienti. Quelli che vanno a ricoverarsi in reparti che trattano meno casi degli standard minimi di sicurezza fissati da fior di studi internazionali. Quanti sono ogni anno li hanno calcolati i tecnici del dicastero: 48mila e 500 ogni anno. Per cose come by pass aortocoronarico (77% degli ospedali sotto la soglia dei 200 interventi), al colon (79% sotto la soglia di sicurezza di 50 interventi), al polmone (84% sotto i 100 interventi), alla mammella (76% sotto i 150 interventi), allo stomaco (84% sotto i 20 interventi). E i grafici dimostrano che la curva della mortalità sale proporzionalmente con il diminuire dei pazienti trattati.

Un vizietto, quello di mantenere in piedi i reparti inutili e costosi, che si stima riguardi circa un terzo dei nosocomi italiani. Uno spreco, oltre che un rischio. Così come soldi buttati sono quelli per i ricoveri inappropriati. Ad esempio una colecistectomia operata in via laparoscopica, ossia senza bisturi, andrebbe trattata in day surgery, ovvero senza ricovero, ma solo il 15% degli ospedali lo fa. E così via per broncopneumopatia, interventi alle tonsille, isterectomia. In qualche ospedale si occupano letti persino per una banale gastroenterite pediatrica.

Tra reparti da sbaraccare e ricoveri inutili l’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, stima uno spreco tra i 3 e i 4 miliardi. Guarda caso gli stessi che Renzi ha chiesto alle regioni. Che per la Lorenzin «non possono intervenire sul Fondo sanitario che la legge di stabilità conferma per il 2015 a 112 miliardi». Due in più di quest’anno. Ma su ricoveri a rischio o inappropriati il ministro non fa sconti ai Governatori: «disparità e differenze tra regioni non sono più accettabili» e i direttori generali delle Asl che non si adegueranno agli standard virtuosi del «Piano esiti» stiano attenti perché «sarà il ministero questa volta a commissariarli». Una minaccia alla quale il Presidente della federazione di Asl e ospedali (Fiaso), Francesco Ripa di Meana, replica ricordando che «nonostante i coni d’ombra un miglioramento delle performance c’è stato è questo è frutto della spending condotta dalle aziende sanitarie in questi anni».

Che la nostra sanità marci a velocità diverse da un’area all’altra del Paese lo dimostra una elaborazione della regione Toscana sui dati del Piano esiti. Il maggior numero di ospedali con le migliori performance fa salire in ordine sul podio : la Valle d’Aosta, la stessa Toscana (che sarebbe prima calcolando che ha anche il minor numero di quelli sotto gli standard) e Trento. Seguite a ruota da Emilia Romagna, Friuli, Lombardia e Piemonte. Leggendo la classifica al contrario, ossia per numero di ospedali con i peggiori standard, maglia nera è la Campania, seguita da Calabria, Puglia e, a sorpresa, Bolzano. Medie che ancora non dicono però tutto sulle disparità tra una struttura e l’altra. Un by pass coronarico dovrebbe oramai essere una passeggiata. E lo è al San Michele di Gemona in Friuli e all’Ospedale di Orbetello in Toscana, dove la mortalità è pari a zero. Non certo ai Santissimi Anna e Sebastiano di Caserta, dove la mortalità è di un raccapricciante caso su dieci. Oppure prendiamo la frattura al femore. Se non viene operata entro le 48 ore si rischia di rimanere in carrozzella o peggio ancora. Essere tempestivi insomma non è un optional. Ma oltre la metà degli ospedali italiani quel termine non lo rispetta.

Sanità, gli sprechi sui ricoveri: mensa, rifiuti, bucato

Sanità, gli sprechi sui ricoveri: mensa, rifiuti, bucato

Claudio Antonelli – Libero

La sanità non smette mai di stupire. Ieri abbiamo spulciato le enormi differenze di costo per prestazione che separano il Veneto dalla Campania e Bolzano da Aosta. Andando a setacciare le spese non sanitarie (per un pasto o per la lavanderia dei pazienti) si scopre che anche all’interno della stessa Regione ci sono Asl o strutture ospedaliere che spendono per lo stesso servizio anche 8 volte tanto. Con una forbice abissale e ingiustificata. Prendiamo la spesa media per nutrire un degente (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) negli ospedali del Lazio. La media si avvicina ai 140 euro, ma ci sono strutture che ne spendono 200 e altre 24. Senza uscire dai confini della regione. Il Piemonte viaggia sulla stessa onda spendendo da un minimo di 55 euro a un massimo di 200. L’Emilia Romagna stringe di poco la forbice: da 49 a 175. Il Veneto per lo stesso servizio spende una media di 70 euro con picchi compresi tra i 25 e i 100. La Regione più virtuosa nel fare economia di scala per l’alimentazione dei degenti è in assoluto la Basilicata. Spesa media 45 euro e pochissima fluttuazione: non più di 50 euro e non meno di 37. Prendendo tutti i valori di spesa e facendo una semplice media nazionale il risultato sarebbe un bel 96 euro, ma il compito dei costi standard è ben diverso. Si tratta di far emergere comportamenti come quelli della Basilicata e spezzare le dinamiche della Campania che pur avendo sbalzi inferiori al Lazio chiude la classifica con una media di poco inferiore ai 150 euro.

Se il nutrimento dei pazienti vi ha stupito, le differenze di costi per lo smaltimento dei rifiuti appaiono stratosferiche tanto da lasciare senza parole. Le Asl in Valle d’Aosta sborsano (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno) sei euro e mezzo, quelle lombarde circa 20 centesimi. Entrambe le Regioni non hanno picchi. Al contrario dell’Abruzzo che non solo si piazza con una spesa elevata media (quasi 4 euro) ma anche con sbalzi che viaggiano tra i 2,3 euro e i 7,5. Se prendiamo la stessa tipologia di spesa ma applicata agli ospedali (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006), Milano smette di essere la più virtuosa (media di circa 20 euro e picchi compresi tra gli 8 e i 45 euro) e lascia il podio alla Sardegna che si attesta su una media di 8 euro e un massimo inferiore ai 20. Se invece si torna a valutare le Asl, quelle sarde spendono di media 2 euro (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno). Esattamente dieci volte tanto quello che spendono le Asl lombarde.

Non da meno appare il capitolo pulizia e lavanderia. Per le strutture ospedaliere (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) è possibile identificare un valore di riferimento su base nazionale di circa 196 euro. Ma è quasi teoria. A Napoli la media è di 250 euro. In alcune strutture se ne spendono 50 e in altre addirittura 550. Il Friuli Venezia Giulia e il Veneto spendono invece 200 e 220 euro senza picchi. Il Lazio risulta sostenere i costi più elevati nella media con massimi fino a 450 euro. La Puglia ha una media di 140 euro e una forbice compresa tra 130 e 150.

Se poi si passa alle Asl (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno) la classifica cambia di nuovo. La Puglia scende a metà graduatoria. Spende 15 euro di media per residente, 25 come punta massima e 8 come cifra minima. Le Asl lombarde, le più virtuose, battono tutte le altre con 2 euro per residente, senza alcun particolare sbalzo. Spendendo di fatto addirittura 68 euro in meno rispetto all’Asl di Bolzano che paga di più per smaltire i rifiuti. Evidentemente in Lombardia si fa economia di scala, a Bolzano tutte le Asl in ordine sparso. Uno spreco assurdo.  Che secondo uno studio di due anni fa (su dati del 2006) dal titolo “Analisi del Trend delle spesa sanitaria” redatto dalla Cattolica di Roma e dall’Università di Tor Vergata vale complessivamente circa 900 milioni di euro all’anno. Intervenendo con una spending review sulle sette micro aree di spese prese in considerazione (dalle pulizie al costo dei pasti) che pesano non più del 4,5% del budget sanitario totale si potrebbe risparmiare tra il 27% e il 33% dei costi messi a budget.

Stando ai numeri dello stesso studio dagli sprechi sembra salvarsi solo la spesa per i farmaci. Calcolando il costo delle strutture ospedaliere per paziente (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) il valore nazionale è di 500 euro. E gli sbalzi sono contenuti, a parte il Friuli che ha dei picchi di 3.500 euro. Mantenendo però una media ponderata di circa 550 euro. Di altra natura la tabella che può essere considerata riassuntiva. Per l’acquisto di beni e servizi da parte delle Asl (valore calcolato per giornata di degenza pesata sulla media della popolazione residente) la Regione Lazio spende mediamente 400 euro, il Veneto 350 e la Basilicata 470. E anche qui l’anomalia è nei picchi. Il Lazio spazia da un minimo di 150 a un massimo di ben 1000 euro, il 150% in più della media regionale. Lo stesso la Basilicata, che viaggia tra i 320 e i 600 euro. La Lombardia si attesta su una media di 320 euro, ma con oscillazioni tra i 200 e i 500. Comunque poco se si considera che tra il massimo lombardo e quello laziale c’è esattamente il 100% in più.

Non è dunque difficile capire che con una gestione oculata dei prezzi in poco tempo si risparmierebbero l’equivalente di mezze leggi Finanziarie. Il vantaggio é ancora più evidente se si considera che la spesa complessiva (e non solo quella delle micro aree analizzate dallo studio) delle Asl alla voce “servizi non sanitari” ammonta a 4 miliardi e 436 milioni in un anno. Ogni giorno di degenza (giornata di degenza pesata) comporta per un’Asl una spesa di oltre 800 euro a paziente. Su questa somma i servizi non sanitari – dati forniti da Altroconsumo – incidono mediamente per 63 euro al giorno. Ma in media. In Lombardia tale spesa si limita a 22 euro e in Umbria è quattro volte tanto (92 euro). Alla Ulss di Pieve di Soligo (Treviso) le utenze telefoniche costano 580.000 euro all’anno, pari a 3,27 euro per giorno di degenza. All’Asl H di Roma la stessa bolletta pesa per quasi 2 milioni di euro all’anno, pari a 5,91 euro per ogni giorno di degenza. Applicando lo stesso sistema di calcolo dello studio della Cattolica e di Tor Vergata, il risparmio complessivo solo nelle Asl sarebbe di circa 1,2 miliardi. Ma non è finita. Se tutte le strutture regionali fossero allineate ai costi standard – ha spiegato uno studio del Cerm del 2010) nel 2009 avremmo potuto risparmiare ben 4,3 miliardi di euro.

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Sanità e dipendenti, tutti i tagli possibili per le Regioni sprecone

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Discuto con tutti, ma le Regioni facciano la loro parte perché hanno qualcosa da farsi perdonare». Il premier Matteo Renzi non vuole toccare l’impostazione della Legge di Stabilità, ma dovrà fare i conti con un mostro a venti teste (21 se includiamo il superautonomo Alto Adige). Quei 4 miliardi di tagli previsti sono stati proprio maldigeriti, anche se, a conti fatti, si tratterebbe di solo di risparmiare 2 miliardi in quanto le dotazioni per il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra gli enti locali è stato aumentato di 2 miliardi per l’anno prossimo.

Ed è proprio da quei 110 miliardi che l’anno prossimo saliranno a 112 che si potrebbe partire per tagliare qualche spreco. Non foss’altro perché tale maxistanziamento finisce sempre per rivelarsi insufficiente, tant’è vero che alla fine del quarto trimestre 2013 – sia che fossero sotto piano di rientro sia che non lo fossero – le Regioni hanno accumulato altro deficit sanitario per circa un miliardo, un terzo dei -3 miliardi del 2012. Tra il 2002 e il 2013 la spesa sanitaria è cresciuta in media del 3% annuo a fronte di un incremento medio annuale del Pil dell’1,7 per cento. Non c’è stata, perciò, proporzionalità tra le due variabili. Anche se è in lenta discesa il costo del personale sanitario ammonta ancora a 36 miliardi, mentre l’acquisto di beni e servizi (ivi inclusa la farmaceutica) è in costante aumento e l’anno scorso ha toccato quota 29,2 miliardi. Se una sanitaria perugina (lo hanno testimoniato Le Iene mercoledì scorso) vende un plantare per bambini a 69 euro a un privato e a 172 euro alla Asl? Ci sarà un motivo se una colonscopia costa circa 103 euro in tutta Italia e ben 175 in Val d’Aosta? La risposta sarebbero i famosi costi standard, ovvero l’allineamento ai criteri di economicità dei servizi, ma chissà perché in ambito sanitario hanno fatto quasi tutti orecchie da mercante.

I governatori non riescono inoltre a fare molta economia nemmeno sul personale dipendente. Secondo uno studio di Confartigianato, oltre 25mila dipendenti sono di troppo (la sola Sicilia ne conta 19mila, più di quelli del governo britannico), un surplus che costa 2,5 miliardi di euro. Ancor più severa è stata Confcommercio che non ha misurato solo i costi del sistema-Regioni, ma anche la loro produttività. Ebbene, prendendo come esempio la virtuosa Lombardia con 2.651 euro di spesa pro-capite (il livello più basso a fronte di buoni servizi e il 23% di personale in meno rispetto alla media italiana), si potrebbero risparmiare ben 82,3 miliardi di euro. Un quarto di questo sbilancio si concentra in Sicilia (13,8 miliardi) e in Calabria (6,4 miliardi), anche se la spesa pro capite più elevata è quella di Trentino (3.669 euro) e Valle d’Aosta (5.400 euro, oltre il doppio di Milano & C.). Sì, c’è molto da farsi perdonare se, ad esempio, la Regione Calabria ha buttato decine di milioni in assegnazione di incarichi dirigenziali e di contratti di consulenza a soggetti privi dei requisiti necessari.

E va ancora peggio se si considera la giungla delle oltre 400 partecipate regionali. Oltre 100 milioni di perdite, 1,5 miliardi erogati a vario titolo e una decina di miliardi di indebitamento a carico della collettività. Non fossero poco più che stipendifici avrebbero anche un senso, ma se si ricordano i fallimenti dei corsi di formazione e il proliferare di competenze, soprattutto in ambiti strategici come il turismo non se ne può uscire soddisfatti. Ecco, i governatori hanno tutti moltissimo da farsi perdonare. Nessuno, però, lo ammetterà mai: molto più facile aumentare le addizionali.

Insanità regionale

Insanità regionale

Davide Giacalone – Libero

Posto che la pressione fiscale generata dagli enti locali è aumentata dell’80 per cento in quattordici anni, senza che sia diminuita quella nazionale, posto, quindi, che da tre lustri gli italiani s’impoveriscono e perdono competitività anche per finanziare enti la cui utilità è nota più che altro a chi li abita, è facile capire il perché non si trovi divertente la polemica fra il governo e le regioni. Oltre tutto giocata usando il linguaggio della più sciatta demagogia: “spreconi”, da una parte, “affamatori”, dall’altra. I governatori regionali, abituati a batter cassa presso il governo, non s’aspettavano di trovarsi di fronte chi usa la cassa per battergliela in testa. Molti di loro sognarono il partito di “lotta e di governo”, eccoli serviti: salvo che usa la lotta demagogica contro di loro.

Piuttosto che l’opera dei pupi, però, si possono fare operazioni interessanti: chiudere la tragica storia della sanità regionalizzata, che con la riforma Bindi, del 1999, elevò a sistema la militarizzazione partitocratica dell’amministrazione, e con la riforma costituzionale del 2001 stese una pietra tombale sull’idea che la salute e la sanità fossero questioni di competenza nazionale. Due operazioni “Made in left”, così anche i newcomers capiscono. Contabilizzati i disastri è ora di farla finita.

Inutile continuare a polemizzare sul costo delle siringhe. Anche stucchevole e oltraggioso, perché sentendolo ripetere da anni, da governi e governanti di ogni colore, il cittadino si chiede: ma a chi lo stanno dicendo? Se il sistema fa così schifo, e lo fa, lo cambino. La soluzione non è che le tasse per coprire quei costi siano a cura degli enti locali anziché dello Stato, dato che a pagare sono i medesimi italiani. Semmai si deve avere il coraggio di spiegare perché il politico regionale nomina i capi dell’amministrazione sanitaria e perché l’organizzazione che presiede alla difesa della mia salute debba essere regionale. Non saprei spiegarlo, perché lo considero sbagliato.

Fin qui ci si è trastullati con le siringhe e i costi standard, che già di loro sono un non senso: se l’acquirente compra molto materiale sanitario e molti farmaci, bandendo una gara fra fornitori, è ovvio che riesce a spuntare un prezzo migliore rispetto a venti acquirenti che comprano un ventesimo e bandiscono centinaia di gare. Oggi le regioni ricevono un rimborso, dallo Stato, pari alla media dei tre migliori prezzi. A parte che il prezzo adottabile dovrebbe essere il più basso, non una media, quando comprano pagando più degli altri generano nuovo debito, che si somma a quello immenso, già esistente. Quando, sventuratamente, negli anni 70, si chiusero le mutue queste lasciarono un immenso patrimonio immobiliare, avendo fornito assistenza a tutti i mutuati. Oggi ci sono solo deficit e debiti. Cosa serve di più per capire che la regionalizzazione è una follia?

Senza mai dimenticare che la qualità media dell’assistenza sanitaria, in Italia, è ottima. Purtroppo con vergognose sperequazioni interne (ulteriore conferma della pessima regionalizzazione), ma mediamente fra le migliori al mondo. Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che il nostro problema non sono i medici, ma gli amministratori. Ed è questo il lato positivo: per formare buoni medici ci vogliono anni, per mandare a casa cattivi amministratori, protettori di amministrativi nullafacenti, soci di sindacati corporativi, ci vogliono, a saperlo e volerlo fare, un paio di mesi. A patto di non perderli in battibecchi degradanti e di utilizzarli per fare vere e sane riforme.

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Sforbiciata sulla Sanità e sui trasporti per il pendolari

Paolo Russo – La Stampa

La legge di stabilità rischia di falciare i servizi sanitari delle regioni più virtuose e i treni dei pendolari. Il contributo richiesto ai governatori è ancora di 2 miliardi, anche se si tratta per abbassare l’asticella a 1,5-1,2 miliardi. Un taglio «fai da te», perché il governo non indicherebbe alcuna misura per conseguire il risparmio, ma lascerebbe mani libere alle Regioni. Libere per modo di dire, visto che 1’80% dei loro bilanci è assorbito dalla sanità e la restante parte in larga misura dal trasporto regionale. Messa così la sforbiciata altro non sarebbe che un taglio lineare, destinato a mettere con le spalle al muro proprio chi in sanità la spending review l’ha già fatta. Per indorare la pillola potrebbe non essere iscritta a deficit la spesa per investimenti, mentre un aiutino alle Regioni arriverebbe dalla conferma anche per il 2015 del 5% di taglio dei prezzi dei dispositivi medici.

Per risparmiare quei 2 miliardi il menù sanitario esiste già. È quello del Patto per la salute, sottoscritto appena a fine luglio da governo e Regioni che contiene misure per 10 miliardi di risparmio in tre anni. Quel Patto prevede prima di tutto la centralizzazione degli acquisti, sconosciuta a larga parte delle Asl del Sud. Poi la razionalizzazione della rete ospedaliera, con la chiusura e il riaccorpamento dei reparti sottoutilizzati o con performance scadenti. Tutte misure largamente applicate dalle regioni a Nord del Lazio. Dietro l’angolo potrebbe esserci l`aumento di ticket. A fine novembre i tecnici di Stato e Regioni sforneranno la proposta che riduce il numero degli esenti per rendere meno salato il contributo chiesto per visite specialistiche e accertamenti diagnostici.

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Il buco nero dei debiti dello Stato? E’ nella sanità

Paolo Baroni – La Stampa

I debiti arretrati della Pa? Al 23 settembre fa sapere finalmente il Tesoro, aggiornando i suoi dati, sono stati pagati 31,3 miliardi su 38,4 già erogati e le risorse stanziate (57 miliardi) «sono più che sufficienti a smaltire il debito patologico». In realtà, sul fronte dei pagamenti, restano molti buchi neri, a cominciare dalla sanità.

Tra gennaio e luglio infatti, secondo i dati elaborati da Assobiomedica, la federazione di Confindustria che raggruppa i fornitori di apparecchiature, una Asl su tre, ovvero 69 aziende su 226, i tempi li ha addirittura allungati. Il record spetta all’Azienda Sanitaria Mater Domini di Catanzaro, che a gennaio pagava in 1301 giorni e a luglio era arrivata a 1401 (+100) conquistandosi così il primato nazionale di peggior pagatore nel campo della sanità. Alle sue spalle si piazzano l’Azienda provinciale di Cosenza che paga in 1025 giorni, l’Azienda pugliese Ciaccio (907), l’Azienda regionale di Campobasso (833) e l’Asl Napoli 1 che paga in 855, ma che però da inizio anno è riuscita a tagliare ben 234 giorni. Meglio ha fatto solo l’Ospedale San Sebastiano di Caserta che di giorni ne ha recuperati addirittura 314 ed è sceso a quota 443. In tutto sono 20 le aziende che in questi ultimi mesi hanno ridotto i tempi di pagamento in maniera significativa (da 3 a 8 mesi), tra queste 4 aziende della capitale (Roma B, Roma E, Gemelli e Sant’Andrea), il Cardarelli di Napoli e l’ospedale di Careggi. Anche l’Asl di Rimini è riuscita a «buttar giù» 90 giorni, passando da 133 a 42 giorni e stabilendo così il miglior risultato assoluto. Le situazioni più pesanti riguardano le regioni commissariate, col Molise che ha una media di 862 giorni, la Calabria di 841, la Campania di 341. Al Nord la Lombardia paga invece in 92 giorni, l’Emilia in 152, il Piemonte in 243.

Nel campo della sanità il meccanismo della certificazione dei crediti avviato dal Tesoro serve, ma non risolve. Perché, ad esempio, ben 1,39 miliardi di crediti sui 3 che in totale spettano alle imprese che producono i dispositivi medici non possono essere certificati perché i debiti delle Regioni commissariate sono esclusi dal meccanismo. «È assurdo che questo che rappresenta il pregresso più antico, debba essere saldato chissà quando», protesta Stefano Rimondi presidente di Assobiomedica. Che segnala pure problemi col sistema bancario, con istituti «che impongono tassi anche superiori» all’l,6% fissato dal Tesoro.

Secondo Luigi Boggio, amministratore delegato della filiale italiana della B Braun, una multinazionale tedesca del settore da 5,1 miliardi di fatturato, la piattaforma informatica del Tesoro «non è uno strumento utile». «È complicato – spiega – non consente un caricamento massivo delle fatture, ma bisogna inserirle una per volta e ad ogni anomalia la fattura viene sospesa. Molto meglio fare da soli: noi sul recupero crediti investiamo molto di nostro, abbiamo 8 persone che girano l’Italia, visitano i clienti, e ci consentono di sbloccare molte situazioni». In questo modo la «B Braun» riesce a incassare in 158 giorni contro una media nazionale di 201. «Ma la Romania per pagarci impiega 70 giorni in meno, l’Ungheria 50, la Bulgaria 40, Spagna e Russia 30. Perché? Perché – risponde Boggio – da noi c’è tutto un sistema informatico-amministrativo che non funziona. Senza contare che in certe regioni del Sud se non chiedi le fatture se le tengono nel cassetto ed è come se non esistessero».

Che fare se la Sanità non regge più

Che fare se la Sanità non regge più

Luigi La Spina – La Stampa

In teoria, il nostro è il miglior sistema sanitario del mondo, perché assicura l’assistenza gratuita a tutti. Lo sarebbe senz’altro, se fosse vero. È questa una delle tante illusioni di cui l’Italia si è fatta vanto in questi anni, compatendo non solo i poveri americani che hanno dovuto aspettare Obama per contare su una sanità un po’ più accessibile, ma anche i vicini di casa europei che possono godere, forse, di strutture ospedaliere più moderne ed efficienti, ma che pagano di più per essere curati. Ora, sembra che non sia più possibile continuare a mascherare la reale situazione di disagio e, in alcuni casi, di vera ingiustizia a cui sono sottoposti tanti italiani che si ammalano, perché in molte regioni italiane la spesa pubblica per la sanità continua a crescere in maniera incontrollata, con il rischio che il nostro sistema di welfare faccia crac. Al di là dei solenni impegni di risanamento delle nuove giunte regionali, dopo la consueta denuncia degli sprechi attribuiti alla precedente amministrazione, i costi della sanità pubblica continuano a crescere per motivi del tutto comprensibili.

La prima causa è quella demografica: il continuo allungamento delle speranze di vita, confortante soprattutto per noi italiani rispetto alle popolazioni di altri paesi del mondo, lo è meno per chi dovrà fornire le cure indispensabili ad anziani sempre più numerosi. Anche perché sono arrivati e stanno per arrivare alla soglia della vecchiaia, generazioni nate dopo il secondo dopoguerra, nel periodo del cosiddetto «baby boom». Per tutti costoro dovranno provvedere i contributi allo Stato di figli e nipoti, poveri nel numero e ancor più poveri nella capacità finanziaria di stipendi a rischio di precarietà e di tagli imposti dalla crisi.

Pure il secondo motivo della futura insostenibilità del nostro sistema di welfare deriva dal progresso, quello della moderna medicina. Ormai i costi per procurare ai nostri ospedali le più avanzate attrezzature diagnostiche e chirurgiche, ma anche per assicurare ai malati i farmaci più recenti, sono aumentati in maniera impressionante. Né sarebbe augurabile che si facessero risparmi in questi necessari investimenti, pena una assistenza di serie B rispetto alle altre nazioni dell’Occidente. È vero, inoltre, che sprechi e inefficienze sono assai diffusi, ma sull’esito delle rituali battaglie propagandistiche dei nostri amministratori regionali è bene far poco conto: l’assistenza sanitaria è un enorme bacino di clientelismo politico, di potere baronale e sindacale, anche quando non si registrano casi di corruzione penalmente perseguibile. Queste fortissime macchine di resistenza corporativa innalzano muri di gomma di fronte ai quali anche i migliori propositi di riforma e di razionalizzazione delle spese sono destinati a infrangersi.

Ecco perché lo slogan del welfare all’italiana, «sanità gratuita per tutti», è una illusione che tradisce la realtà. Quella di chi, di fronte alle lunghissime liste d’attesa per un intervento chirurgico, per una visita specialistica, ma anche per un semplice controllo di prevenzione, è costretto a rivolgersi alle cure di una struttura privata, con costi salatissimi. Quella di numeri che dimostrano le evidenti contraddizioni del sistema, basti osservare che quel cinquanta per cento della popolazione esente da ticket costituisce l’ottanta per cento degli assistiti da parte del servizio pubblico nazionale. Quella di coloro che non possono usufruire dei cosiddetti «livelli essenziali d’assistenza», perché i deficit delle sanità regionali sono tali da costringere i dirigenti a ridurre personale e strutture anche in quei settori. È ora di colmare il divario insopportabile tra illusione e realtà del nostro welfare sanitario, prendendo atto di un sistema che non regge più e che, soprattutto, non reggerà più nel prossimo futuro. Assicurare l’assistenza gratuita a coloro che non si possono permettere le cure è non solo un diritto del cittadino, ma un dovere di uno Stato civile. Garantirlo a tutti non è più possibile e prometterlo vuol dire perpetrare una truffa.