spesa pubblica

Al Quirinale guadagnano il doppio della Casa Bianca

Al Quirinale guadagnano il doppio della Casa Bianca

Fabrizio Di Feo – Il Giornale

Una finestra spalancata sulle retribuzioni dei dipendenti. Un libro contabile a stelle e strisce aperto e aggiornato ogni dodici mesi. Dal 1995 la Casa Bianca è obbligata a inviare ogni anno un rapporto al Congresso e comunicare nel dettaglio l’elenco dei suoi dipendenti, il titolo e il salario. L’amministrazione Obama poi provvede a rendere disponibile online tale documento, così da tenere fede al dovere di trasparenza verso i cittadini.

I nuovi dati sono stati resi pubblici martedì. Un’istantanea che rivela la distanza siderale con il nostro Paese sia in termini di trasparenza (che da noi si trasforma spesso e volentieri in comunicazione, con la pubblicazione di dati parziali e «selezionati»), sia in termini di controllo della spesa pubblica. Il quadro per quanto riguarda la Casa Bianca è molto chiaro. Nel quartier generale di Obama lavorano 456 persone per un costo complessivo del personale di circa 38 milioni di dollari. La retribuzione media è di 83mila dollari, pari a 61mila euro. Lo stipendio massimo è di 172mila dollari pari a 126mila euro, anzi più nel dettaglio nessuno prende più di 172.200 dollari lordi all’anno, e molti devono accontentarsi di 41-42mila dollari. I dirigenti che si attestano sulla soglia massima sono 22. Barack Obama guadagna 400mila dollari, una cifra che nessun altro dipendente pubblico può superare perché nessun lavoro può essere considerato di maggiore responsabilità (il presidente della Corte costituzionale Usa guadagna 223mila dollari – 171mila euro -, il direttore dell’Fbi, 110mila euro, quello della Federal Reserve, 154mila euro). Obama, peraltro, ha deciso di ridare al Tesoro americano il 5% del suo stipendio annuale: 20mila dollari. Ciononostante negli Stati Uniti c’è anche qualche piccola polemica per un aumento medio del 5% per i dipendenti, superiore rispetto agli altri comparti pubblici.

Il paragone con il Quirinale, seppur scontato, è naturale e inevitabile. Negli ultimi anni il Colle ha iniziato un cammino verso una maggiore trasparenza e ha adottato alcune misure di contenimento della spesa, ad esempio con l’abrogazione del meccanismo di allineamento automatico delle retribuzioni del personale di ruolo a quello del personale del Senato. Nel corso del primo settennato di Giorgio Napolitano sono stati compiuti anche alcuni passi per «asciugare» l’organico, diminuito dal 31 dicembre 2006 al 31 dicembre 2013, di 507 unità. La distanza resta, però abissale.

Nella «Nota illustrativa del bilancio di previsione per il 2014», si parla di una «spesa per il personale in servizio che ammonta a 123,4 milioni di euro, in calo di 7,6 milioni rispetto al bilancio di previsione iniziale per il 2013». Nello stesso documento, al di là del «personale complessivamente a disposizione» pari a 1674 unità, si parla di 783 dipendenti come «personale di ruolo». In questo caso la spesa per dipendente si aggirerebbe sui 157mila euro.

Nell’allegato «Documento analitico» si parla, invece, di una spesa per retribuzioni pari a 105 milioni e 231mila euro, con 82 milioni per il personale di ruolo; 8 milioni e 900mila per quello non di ruolo; 10 milioni e 800mila per il personale distaccato; 2 milioni e 371mila per consiglieri e consulenti del Presidente; 147mila per collegi e commissioni; 370mila per oneri e trasferte del personale. A questi 105 milioni vanno aggiunti 9 milioni e 268mila euro di oneri previdenziali per complessivi 114 milioni e 499mila euro. In questo caso la spesa media per dipendente supererebbe di poco i 146mila euro. Non è possibile calcolare – come avviene per la Camera dove è stato compiuto un importante sforzo di trasparenza – quanti dirigenti superino la retribuzione di Giorgio Napolitano, ovvero i famosi 238mila euro fissati come teorica soglia massima da Matteo Renzi per i dipendenti pubblici (un tetto che alla Banca d’Italia viene sforato da ben 665 dirigenti). Un esercizio di trasparenza da adottare al più presto. Così da trasformare il Colle se non in una Casa Bianca in termini di costi, almeno in una casa di vetro.

Tagli, ritagli e frattaglie

Tagli, ritagli e frattaglie

Davide Giacalone – Libero

Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se cioè l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.

P.A., il problema non è la corruzione. E’ che costa troppo e produce carta

P.A., il problema non è la corruzione. E’ che costa troppo e produce carta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Le denunce generiche dovrebbero essere sempre bandite dalle relazioni di chi occupa ruoli istituzionali. Non aiutano a migliorare i problemi e fanno calare una cappa di negatività sull’intero marchio Italia. Se poi il richiamo alla «corruzione che è ovunque» viene addirittura dal procuratore generale della Corte dei conti, allora c’è davvero da rimanere disorientati. Non perché la corruzione nella pubblica amministrazione non esista, peraltro non è certo un fenomeno originale degli ultimi tempi, o non sia il problema, ma perché, nonostante tutto quello che si possa pensare, non è questo il principale problema della Pa italica. Operando da anni nel libero mercato del Belpaese posso confessare che non ho mai ricevuto richieste non legali dai funzionari pubblici delle molte e diverse amministrazioni incrociate sul campo del fare. Perciò, sparare nel mucchio della corruzione generalizzata e sistematica equivale a dare dell’Italia una rappresentazione domestica e soprattutto internazionale ingiusta e non veritiera. Se poi la situazione fosse così sideralmente distante dall’Eurozona, rimane sempre da capire per quale strana ragione la Corte dei conti più costosa dell’Ue non abbia saputo far nulla nel corso degli anni per ridurre un fenomeno tanto abnorme. Poteri di azione e risorse per agire, ripetiamo si tratta della Corte dei conti che costa di più ai contribuenti che la mantengono, non dovrebbero mancare. Il principale problema della Pa italiana, quello che zavorra il nostro Pil e che culturalmente ci condanna a essere europei di serie B, è la sua incapacità di conseguire risultati operativi nei tempi e con gli stessi costi medi che ci sono a Vienna, Berlino o Bruxelles. Se per liquidare un progetto di ricerca il Mise e le imprese di cui si avvale impiegano temporalmente fino a dieci volte di più dell’analoga istituzione di Helsinki, il problema non è la corruzione ma il fatto che la macchina amministrativa agisce su un binario morto. Produce carta fine a se stessa. Dieci anni dopo la nascita dell’euro la Pa italiana rimane anni luce distante dai processi amministrativi tedeschi od olandesi. È una zavorra organizzativa incatenata nel fare da un monopolio giuridico-formale che nulla riesce a produrre nei tempi e nei modi che la globalizzazione richiede. Il burocrate non fa perché ha sempre pronta la scusa per bloccare tutto: «Se agisco in maniera diversa, magari più spedita poi la Corte dei conti potrebbe chiamarmi in giudizio». È lì, nel pericolo potenziale dell’azione della Corte dei conti, che si consuma il declino italiano: fatto di una Pa costosa e per nulla capace di assecondare la modernità del business. Magari fosse tutto riconducibile alla sola corruzione.

Sprechi pubblici, l’ultima moda travestirsi da privato

Sprechi pubblici, l’ultima moda travestirsi da privato

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Sale sulle ferite, le parole con cui Salvatore Nottola ha commentato pubblicamente giovedì 26 giugno il dilagare delle società pubbliche. Non solo al centro, dove il magma ribollente assume ormai dimensioni incontenibili. Il loro numero, intanto. Nessuno sa esattamente quante siano, considerando che «esse», spiega il procuratore generale della Corte dei conti, «sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto societario». L’ultima rilevazione della stessa Corte ha censito 50 società partecipate dallo Stato: ma va tenuto conto che queste «a loro volta partecipano ad altre 526 società». Per un totale di 576 partecipazioni dirette e indirette. Poi ci sono quelle degli enti locali, e qui il numero sale vertiginosamente. Siamo infatti a quota 5.258. Alle quali, precisa ancora Nottola, «vanno aggiunti 2.214 organismi di varia natura» come «consorzi, fondazioni…» per una cifra complessiva che tocca quota 8.048.

I confini finanziari di tale universo sono sterminati. «Il movimento finanziario delle società partecipate dallo Stato, costituito dai pagamenti a qualsiasi titolo erogati dai ministeri nei loro confronti ammonta a 30,55 miliardi nel 2011, 26,11 miliardi nel 2012 e 25,93 nel 2013». Totale in tre anni 82,6 miliardi: come il costo annuale degli interessi sul nostro enorme debito pubblico. Ancora. «Il peso delle società strumentali sul bilancio dei ministeri», rimarca Nottola, «è stato di 785,9 milioni nel 2011, 844,61 milioni nel 2012 e 579,41 milioni nel 2013». Totale in tre anni, 2 miliardi 205 milioni: come la metà dell’Imu prima casa. «Quanto agli enti partecipati dagli enti locali», sottolinea il procuratore della Corte dei conti, «un terzo è in perdita». E non è molto difficile comprendere il perché. La ragione del proliferare di queste società tanto a livello centrale quanto locale ha ufficialmente a che fare con l’«esigenza di snellezza dell’azione amministrativa». Traduzione: siccome la burocrazia è lenta e inefficiente, allora ci si traveste da soggetti privati.

Peccato soltanto che questo abbia una serie di conseguenze piuttosto singolari. La prima è quella che portano con sé le società cosiddette in house, quelle controllate dal soggetto pubblico e costituite per erogare servizi in esclusiva a favore dell’azionista: l’effetto evidente, argomenta Nottola, è che la loro attività viene sottratta completamente alla concorrenza. Ma è niente al confronto di altri indigeribili riflessi. Come certe «scelte indotte da logiche assistenzialistiche o dall’intento di eludere i vincoli di finanza pubblica, specialmente riferibili all’attività contrattuale e alle assunzioni di personale». È sempre il procuratore generale della Corte che parla: «Tale enti spesso ricorrono, e la forma privatistica glielo consente, a reperire risorse lavorative all’esterno della struttura pubblica ricorrendo ad assunzioni e al conferimento di incarichi di prestazioni professionali e di consulenza esterna». Il travestimento da privato consente di aggirare in questo modo, per esempio, il blocco delle assunzioni stabilito per la pubblica amministrazione, per giunta evitando i concorsi. Le cronache degli ultimi anni, del resto, sono piene di scandali grandi e piccoli che si inseriscono in questo capitolo. Basti ricordare la famosa vicenda della “parentopoli” al Comune di Roma. Di fronte a tutto ciò, dice chiaramente Nottola, le armi a disposizione sono alquanto spuntate. «La carenza dei controlli favorisce episodi di cattiva gestione, non di rado di illeciti anche penali, i cui effetti dannosi si riflettono sul bilancio degli enti conferenti». In ultima istanza, quindi, sulle tasche dei contribuenti. Non vi chiedete perché finora nessuno abbia voluto mettere mano a una riforma radicale di questo sistema, imponendo regole chiare e controlli ineludibili. La risposta, ahimè, sarebbe scontata.

Risparmi nella PA: con Consip costi medi in calo del 22% e risparmi per 2,6 miliardi di euro

Risparmi nella PA: con Consip costi medi in calo del 22% e risparmi per 2,6 miliardi di euro

Il Sole 24 Ore

Gli acquisti in convenzione da parte della Pa fanno bene al bilancio dello Stato. Quanto, ce lo dice oggi l’ultima rilevazione condotta dalI’Istat per conto del Mef su 21 categorie merceologiche che finiscono ogni anno nel “carrello della spesa” delle amministrazioni pubbliche: utilizzare le convenzioni Consip per comprare sedie, scrivanie, ma anche servizi di telefonia, laptop e gas da riscaldamento o il noleggio di una fotocopiatrice permette un risparmio medio del 22% sui prezzi di mercato. E l’adeguamento di tutte le Pa al prezzo Consip per questi beni e servizi consentirebbe un risparmio annuo di 2,6 miliardi di euro.
Tra le categorie dove il risparmio di prezzo ottenuto da Consip è più elevato ci sono la telefonia fissa e mobile, rispettivamente con il 71,4% e il 39,4%, le stampanti, con oltre il 70%, i fotocopiatori a noleggio con il 45,3%, i pc desktop con il 35,9%, le centrali telefoniche con il 29 per cento. In particolare, la rilevazione registra un discreto risparmio nella gestione degli acquisti di pc portatili di fascia base con un prezzo fuori convenzione di 570 euro, e in convenzione di 434: un risparmio che supera il 23 per cento.Anche il pacchetto Office per le amministrazioni costa il 10% in meno se acquistato in convenzione. Arrivano a costare meno della metà anche gli sms, con uno sconto del 57% se acquistati con la convenzione Consip. Ovviamente, il risparmio effettivo è legato anche ai volumi di acquisto complessivo annuo della Pa per la singola categoria merceologica. In altre parole, il forte risparmio possibile grazie alla convenzione Consip per l’acquisto di laptop e desktop (entrambi superiori al 35%) incide su un volume di spesa annuo che nel 2013 è stato rispettivamente di 35 e 110 milioni di euro, mentre il 4,5% medio di risparmio che è possibile ottenere sull’acquisto delle forniture di gas naturale incide su una spesa complessiva che si aggira sui 2 miliardi di euro/annui.

La rilevazione Istat, giunta all’11esima edizione, ha l’obiettivo di stimare i prezzi medi pagati dalle amministrazioni pubbliche per l’acquisto di un paniere merceologico di beni e servizi e di confrontarli con le condizioni economiche ottenute da Consip con le sue gare. L’edizione 2013 della rilevazione pubblicata il 13 giugno scorso sul sito del Dipartimento dell’Amministrazione generale del ministero dell’Economia è stata condotta attraverso un questionario inviato a un campione di 1.200 amministrazioni pubbliche, un numero rimasto pressochè stabile rispetto alle edizioni precedenti.

Tagli, privatizzazioni e immobili. Ora il governo deve accelerare

Tagli, privatizzazioni e immobili. Ora il governo deve accelerare

Enrico Marro – Corriere della Sera

Manca un miliardo dalla spending review. In ritardo il processo di vendita di Poste

Europa o non Europa, flessibilità o non flessibilità del patto di Stabilità, su tre capitoli il governo è in ritardo rispetto ai suoi stessi obiettivi: taglio della spesa pubblica (spending review), privatizzazioni, dismissioni immobiliari. Il primo capitolo è fondamentale per tenere il deficit sotto il 3% del Prodotto interno lordo, specialmente e quest’ultimo, come possibile, crescerà meno dello 0,8% previsto dall’esecutivo per il 2014. Ils econdo e terzo sono importanti per mandare quel segnale atteso dall’unione Europa sulla capacità dell’Italia di invertire l’andamento del debito pubblico, in crescita anche quest’anno (135% del Pil). Ecco perché è su questi tre fronti, che insieme valgono 15-16 miliardi, che il governo dovrà accelerare, fin dai prossimi giorni. A sei mesi dalla fine dell’anno, infatti, meno di un terzo del bottino appare assicurato.

Spending review

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan continua a ripetere che il commissario per la revisione della spesa pubblica Carlo Cottarelli prosegue il suo lavoro. Resta il fatto che mentre il Def (Documento di economia e finanza) del governo indica per il 2014 l’obiettivo di tagliare 4,5 miliardi la spesa pubblica, il governo ha deciso finora tagli per 3 miliardi e mezzo. Manca quindi all’appello un miliardo. Cottarelli, parlando qualche giorno fa in audizione alla Camera, lo ha ammesso, aggiungendo che non sono per ora previsti altri tagli. Il commissario ha quindi spiegato che si sta concentrando sulla riuscita delle decisioni prese, per esempio sulla riforma della spesa per beni e servizi della Pubblica amministrazione. Basti pensare che ben 2,1 miliardi dovrebbero venire da questa voce in sei mesi, 700 milioni a carico delle amministrazioni centrali ed il resto da Regioni ed enti locali. Risultati per nulla scontati. Allo stesso tempo Cottarelli dovrebbe suggerire al governo i 17 miliardi di tagli per il 2015 e i 32 miliardi per il 2016 indicati nello stesso Def e necessari a garantire il mantenimento del bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti a basso reddito e a finanziare l’ulteriore taglio del cuneo fiscale: Irap per le imprese ed eventuale estensione del bonus a incapienti (redditi fino a 8mila euro), compresi pensionati e partite Iva. Nessuno ha capito come si potranno fare tagli così grandi senza intaccare il perimetro dello Stato sociale (pensioni, sanità, assistenza). Ed è appena il caso di ricordare le resistenze incontrate rispetto ai tentativi di riorganizzare le forze di polizia e le forze armate.

Privatizzazioni

Anche qui gli obiettivi del governo Renzi sono ambiziosi. Basti dire che l’esecutivo Letta, prudentemente, aveva stimato per il 2014 e per gli anni seguenti introiti da privatizzazioni pari a circa lo 0,5% del Pil, cioè 7-8 miliardi all’anno. Renzi e Padoan, nel Def, hanno alzato l’asticella allo 0,7% del Pil nel periodo 2014-2017, cioè circa 11 miliardi all’anno. Una goccia rispetto a un debito pubblico che viaggia oltre 1.200 miliardo, ma un passo necessario verso Bruxelles e utile, secondo il governo, ad avere «uno Stato più leggero». Per il momento però è stata avviata solo la vendita del 40% di Poste e del 49% dell’Enav. Si stima un incasso di 4-5 miliardi nel primo caso e di un miliardo nel secondo. Ma è difficile che i soldi arrivino entro la fine dell’anno. Ci sono state le elezioni e il cambio dei vertici delle Poste (Caio al posto di Sarmi) e quindi un certo ritardo è comprensibile. Ma le difficoltà non sono finite. Sia per le Poste sia per la società di assistenza al volo sono stati individuati gli advisors ma per le Poste deve ancora essere sciolto il nodo della valutazione, che dipende tra l’altro dalla nuova convenzione con Cassa depositi e prestiti (ancora da chiudere, che dovrebbe assicurare un miliardo e mezzo l’anno alla società per 5 anni) e dai contributi pubblici per il servizio universale (700 milioni all’anno chiesti da Poste) subordinati alle decisioni che l’Authority per le comunicazioni prenderà a fine luglio. L’Enav, invece, è ancora in attesa del rinnovo dei vertici, dopo due anni di commissariamento per lo scandalo appalti. L’assemblea, già rinviata due volte, è aggiornata per ora all’8 luglio.

Tra queste incertezze tornano dunque a galla sia le altre privatizzazioni elencate nel Def sia quelle nuove ipotizzate di recente, prima fra tutte quella di Ferrovie dello Stato, visto che al nuovo presidente Marcello Messori il Tesoro ha affidato anche il compito di studiare un’eventuale quotazione in Borsa, mente il vecchio piano di privatizzazioni già prevedeva la cessione del 60% di Grandi stazioni in mano alle Fs. Per il resto il menu contempla quote di quote di Eni e di Enel senza scendere sotto il controllo pubblico, Stm (colosso dei semiconduttori partecipato al 50% dal Tesoro e al 50% dalla Francia) e quote di società detenute indirettamente attraverso Cdp quali Sace (vendita del 60%), Terna, Fincantieri (l’operazione è partita in queste settimane ma sta andando meno bene del previsto), Cdp Reti (49%), Tag (89% del gasdotto).

Dismissioni immobiliari

Qui l’obiettivo del governo non pare ambizioso. Si tratterebbe infatti di portare in cassa 500 milioni l’anno. Eppure il traguardo sembra lontanissimo. La legge di Stabilità 2014 del governo Letta prevede un programma straordinario di cessione di immobili pubblici, in particolare caserme ed altri edifici della Difesa non più utilizzati. Ma il piano non è decollato, nonostante il ministro della Difesa Roberta Pinotti avesse annunciato la vendita di 385 caserme. Per sbloccare la situazione sono allo studio norme per superare gli ostacoli burocratici. E non è ancora decollata Invimit, la società del Tesoro costituita nel maggio 2013 per la valorizzazione e la cessione di immobili pubblici. La società guidata da Elisabetta Spitz ha ottenuto a ottobre l’autorizzazione della Banca d’Italia alla gestione collettiva del risparmio e lo scorso marzo ha istituito un fondo di investimento in due comparti, dove è previsto l’apporto di immobili delle amministrazioni centrali e locali, la loro valorizzazione e il collocamento di quote sul mercato secondario.

Per accelerare su privatizzazioni e dismissioni Padoan ha convocato una riunione dei vertici del ministero nei prossimi giorni. Anche sul fronte della spending Cottarelli potrebbe annunciare qualche novità. Ci vuole una scossa, visto che il bottino di una quindicina di miliardi da privatizzazioni e spending previsto per il 2014 è lontano. E se non si corre ai ripari lo spettro della manovra aggiuntiva, ancora ieri negata dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta («non ci sarà, la escludiamo»), potrebbe prendere forma.