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Un architetto under 40? In media guadagna la metà di un collega “anziano”

Un architetto under 40? In media guadagna la metà di un collega “anziano”

Isidoro Trovato – Corriere della Sera

Tecnicamente si chiama «Pay gap». È il baratro economico che separa i professionisti under 40 dai loro colleghi più anziani. Il divario dei redditi tra giovani e «maturi» ha ormai toccato quota 50,36%. È questo uno degli aspetti più eclatanti dei Rapporto sulla previdenza privata presentato oggi a Roma dal centro studi dell’Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati). I giovani under 40, che nel 2007 dichiaravano un reddito medio di 23mila euro (lordi) fanno, oggi sono scesi a 21mila mentre gli over 40 si attestano ancora sopra i 43mila. Una gigantesca forbice che allontana mondi simili ma lontanissimi: distanze che si ampliano a dismisura se si analizzano i dati delle singole categorie.

Nel campo giuridico la differenza dei redditi tra giovani e anziani supera il 56% mentre nell’area delle professionì tecniche un architetto con meno di 40 anni dichiara in media 18mila euro (lordi) l’anno, il 34% in meno di un suo collega più anziano. In tal senso la crisi ha avuto un impatto diverso tra le varie professioni: nel mondo dell’avvocatura si è persino ridotto il gap tra giovani e anziani schiacciando tutti verso redditi più bassi. Prima della crisi infatti il reddito medio degli over 40 era di circa 75mila euro l’anno contro i 28mila dei colleghi più giovani, oggi il divario è sceso a 33mila euro. Diversa invece la dinamica nel gruppo delle professioni economiche, qui il divario generazionale si è ampliato: nel 2007 era al 55% mentre oggi è salito al 58%. Quindi dopo 7 anni i giovani commercialisti guadagnano 32mila euro l’anno in meno dei colleghi senior.

Effetti concreti su un mondo che in pochi anni si è trasformato (a volte disgregato) e fa fatica a trovare un equilibrio tra il suo fastoso passato (quando si parlava di caste e privilegi) e il suo magro presente in cui giovani che hanno studiato per anni, si sono specializzati, hanno superato ostacoli e trafile, oggi sembrano destinati (chi più chi meno) a una «vita spericolata» con pochi ammortizzatori sociali, un incerto futuro previdenziale e scarse certezze retributive.

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

In Italia il divario coi maschi vale quanto una busta paga

Giacomo Galeazzo – La Stampa

Mezzo secolo di ritardo: di questo passo per arrivare alla parità di stipendio, secondo le ultime statistiche, bisognerà aspettare il 2058. E così nel 2014 il gap con i colleghi maschi costa alle lavoratrici italiane una busta paga. In Europa la differenza retributiva penalizza in media le donne del 16% (in Estonia il 27%), in Italia la distanza scende al 6,7% solo perché la proporzione di donne che lavorano è più bassa e nel Mezzogiorno solo due giovani su dieci hanno un impiego.

Il tasso di occupazione delle italiane è appena del 46%. Perciò il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse. «In passato le italiane non lavoravano per un ritardo culturale, oggi invece si scoraggiano prima degli uomini nella ricerca di un salario e ripiegano sugli impieghi domestici – spiega a La Stampa il sociologo del lavoro Domenico De Masi-. Quando un’azienda deve ridurre la manodopera, si libera prima delle donne». E gli stipendi più bassi dipendono da «una questione contrattuale», cioè «il datore di lavoro tende a pagarle meno e loro accettano di guadagnare meno perché altrimenti non vengono prese», precisa De Masi. Quindi «incide molto la maternità: se resta incinta l’imprenditore continua a pagarle una parte dello stipendio (l’altra la paga l’Inps) senza poter contare su di lei per un lungo periodo». Negli Stati Uniti, «la gravidanza viene trattata come una malattia e indennizzata per settimane non per mesi come nel nostro Welfare». Insomma, in Italia la proporzione delle donne nel mondo del lavoro è nettamente inferiore che in altri Paesi, dove guadagnano meno degli uomini, ma almeno riescono a lavorare. Molte italiane, o non entrano affatto nel mondo del lavoro o ne escono presto.

L’Institute for women’s policy research attesta che «l’altra metà del cielo» rappresenta quasi la metà della forza lavoro, quattro volte su dieci è capofamiglia, e più istruita degli uomini eppure continua a guadagnare meno. In Gran Bretagna il divario salariale è del 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia al 14,8%. La differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano al 10% e 6%. Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea, in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più delle loro colleghe (1.194 euro contro 906). A cinque anni dalla laurea, il divario passa al 31% (1.587 contro 1.211).

Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata europea per la parità, il divario salariale fra uomini e donne in Europa è passato dal 17,5% al 16,4. Ma la differenza grava come un macigno e si può tradurre in giorni di lavoro extra. In Italia ne servono trentasei alle donne per riempire il gap nel settore dei servizi, quello più «rosa»›, dove si concentra un terzo delle occupate (segretarie, impiegate, assistenti). La retribuzione oraria netta parla chiaro. In agricoltura ci vogliono due mesi per arrivare alla parità, in banca e nelle compagnie assicurative 59 giorni, nella pubblica amministrazione 39. «Al momento di assumere un dipendente il datore di lavoro tiene conto del percorso lavorativo futuro- osserva De Masi-. Nella programmazione di un imprenditore non è la stessa cosa prendere in azienda una ventenne o un coetaneo maschio». Sono 702mila, infatti, le occupate con figli minori di otto anni che hanno interrotto temporaneamente l’attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo: il 37,5% del totale delle madri occupate. L’assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli continua a riguardare solo una parte marginale di padri. Anche il congedo parentale è utilizzato prevalentemente dalle donne, riguardando una madre occupata ogni due, a fronte di una percentuale del 6,9% dei padri.

Tagli agli stipendi: giusti con giudizio

Tagli agli stipendi: giusti con giudizio

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

Al netto delle pensioni e degli interessi, la spesa pubblica ha iniziato a diminuire da noi nel 2011, con un calo che è stato però la metà di quello della Spagna e un terzo dell’Irlanda e del Portogallo. In Spagna sono state tagliate persino le tredicesime, in Grecia si è fatto molto peggio. Quindi dire, come fa Renzi, che nella pubblica amministrazione italiana “c’è troppo grasso che cola”, non è sbagliato. Anzi è corretto. Quindi il ricorso ai possibili tagli e al blocco degli stipendi è senz’altro una misura spiacevole ma giusta. Certo, si tratta di capire dove tagli e dove blocchi. Sarebbe un’azione molto positiva dare una robusta sforbiciata agli stipendi dei tanti politici (a tutti i livelli) che con la politica hanno trovato il paese della cuccagna e un posto di lavoro quando fare politica non dovrebbe essere una professione. Sarebbe invece una carognata bloccare lo stipendio a un poliziotto che prende 1.400 euro al mese e rischia ogni giorno la vita mentre potrebbe essere una soluzione positiva l’accorpare in qualche modo i 5-6 (ma quanti sono?) corpi di polizia.

In questa battaglia contro gli sprechi e la spesa pubblica, il pié veloce Renzi si è mosso in ritardo. Ha sbagliato cioè i tempi di intervento dopo avere avuto vari mesi per identificare nella spending review di Cottarelli i tagli che avrebbe dovuto fare ma non ha fatto. E solo di fronte al bisogno di trovare 20 miliardi in seguito ai calcoli sbagliati dei tecnici del suo governo, ha deciso il blocco degli stipendi della PA (ma nello stesso tempo l’annuncio di migliaia di assunzioni nella scuola per il prossimo anno, tutto da verificare) e i tagli lineari nei vari capitoli di spesa dei ministeri sulla scia di quanto fatto da qualche suo predecessore. Sbagliando un ‘altra volta perché il blocco dei contratti abbinato al blocco del turnover, rischia di rendere ancora meno motivato chi lavora nel settore.

Renzi ha commesso anche un altro errore. Nella sua strategia va avanti a muso duro, come un panzer, quando la tattica dovrebbe suggerirgli un po’ di buon senso: non può ignorare del tutto le parti sociali, i sindacati, che infatti sono già sul piede di guerra. E qui s’innesca un altro errore, questa volta dei sindacati che non possono più difendere l’indifendibile ma possono invece essere propositivi e fare pressing perché si aumenti la qualità del lavoro, si eliminino gli sprechi, si cambino norme vecchie, si puniscano gli illeciti. Sarebbe per il sindacato darsi quel nuovo ruolo che finora è mancato.