sergio marchionne

A Landini non resta che lo share

A Landini non resta che lo share

Il Foglio

Cinque adesioni su 1.478 dipendenti. È il risultato dello sciopero indetto per il 14 febbraio e per i prossimi due altri sabati, dalla Fiom-Cgil nello stabilimento Fiat Chrysler Automobiles di Pomigliano d’Arco, dove si produce la Panda per la quale c’è un boom di richieste. Il sindacato di Maurizio Landini era stato l’unico a prendere le distanze da quanti – compreso il segretario generale della Cgil Susanna Camusso – avevano salutato come assolutamente, e diremmo ovviamente, positivo l’annuncio di Sergio Marchionne di 1.500 nuove assunzioni all’altra fabbrica di Melfi, oltre alla fine della cassa integrazione. Da Melfi escono la Jeep Renegade, che ha avuto in Italia ed Europa un grande successo e che ora verrà esportata negli Usa, e la nuova 500X, sulla quale sono riposte altrettante attese.

In generale è tutto il settore auto – in pratica FCA – ad aver già registrato un record di produzione a dicembre, più 30,4 per cento rispetto allo stesso mese 2013, e oltre il nove per cento nell’intero anno: una buona spinta alla fine della recessione. A poche ore dalla diffusione di questi dati la Fiom ha invece proclamato i tre sabati di sciopero presentandoli come “non ideologici ma sull’organizzazione dei turni”. Landini, che ha portato Marchionne in tribunale e davanti alla Corte costituzionale (che gli ha dato ragione) proprio per il referendum di Pomigliano che aveva visto sconfitta la Fiom, furoreggia sui media e nei talk-show, dove già minimizza il flop: “Non sono pentito, sapevo che sarebbe andata così”. Non gli resta che lo share. Quello televisivo però, perché in fabbrica è un po’ bassino: cinque su 1.478 equivalgono allo 0,33 per cento.

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Confindustria è un residuo del passato, Renzi e Marchionne l’hanno rottamata

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Non c’è solo il patto del Nazareno a dettare tempi e condizioni del cambiamento. In economia è l’accordo raggiunto tra il premier ed i n. 1 della FCA, Sergio Marchionne, a imporre il ritmo di marcia. Patto di Detroit, si potrebbe chiamare l’intesa siglata tra il boyscout di Firenze e il manager italo-canadese. Un’intesa che punta dritta al cuore dei problemi italiani: far saltare tutti gli intermediari ormai inutili, oltre che eccessivamente costosi, nella gestione dell’economia contemporanea. E tra questi c’è sicuramente la Confindustria, dalla quale Marchionne è già uscito da un paio di anni.

La lobby confindustriale, così come è ancora organizzata, non serve più perché è solo un frenatore del cambiamento e un luogo per parrucconi desiderosi di comparsate a Ballarò o da Bruno Vespa. La velocità del business vero è altrove, non più, da anni, in Viale dell’Astronomia. Così Renzi e Marchionne hanno deciso di procedere all’unisono per rottamare Confindustria. Su art. 18, tfr in busta paga, sul primato della contrattazione aziendale per rilanciare la produttività, sulla lotta all’Irap, sulle molte riforme nell’agenda del governo l’amministratore delegato della Fiat sarà al fianco di Renzi. L’obiettivo è quello di dare all’Italia un capitalismo moderno, con relazioni meno intermediate da poteri sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa perché forgiati nella logica della concertazione a tutti i costi e, soprattutto, autoconvinti di essere l’ombelico del mondo. I templari delle riforme, i guardiani del cambiamento che senza il loro via libera non può farsi realtà.

Renzi e Marchionne vogliono condurre il capitalismo italiano oltre la concertazione e la palude dei negoziati a oltranza e della rappresentanza, sempre più marginale, che ha potere di veto. Oltre lo status quo che ha fatto raggiungere alla disoccupazione giovanile la soglia record del 44,2% e fatto arretrare il pil di 10 punti. L’Italia della concertazione del ‘900 non ce la può fare a tenere i ritmi imposti dalla globalizzazione e dall’eurozona germanizzata. Questo per Marchionne è un concetto chiarissimo; Renzi se lo sente ripetere ogni volta che varca le Alpi. Via, dunque, il fardello Confindustria dalle spalle sempre più gracili del capitalismo del Belpaese, perché la lobby degli imprenditori deve diventare moderna e occidentale. Non più un troppo ambizioso contropotere politico ma una organizzazione capace di seguire bene le poche policy di cui è tenuta ad occuparsi. Anche stavolta Renzi ha scelto con arguzia il suo alleato, perché nessuno meglio di Marchionne incarna nel mondo il volto dell’Italia che lavora 16 ore al giorno e che non si rassegna mai alla sconfitta. E con il suo supporto la rottamazione di Confindustria è cosa già realizzata e i prossimi mesi serviranno solo a registrarlo.

La pochezza dei nostri poteri forti

La pochezza dei nostri poteri forti

Gaetano Pedullà – La Notizia

È nato un nuovo amore. E pazienza per chi è rimasto escluso, che ora schiuma di gelosia. Renzi e Marchionne, invaghiti a New York, si sono scambiati l’anello di fidanzamento. Il nostro premier ha reso omaggio alla Fca, nuovo nome di una Fiat scappata dall’Italia senza la benché minima resistenza del governo. E il top manager ha promesso al Presidente del Consiglio il suo appoggio nel cammino delle riforme. Una brutta notizia per De Bortoli, il direttore in uscita dal Corsera, che tre giorni fa aveva bombardato l’inquilino di Palazzo Chigi proprio dalle pagine del giornale di cui Marchionne è il primo azionista. Guerre di potere, dunque, ma quando parliamo dei poteri italiani dobbiamo subito pensare più alle loro debolezze che a una invisibile forza. Così Marchionne e Renzi, mano nella mano, hanno fatto scattare Della Valle, da tempo nemico giurato di quella Fiat che investendo a sorpresa poche decine di milioni gli ha sfilato da sotto il naso proprio il Corriere. Uno scherzetto che gli sta facendo perdere un mucchio di soldi e che adesso lo mette pure in conflitto con l’ex sindaco (e amico) della città in cui gioca la sua Fiorentina.

Cosa c’entra in tutto questo l’Italia? Nulla. Ma per i nostri poteri deboli il Paese è solo un campo di gioco, dove tutto può essere sacrificato ai loro interessi. Se poi ci sono in ballo riforme delicatissime e irrinunciabili come quella sul lavoro, a Lor signori poco importa. E questo è scandaloso. Perché rivela la pochezza della nostra classe dirigente. Ma anche il cinismo con cui giocano sulle sorti dello Stato. Industriali che controllano giornali, che condizionano partiti, che sussurrando ora alle maggioranze ora alle opposizioni hanno pesato nel naufragio del Titanic Italia più dei vituperati partiti. E ancora parlano.

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Il nuovo welfare? Deve cambiare, non copiare i modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Probabilmente quello di ieri sarà ricordato come il discorso delle Isole Tonga per l’affermazione, paradossale ma non troppo, che è più facile fare impresa in Polinesia che in Italia. Sergio Marchionne dopo il meeting di Rimini ha voluto marcare la sua presenza anche a Cernobbio e ha fatto l’en plein. E non solo per la lunga ovazione che ha salutato la fine del suo intervento. Innanzitutto ha dato sostanza e adrenalina a un’edizione del workshop Ambrosetti che rischiava di passare agli annali esclusivamente per le polemiche a distanza con il premier Matteo Renzi e le rubinetterie bresciane. Poi l’amministratore delegato della Fiat Chrysler ha avuto anche la capacità di riportare al centro della riflessione di Villa d’Este l’economia reale, laddove nei giorni precedenti avevano dominato ancora una volta gli economisti-scenaristi e gli eurocrati di Bruxelles, entrambi restii ad appassionarsi di fabbriche e di tecnologie. Mancava la voce degli imprenditori e con Marchionne è finalmente arrivata, senza lesinare sui decibel. Per completare il quadro varrà la pena ricordare che in questo settembre 2014 si discuterà in Italia di riforma del lavoro, mezza Europa vigilerà sui tempi dell’approvazione parlamentare del Jobs act e Marchionne ha detto la sua. Ha invitato la politica a ripensare profondamente il rapporto tra Stato, lavoratore e imprese senza dover per forza importare questo o quel modello straniero ma tentando di costruire una via italiana alla flexicurity.



Per tentare di capire ancora meglio l’affondo di Marchionne può avere un senso ricordare come diversi imprenditori in questo periodo cerchino di attirare l’attenzione sui mutamenti dei cicli economici dopo la Grande crisi. Mi è capitato di leggere di recente un’intervista al capo-azienda di una delle nostre multinazionali tascabili che raccontava in maniera efficace di “aziende stressate, ordini che arrivano all’ultimo o che all’ultimo vengono cancellati, continue modifiche tecniche, nuovi mercati che esplodono all’improvviso costringendoci a rivedere le strategie”. È questo in sostanza l’ambiente economico in cui si andrà operare e quand’anche la ripresa sarà arrivata avrà comunque queste caratteristiche. I cicli lunghi ce li possiamo scordare e come ieri ha sintetizzato il ministro Federica Guidi, anche lei presente a Cernobbio: «Le aziende non hanno più un portafoglio ordini a sei mesi ma a sei giorni».

Ma ci sono oggi le condizioni per una riflessione di così ampia portata, come quella delineata da Marchionne? E il governo Renzi se ne farà davvero carico a costo di aprire un nuovo fronte polemico dentro il Pd e con la Cgil? Il top manager Fiat evidentemente pensa di sì, spiega che non bisogna privilegiare la difesa statica del singolo posto di lavoro ma la persona favorendone la mobilità sociale e la formazione perché – sia chiaro a tutti – «noi non vogliamo lavoratori usa-e-getta ma persone coinvolte». Tutti concetti che ricordano molto da vicino le eresie del giuslavorista Pietro Ichino, spesso sottovalutate dal mondo confindustriale. E non a caso l’amministratore delegato di Fiat Chrysler ha voluto ancora una volta ricordare come «pur di riconquistare una libertà di contrattazione» con i propri dipendenti l’azienda avesse deciso a suo tempo di uscire da Confindustria. Chiudendo Marchionne ha aggiunto che da sei anni le attività italiane sono in perdita e nonostante ciò non è stato chiuso nessuno stabilimento o licenziato nessuno e il motivo primo è che «siamo fondamentalmente italiani». Una frase che i suoi avversari non gli abboneranno facilmente. A cominciare da Roberto Maroni che ieri sull’italianità della Fiat è stato più caustico dei sindacalisti.  

Quei dubbi di Marchionne

Quei dubbi di Marchionne

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Anche Sergio Marchionne comincia ad avere qualche dubbio. In questi mesi l’amministratore delegato della Fiat, quando ha potuto, non ha mancato di far sentire il suo appoggio a Matteo Renzi, in pubblicoe in privato. Solo per ricordare un episodio vale la pena tornare a Trento, al festival dell’Economia di inizio giugno, quando Marchionne si era disciplinatamente seduto ad ascoltare e ad applaudire l’intervista-fiume del premier con Enrico Mentana. Ieri invece dal palco di un’altra manifestazione, il meeting di Rimini, i toni sono stati differenti. Quegli accenni agli scarsi risultati ottenuti dal governo e ai tanti compromessi ai quali ha dovuto soggiacere segnano sicuramente uno slittamento di opinione. Un giudizio sui provvedimenti e le amnesie che vale molto di più dei commenti che pure Marchionne ha elargito sulle strategie di comunicazione. Anche a lui la copertina dell’Economist non è piaciuta neanche un po’ ma non avrebbe replicato – ha chiosato -, avrebbe fatto a meno di organizzare la gag con il gelato e il carretto.

Prima di Marchionne a prendere le distanze da Renzi era stato un altro protagonista della vita economica italiana, che pure aveva guardato con favore al nuovo governo e al protagonismo del giovane Matteo, Diego Della Valle. In pieno agosto quando il governo combatteva in Senato per far passare il provvedimento di revisione Mister Tod’s aveva rivolto un inusitato appello al capo dello Stato chiedendogli di evitare che a cambiare la Costituzione fosse «l’ultimo arrivato, seduto in un bar con un gelato in mano a decidere cosa fare». Non sapremo mai con certezza se la direzione dell’Economist abbia rubato a Della Valle l’immagine del giovane premier con il gelato ma alla fine è andata così. E comunque quella presa di distanza da Renzi, che l’imprenditore marchigiano aveva seguito con attenzione sin dai suoi primi passi da sindaco, ha generato comunque sensazione.

Marchionne e Della Valle oltre ad essere due esponenti di primo piano dell’industria italiana ne rappresentano anche la parte che più si confronta con la concorrenza, che non vive di tariffe e riconoscimenti governativi e quindi è più libera ed esplicita nella formulazione dei giudizi. Pro o contro che siano. Ma quale orientamento prenderà Giorgio Squinzi che gli imprenditori li rappresenta tutti, quelli globali e quelli non, e che aveva contribuito a dare una spallata al governo Letta? Il presidente della Confindustria ha parlato anche lui a Rimini, appena 24 ore prima di Marchionne: non ha mai citato Renzi e il suo governo ma ha usato parole dure come pietre. Con riferimento alla sostenibilità del welfare ha scandito che «il nostro Paese ha tenuto finora un tenore di vita che non si può più permettere». Ha chiesto poi «provvedimenti straordinari a costo dell’impopolarità» ma soprattutto ha fatto capire che a questo punto si aspetta che l’esecutivo espliciti un disegno strategico, delinei un orizzonte per il Paese e non viva alla giornata. Squinzi parlerà anche stasera alla Festa nazionale dell’Unità a Bologna, da ospite sarà molto attento a calibrare le critiche verso i padroni di casa ma un giudizio netto sullo sblocca Italia probabilmente lo emetterà e sarà drastico: alla fine non c’è un euro in più di investimento pubblico.

Se questo è il catalogo delle disillusioni imprenditoriali e delle critiche (di merito) confindustriali, in attesa delle decisioni di Andrea Guerra in uscita da Luxottica, sono due i capi-azienda che sembrano conservare intatta la loro stima verso Renzi. Il primo è Oscar Farinetti di Eataly secondo il quale il governo «ha fatto 3-4 mosse giuste» e anzi a questo punto dovrebbe dare altre «due bastonate» imponendo, ad esempio, un tetto massimo di 3 mila euro alle pensioni. L’altro è Pier Silvio Berlusconi, che prima dell’estate aveva esplicitamente dichiarato di tifare per Renzi e nei giorni scorsi, con il conforto di Fedele Confalonieri e Ennio Doris, ha ribadito a papà Silvio la sua assoluta fiducia nell’inquilino di Palazzo Chigi.

L’Italia sembra incapace di reagire

L’Italia sembra incapace di reagire

Sergio Marchionne – Il Sole 24 Ore

«Non sopporto più di vedere gente con il gelato in mano, barchette e cavolate varie, gli italiani sono bravi». Lo dice Sergio Marchionne, a margine del suo intervento al Meeting di Rimini di cui pubblichiamo un ampio stralcio.

L’Italia ha l’urgenza, l’assoluta necessità di intervenire per colmare il divario competitivo che la separa dagli altri Stati europei. Saranno almeno dieci anni che dico che abbiamo bisogno d’interventi strutturali, di riforme profonde, che hanno come obiettivo il riposizionamento della competitività del Paese. E chiaramente non sono né il primo né l’ultimo a dirlo.

Ma la realtà è che poco si è mosso. Il sistema sembra totalmente incapace di reagire. Per qualche strano motivo, in Italia – anche di fronte alla recessione e alle sofferenze provocate dalla crisi, un tasso di disoccupazione al 12,6 per cento, una realtà che vede quasi il 43 per cento dei giovani sotto i 24 anni senza lavoro – ci comportiamo come fossimo un’isola felice, dove ciò che esiste deve essere salvaguardato ad ogni costo.
Il nostro Paese continua a vivere chiuso nella sua boccia, incapace di vedere e affrontare le realtà più ovvie, inerte di fronte alla richiesta di modernità di un mondo globale. Abbiamo passato vent’anni a far finta di fare le riforme. Non abbiamo adeguato il nostro sistema di protezione sociale ai cambiamenti del mondo e della società. Non abbiamo modificato la struttura dei costi di gestione.

Non siamo neppure stati capaci di approfittare degli enormi benefici dell’adesione all’euro. Benefici che derivano dalla riduzione degli interessi pagati sul debito pubblico e che si sarebbero dovuti usare per finanziare il programma di riforme. Abbiamo vissuto pensando che il nostro Paese potesse andare avanti prendendo solo se stesso o il proprio passato come riferimento. Abbiamo indirizzato le nostre risorse ad alimentare una dialettica distruttiva, che ha progressivamente indebolito il quadro d’istituzioni e di regole su cui è fondata la nostra nazione. Ci siamo costruiti da soli quell’handicap che oggi tiene lontani gli investitori stranieri, erode la crescita dei salari e mette a rischio le prospettive di lavoro e il tenore di vita delle generazioni presenti e future.

Siamo stati noi il nostro più grande nemico. Quando dico «noi», intendo davvero tutti: chi ha governato il Paese; quegli imprenditori che, in un modo o nell’altro, si sono resi complici dell’inerzia; e quelle tenaci forze di conservazione, di destra e di sinistra, che sono ancora radicate in tanta parte della società. Per chi, come la Fiat, vive e si nutre di trasformazioni continue, guardare un sistema immobile, l’incapacità di accettare – o peggio ancora – di avviare il più piccolo cambiamento… è qualcosa d’inconcepibile.

Riponiamo la massima fiducia nel governo. Lo abbiamo fatto con gli ultimi tre e lo continueremo a fare. Ma la verità è che finora, chiunque abbia guidato il Paese, si è scontrato con un muro di gomma ed è stato costretto a svolgere un ruolo quasi amministrativo. Risultati concreti ne abbiamo visti molto pochi. Compromessi tanti. Iniziative che sono partite bene e poi sono sfociate in una gara al ribasso, con l’obiettivo di toccare meno interessi possibili, di minimizzare gli effetti di qualunque decisione. In un sistema del genere, preoccupato più di conservare se stesso e di alimentare il proprio potere, forse non cambierà mai nulla.

Il presidente Renzi ha di fronte a sé un ruolo arduo e ingrato. Ma è determinato e coraggioso nel voler demolire le forze di resistenza al cambiamento e alle riforme. Nei pochi incontri privati, l’ho incoraggiato a proseguire il suo programma riformatore senza curarsi del clamore e degli attacchi. La sua missione è importante, molto più importante del rumore e della polvere sollevata dagli oppositori. Tutti quanti dobbiamo prendere coscienza della realtà se vogliamo creare nuovi termini di riferimento e avviare nuovi comportamenti. Dobbiamo smettere di aspettare il miracolo. Non possiamo più permetterci di vivere nella perenne attesa che il sistema venga riformato. Se e quando succederà, se le riforme di cui sentiamo parlare da alcuni decenni fossero finalmente varate, saremmo i primi a salutarle con gioia. Ma non possiamo riporre tutte le nostre aspettative e le nostre speranze su un sistema che pare immobile.

A chi si è iscritto alla scuola della rassegnazione – e sono certo che negli ultimi 40 anni qualcuno ha preso anche la laurea – vorrei dire: il futuro non dipende da nessun altro se non da noi. Per chi, invece, aspetta che la soluzione venga dall’alto, che le linee guida del cambiamento arrivino dalle stanze del cosiddetto potere, ho una notizia. Temo non succederà domani mattina. Dovete diventare voi stessi promotori di quel cambiamento che volete vedere nella società. L’idea di poter cambiare le cose rimarrà un’utopia fino a quando ciascuno di noi non deciderà di fare la propria parte. Dobbiamo alzarci ogni giorno e decidere di fare qualcosa in modo diverso da quello che abbiamo fatto finora, nel nostro lavoro come nella vita. Non aspettate che ve lo dica qualcuno, che vi arrivi una direttiva sulla scrivania o un’email sul pc.

Siate voi i primi a rompere gli schemi. Invece che combattere con la realtà esistente, con l’inefficienza e con la burocrazia, pensate a un modello nuovo e più moderno, che renda quella realtà obsoleta. Non lasciate che sia qualcun altro a definire la vostra strada. Fatela da soli. Costruitevi un percorso, seguitelo, disegnatelo da capo ogni volta che volete. Ma iniziate oggi, subito.