Non fermate Draghi
Stefano Lepri – La Stampa
È facile prendere la disoccupazione a un nuovo massimo in Italia, a un nuovo minimo in Germania, come simbolo di ciò che non va nell’area euro. Difficile davvero sarà far capire ai tedeschi che non possono più dire agli altri Paesi «imitateci e starete meglio». Nelle condizioni straordinarie di oggi, rivelate dai prezzi che scendono, la ricetta tedesca offre solo altri anni di sofferenze. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla. La Germania deve il suo successo all’essere arrivata alla crisi del 2007 con salari frenati rispetto alla produttività e conti pubblici in ordine. A noi, come ai francesi, tocca interrogarci su che cosa sbagliò chi governava allora. Ma nel frattempo il mondo è cambiato. Dalla bassa crescita l’Europa non può uscire stringendo la cinghia per esportare di più. Il crollo del prezzo del petrolio indica sfiducia che esistano al momento forze capaci di dare un impulso significativo all’economia dell’intero pianeta; non basta che negli Stati Uniti la ripresa si consolidi se la Cina rallenta. Il nostro continente non può affidare le sue speranze ad altri, o i suoi equilibri politici saranno travolti ove dalla xenofobia, ove dal massimalismo di sinistra.
Ci chiamerà alla prova la Grecia. Gli eccessi di debito sono caratteristici di un mondo globalizzato dove i capitali sono cresciuti più dei redditi; si formano in mercati finanziari volubili dove il credito un giorno facile (i Btp decennali ieri rendevano l’1,9%) a un cambio degli umori può venire a mancare (ì decennali greci hanno superato il 10%). Ad Atene occorre districare le due facce di un fallimento. Da una parte il governo uscente ha mancato nelle riforme di struttura (liberalizzazioni, privatizzazioni, efficienza amministrativa) dall’altra ha invece realizzato senza ricavarne vantaggi visibili l’unica «riforma» davvero caldeggiata dal potere economico tedesco, ridurre i salari. Ora anche Berlino dietro le quinte si prepara al negoziato. Non preoccupa più di tanto l’improvvisa simpatia mostrata dall’economista di riferimento della destra tedesca, Hans-Werner Sinn, per il leader dell’estrema sinistra greca Alexis Tsipras (nella speranza che un’uscita della Grecia dall’euro metta i brividi a Italia e Francia).
Da parte nostra dobbiamo tenere presente che una eventuale ristrutturazione del debito greco costerà, dati i tassi di mercato, più cara all’Italia che alla Germania dove molti sono pronti a strillare alla rapina. L’accordo da cercare con il nuovo governo di Atene comporterà rinunce per tutte le parti; occorrerà saperlo orientare verso un migliore coordinamento tra le politiche di tutti. Gia le elezioni greche rischiano di far slittare di un mese e mezzo, a inizio marzo, le prossime misure anti-deflazione della Banca centrale europea. Sarebbe grave, perché sono già in ritardo, come mostrano i dati di ieri sui prezzi. E sul ritardo contano i dottrinari tedeschi per giudicarle poi inutili (dopo aver volta a volta tentato di dimostrarle pericolose o illegali).
È vero che l’acquisto massiccio di titoli da parte della Bce ha controindicazioni. Può ad esempio gonfiare i valori di Borsa assai più che dare impulso reale all’economia: in altre parole, mettere più soldi in tasca ai ricchi invece di dare lavoro. Ma nelle condizioni in cui si trova l’Europa (anche al
di là dell’area euro), tutto va tentato. Era in linea di principio giusto chiedere alla Grecia di restituire i debiti contratti dai suoi cattivi governi. Ma imporle tempi stretti ha condotto attraverso la depressione economica all’effetto opposto, l’impossibilità a pagare per intero. Occorre concluderne, per tutta l’area euro, che il «Fiscal Compact» è inapplicabile finché dura la deflazione.