tsipras

L’Acropoli e il Quirinale

L’Acropoli e il Quirinale

Davide Giacalone – Libero

C’è un filo che lega l’Acropoli al Quirinale. E non è fatto di moneta. Guardando alle elezioni greche ci siamo tutti concentrati su faccende di debito e valuta. Che sono certo rilevanti, ma non uniche. Quel filo passa da questioni politiche più generali, attinenti agli equilibri globali. E mette ancora di più in frizione la posizione della Germania con il posizionamento atlantico dell’Europa.

Gli errori tedeschi li vedemmo per tempo, quando in Italia erano considerati fulgido esempio di virtù economica e lungimiranza politica. Monti arrivò al governo dicendosi economista tedesco e fummo pochini ad avvertire il rischio. Ora, però, provate a mettervi nei panni della classe dirigente tedesca, politica e non solo: hanno aizzato i cittadini nel far credere (falsamente) che correvano il rischio di pagare i debiti altrui, impugnando l’arma del rigore come una specie di falce morale, e si ritrovano con politiche monetarie espansioniste e messi in minoranza presso la Banca centrale europea. Guardate i numeri con i loro occhi: passano per gli affamatori d’Europa, ma poi scoprono che le famiglie italiane hanno più patrimonio delle loro; in Italia ci sono più ricchi, in rapporto alla popolazione, che da loro; mentre nel loro Paese ci sono più poveri che da noi. Gli invasati del germanocentrismo possono non vederlo, ma i tedeschi s’avvedono che, ancora una volta, rischiano per mancanza di visione intemazionale. Erano stati avvertiti, anche da due ex cancellieri. Fatto è che, in questa condizione, è forte la tentazione di far i rigidi con i greci. Tanto più che i torti ellenici non sono pochi. Ma è possibile?

Il problema non è economico. Se all’inizio di questa storia si fosse scelta la strada della protezione, ci sarebbe costata meno. Il problema è di politica estera. La Grecia ha una posizione e un ruolo importanti, accresciuti dallo scivolare della Turchia verso non tanto i costumi neo-islamici, quanto verso le rimembranze vetero-imperiali. Non dimentichiamoci che il bastione della Nato, in quell’area, poggiava e poggia su Turchia e Grecia. E ciò fu possibile grazie all’occidentalismo kemalista, che dominava la Turchia, per il tramite dell’esercito, così come da un equilibrio ellenico che escludeva la possibilità d’influenze comuniste nell’area, fino a rendere possibile il colpo di stato militare. Roba del secolo scorso, certamente. Ma non è che in questo possa avvenire l’opposto.

Il nuovo governo greco è un’incognita, da tale punto di vista. Le alleanze che lo reggono non rassicurano. Ha chiarito che non intende allontanarsi dall’euro, ma cosa succederebbe se politiche sbagliate allontanassero l’euro dalla loro portata? La Grecia sprofonderebbe in una miseria senza fondo, con le banche destinate a saltare una dopo l’altra. Oppure interverrebbero capitali non europei. Quelli cinesi sono gia presenti e crescenti. La Russia è interessata, sia per rapporti esistenti che per riequilibrio sul versante del Mar Nero (dove la Grecia non si affaccia, ma presidia le spalle della Turchia). Anche capitali arabi sarebbero interessati, per giocare qualche pezzo in più sulla già complessa scacchiera mediterranea. E tutti hanno il loro tornaconto nel divaricare le posizioni dell’Unione europea da quelle degli Stati Uniti. Ue che, del resto, nel ribollire scomposto d’astratte patire e di concreti errori, vede crescere, a destra e a sinistra, formazioni nazionaliste e isolazioniste che incarnano la perdita dell’orientamento e della vitale collocazione atlantica. Non è un mistero che l’operazione Quantitative easing sia ben vista a Washington e mal sopportata a Berlino. Mettete anche questa nel conto e darete maggiore corpo al nervosismo tedesco. Quindi: condonare ai greci i loro debiti è impossibile, anche perché sono i nostri soldi; supporre di farglieli pagare per fargliela pagare è impossibile, perché significa perderli; perderli è pericoloso, perché rattrappisce l’Ue attorno agli imperi centrali (e fanno giusto ora 100 anni!). Occorre equilibrio, dunque. Che è il contrario del cavalcare il marasma e soffiare sulle paure.

Il Quirinale c’entra, perché con la Francia implosa (anche lì i tedeschi hanno sbagliato, e la Merkel, facendo campagna per Sarkozy, ha dimostrato i limiti della sua e della tedesca visione politica) l’Italia ha un ruolo accresciuto. O potrebbe averlo. Il che comporta un presidente della Repubblica eletto guardando anche questo scenario, non solo la cucina del potere nostrano. Potremmo essere noi (traendone vantaggio) a tendere la mano di cui i tedeschi hanno bisogno, per placare gli spiriti di un passato oggi interpretato da chi non lo ha vissuto: i più giovani. Per riuscirci, però, c’è bisogno che i nostri protagonisti non siano a loro volta ghermiti da quegli spiriti, sebbene in versione maccheronica. Sarebbe saggio che la cronaca della corsa al Colle, legittimamente agonistica, non fosse meramente dialettale.

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti.  Anche da Cottarelli

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti. Anche da Cottarelli

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Rispunta Carlo Cottarelli. Questa volta ad Atene. Non nella veste di autore di spending review secretate, quindi, ma di “avvocato difensore”  della Grecia alle dirette dipendenze di Alexis Tsipras, in quanto rappresentante della Repubblica ellenica («oltre che dell’Italia e di un’altra mezza dozzina di Stati») nel consiglio del Fmi, il partner senior della troika se non altro per l’esperienza e le risorse professionali di cui dispone.

Cottarelli è avvezzo a trattare di debito pubblico. Per di più trova il terreno pronto. Nel novembre 2014 – a Washington, Bruxelles ed Atene è il “segreto di Pulcinella”, anche se a Francoforte si afferma di non saperne nulla – il presidente del Consiglio greco allora in carica Antonis Samaras aveva concluso un patto top secret con i partner europei che contano. Atene avrebbe dovuto rientrare quanto il dovuto nei loro confronti – quasi 190 miliardi su 300 – entro il 2057. Non si possono toccare i crediti privilegiati targati Fmi e Bce, perché salterebbe l’intero sistema. Ma la Grecia avrebbe forse avuto un periodo di grazia (senza pagare nulla ai maggiori creditori) fino al 2020. Da quella data avrebbe poi rimborsato a tassi di interesse “calmierati”, pari a solo lo 0,53% annuo in aggiunta al tasso armonizzato d’aumento dei prezzi pubblicato nel Bollettino Mensile della Banca centrale europea. Tsipras è ovviamente perfettamente al corrente.

Su questa base è anche facile non solo fare il gioco delle tra carte, ma mostrare risultati differenti a seconda dell’uditorio. Mediamente il debito greco ha scadenze di 16 anni, oltre il doppio di quelle di Francia, Germania ed Italia. Ad un tasso d’attualizzazione nominale (l’inverso del tasso d’interesse) medio del 2,5% (il 2% definito come “obiettivo d’inflazione” della Bce più lo 0,53%) il prolungamento delle scadenze comporta una riduzione di un terzo di quanto dovuto – e un taglio ancor maggiore se nel pacchetto rientra anche il “periodo di grazia”.

Mediaticamente sarebbero tutti contenti. Tsipras sottolineerebbe ai suoi che ha ottenuto un bel taglio. La troika che si è trattato di un allungamento “tecnico” per meglio consentire alla Grecia il rientro del debito e l’avvio dello sviluppo. Ai contribuenti italiani l’operazione costerebbe circa 15 miliardi. Spalmati, però, su una ventina d’anni.

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

In un’Europa divisa e senza leadership, politicamente in stallo ed economicamente fragile, non c’è evento straordinario a cui non venga ormai attribuito un potenziale dirompente per il futuro dell’Eurozona. Che si tratti di crisi geopolitiche, di tensioni finanziarie o monetarie, di elezioni nazionali o di scelte politiche su austerity e riforme, poco importa. Più il destino dell’euro viene messo in gioco, più chi lo fa guadagna: guadagnano denaro gli speculatori di Borsa, come avviene ormai dal 2011 con l’altalena di tassi, azioni e valute, e guadagnano consenso partiti e movimenti antagonisti, che proprio negli slogan contro l’euro e l’Europa hanno trovato ragion d’essere.

In questo senso, gli eventi dell’ultima settimana offrono più spunti di riflessione sia per chi difende l’Unione monetaria sia per chi l’attacca all’origine: in particolare, il quantitative easing della Bce e le elezioni in Grecia. Entrambi gli eventi sono stati caricati di tensione e di significati ben oltre il dovuto, con palesi distorsioni della realtà dei fatti. Da un lato, si è attribuita infatti alla Germania una cinica determinazione nel bloccare la manovra monetaria di stimolo economico e di contrasto della deflazione: bloccando il Qe, è stato il coro, Berlino farà saltare per i propri interessi la Grecia, l’Italia e l’euro, affermandosi come potenza egemonica. Risultato: il sentimento anti-tedesco è lievitato nell’Europa mediterranea, mentre in Grecia ha fornito a Syriza e a Tsipras la spinta decisiva per il successo elettorale. Le cose sono andate però diversamente: non solo Draghi ha ottenuto il via libera al Qe, ma l’entità della manovra – 1.100 miliardi di euro in acquisti di bond sovrani – è andata ben oltre le attese del mercato. Le Borse sono quindi salite, i tassi periferici (a cominciare da quelli dei BTp italiani) sono scesi ai minimi storici e l’euro ha perso terreno sul dollaro, come appunto si voleva. E con la manovra Draghi, ha stimato la Confindustria, il Pil italiano potrebbe mettere a segno un balzo dell’1,8% nell’arco di due anni, mentre per le imprese ci sarà un risparmio di 3,2 miliardi sugli interessi.

È forse questa la dimostrazione del sentimento anti-europeo della Germania? In Borsa non la pensano certamente così, visto il rally degli indici e dei listini europei: per i mercati, il QE non è certo la panacea della crisi e la ripresa economica resta una sfida da vincere con le riforme, ma l’Euro e la sua difesa da parte della Bce sono la vera garanzia a protezione degli investimenti finanziari e produttivi. Se l’Italia sta già beneficiando di questa percezione malgrado la durezza della crisi, è solo perché il mercato non attribuisce ai movimenti anti-Euro la forza per spingere politicamente un ritorno alla lira. Nell’ottica di chi investe, la sfida al rigore non è un delitto: un conto è dare fiducia a un Paese in crisi che chiede meno vincoli e condizioni migliori per tornare a crescere, un altro è investire su una nazione indipendente ma isolata, con una valuta “sudamericana” in balia degli eventi, con scarse possibilità di riaccedere al mercato dei capitali e senza reti di protezione internazionale sui tassi di interesse.

Un discorso analogo vale per la Grecia: se i mercati ieri hanno reagito in modo composto alla vittoria di Tsipras è soltanto perchè hanno capito bene che il leader di Syriza non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Euro. I greci non vogliono la Dracma, ma comprensione, solidarietà e migliori condizioni dai loro creditori. I mercati non votano, non sono né di destra né di sinistra, cercano solo garanzie e certezze finanziarie: la Grecia oggi è un fattore di rischio, ma circoscritto, quantificabile e gestibile.

Chi ha attribuito alla Grecia e a Tsipras la volontà di uscire dall’Unione monetaria lo fatto insomma per esigenze politiche nazionali o per rincorrere il vento del populismo. E lo stesso è stato fatto con la Germania. Anche se Berlino e la Bundesbank hanno la propria parte di responsabilità nell’escalation delle tensioni sul voto greco, sarebbe un errore pensare che la Germania o l’Europa siano pronte a espellere Atene dall’Unione monetaria solo perché chiede di rinegoziare le condizioni dei prestiti e dell’austerity. A questo proposito, è bene ricordare che già nel 2012 l’Europa accettò la rinegoziazione dei prestiti alla Grecia proprio per evitare l’uscita di Atene dall’Euro e il rischio di un devastante contagio europeo, sia politico sia finanziario. Perchè ora non si dovrebbe fare altrettanto?

Abbandonare ora la Grecia sarebbe non solo sbagliato, ma in contrasto con lo spirito solidaristico con cui l’Europa sta cercando di ripartire. E d’altra parte, proprio i mercati finanziari sembrano aver capito meglio di altri osservatori politici che non sarà certamente la Germania a mettersi di traverso sul salvataggio della Grecia o sulle manovre di stimolo della Bce. A dirglielo è stata direttamente la Merkel lunedì scorso, nel pieno delle polemiche contro Berlino: «Questa settimana – ha risposto la Merkel alle domande dei giornalisti sullo scontro in Bce – non sarà affatto determinante per l’Europa: tanto il risultato della riunione in Bce sul quantitative easing quanto l’esito delle elezioni in Grecia non rappresenteranno fattori di rottura o di sopravvivenza per l’Euro». E così è stato. Detto questo, è chiaro che i prossimi mesi saranno determinanti per l’Eurozona. Il caso greco, per le sue dimensioni finanziarie limitate, può rappresentare l’occasione giusta non solo per ricalibrare, secondo un principio di equità e di tolleranza, il peso dei sacrifici nei Paesi ancora schiacciati dalla recessione, ma anche una grande opportunità per dimostrare che l’Europa è molto più di un’espressione geografica.

Amore a prima vista

Amore a prima vista

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Al fattore “G”, G come Grecia, l’Italia dovrebbe sempre prestare attenzione. Per ragioni geografiche e storiche, ma oggi soprattutto perché il ciclone Tsipras investe di nuovo l’Europa e preme anche alla nostra porta. Il problema è che tipo di attenzione: quella fondata sul dato emozionale, ad esempio, può rivelarsi controproducente. Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale Syriza e neo capo di un governo frutto dell’alleanza con il partito (destra nazionalista) dei Greci Indipendenti, è un pragmatico quarantenne che con un programma aggressivo all’insegna della “fine dell’austerità e della Troika” (Bce, Commissione Ue e Fondo Monetario) vuole riportare Atene fuori da una crisi drammatica in gestazione già in passato da molti anni e poi deflagrata nel 2010. E dove l’Europa e la sua governance a trazione tedesca, va detto con chiarezza, hanno compiuto una serie di vistosi e colpevoli errori.

Vedremo a cosa porterà, in concreto, questo innesto a presa rapida tra un partito di sinistra-sinistra ed uno di destra-destra cementati dalla richiesta di rinegoziare alla radice i piani d’aiuto concordati dalla Grecia (la sola eurozona si è esposta direttamente per 194,7 miliardi) in “cambio” delle riforme. Quello che è certo è che l’Italia non può non occuparsi di un caso che la riguarda da vicino. In tutti i sensi. Perché è la terza economia dell’eurozona. Perché è creditrice come Stato, alle spalle di Germania (55,3) e Francia (42), per 36,8 miliardi (50,2 se consideriamo l’esposizione indiretta via Bce e Fmi) nei confronti della Grecia. Perché, dopo la sola Grecia, è detentrice in Europa del più alto debito pubblico in rapporto al Pil. Perché ad inizio febbraio la Commissione europea presenterà le sue previsioni economiche che faranno da sfondo al negoziato sulla flessibilità (a colpi da zero-virgola ma non per questo, date le regole del gioco, meno impegnativo) per passare gli esami di bilancio. Tutti ottimi motivi per ragionare, a Roma come a Bruxelles, e con lo stesso Tsipras, sui modi migliori per disinnescare strappi sui mercati e insieme per trovare nuove strade per la crescita.

Fatto è che la prima ondata dell’effetto-Tsipras si è distinta per un’indistinta reazione della classe politica italiana. Destra, sinistra, centro, uomini di governo: tutti o quasi erano Tsipras o suoi potenziali e stretti alleati per un assalto alla fortezza-Europa. Con risultati paradossali. Come quello per il quale il capogruppo dei socialisti in Europa, il Pd Gianni Pittella, ancora a scrutini aperti twittava: «Da Atene un messaggio chiaro all’Europa: basta austerità e Troika». O come quello per cui, dalle file del Pd, è emersa una nuova convinzione identitaria: «Noi il nostro Tsipras già ce l’abbiamo e si chiama Renzi». Naturalmente nessuno sembra aver nemmeno dato un’occhiata al programma con il quale Syriza ha stravinto le elezioni. Nazionalizzazioni a tappe forzate, patrimoniali e molto altro, compresa una politica estera che farà molto discutere. Ma tutti Tsipras, per fare cosa ancora non è dato sapere.

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

Le promesse elettorali costano e quelle di Syriza non fanno eccezione. Unico particolare: il conto della Tsipranomics rischiano di pagarlo, non tanto gli elettori che hanno portato la sinistra al governo il giovane ex no global, quanto gli altri contribuenti europei. Italiani in testa. Già si può ipotizzare una cifra di quanto ci potrebbe costare il voto ellenico: 24 miliardi di euro. Più di due anni di coperture del bonus Renzi, un anno di gettito delle odiatissime tasse comunali sulla casa, Imu e Tasi, sacrificati sull’altare dell’ennesimo ritorno della sinistra.

Soldi bruciati, è bene precisarlo, non perché le nostre banche o gli investitori privati a un certo punto abbiano deciso di rischiare comprando titoli greci. Come hanno fatto, ad esempio, i tedeschi. L’Italia è esposta verso Atene per 40 miliardi di euro. Ma dentro questa cifra, per nulla irrilevante, ci sono praticamente solo i prestiti bilaterali dell’Italia alla Grecia e poi la quota che paghiamo al fondo europeo salva stati, nelle due versioni Esm ed Efsf. In sostanza, se Tsipras deciderà di rinegoziare il debito, di non pagarlo o di fare qualunque azione unilaterale sui soldi che la Grecia deve al mondo, penalizzerà automaticamente i contribuenti dei Paesi che gli hanno dato fiducia. Italiani in testa. Non il mostro euroliberista che in campagna elettorale il suo partito (insieme all’estrema destra) diceva di volere combattere, né i grandi speculatori della finanza internazionale, ma lavoratori, cittadini e contribuenti francesi, tedeschi e anche italiani. Compresi quelli che domenica sera hanno festeggiato l’ascesa della sinistra estrema al governo della Grecia in nome di un ritorno del «fattore umano».

Più esposti degli italiani, ci sono solo la Germania con 60 miliardi e la Francia con 46 miliardi di euro. I tre Paesi insieme fanno quasi la metà dei sottoscrittori del debito pubblico greco, che ammonta a 322 miliardi di euro. Possono sembrare pochi a noi che viaggiamo sopra i 2mila miliardi, ma quella cifra corrisponde al 177% del Pil ellenico. Quello che colpisce, e non in modo positivo, è che, a differenza degli altri due Paesi europei, l’unico credito che noi vantiamo verso la Grecia è quello degli aiuti, europei e bilaterali.

L’esposizione delle banche italiane sul debito greco, pubblico e privato, è di appena 1,1 miliardi secondo la Banca dei regolamenti internazionali, contro i 22,3 miliardi della Germania. Gli investitori italiani hanno evitato il rischio greco, salvo poi ritrovarlo sotto forma di partecipazione ai piani di aiuto europei e attuazione dei patti tra i due Paesi. Gli investimenti privati italiani sul debito estero preferiscono mete più sicure. Ad esempio, ci sono 43 miliardi italiani in Francia, 55 miliardi sulla Gran Bretagna, ben 96 miliardi sull’Austria e 258 miliardi sui titoli tedeschi (contro 126 miliardi tedeschi in Italia). Unici Paesi, non a rischio ma nemmeno virtuosi, con investimenti italiani, l’Irlanda con 12 poi 20 sulla Spagna e altri 20 sull’Ungheria.

Un ticket greco già lo paghiamo. Il debito dei piani di aiuto non rientra nel computo dei patti Ue, ma ci paghiamo gli interessi. Un impegno preso, al quale potrebbe aggiungersi, se Tsipras realizzerà veramente il suo programma, una perdita netta del credito che vantiamo nei confronti Atene. Il premier greco in pectore ha accennato a un taglio del 60%. Quindi, se il nuovo beniamino della sinistra italiana sarà coerente, dovremo rinunciare a 24 miliardi di euro. Una cifra che vale una manovra, bruciata per il voto di un altro elettorato, di altri contribuenti.

Il miope abbraccio all’icona

Il miope abbraccio all’icona

Pierluigi Battista – Corriere della Sera

Il carro di Alexis Tsipras è sempre più affollato di sostenitori del giorno dopo, ma non è solo il consueto e patetico affannarsi nel soccorso del vincitore. Esultano a sinistra e a destra. Marine Le Pen e Matteo Salvini ammirano il «mostruoso schiaffone» assestato all’euro. I partiti che in Europa sono normalmente vituperati come xenofobi ed eurofobi, guardano ad Atene come alla nuova Gerusalemme che sconfiggerà l’euroburocrazia di Bruxelles e le rapaci «oligarchie bancarie». Del resto, oramai le barriere ideologiche del passato paiono molto fragili se in poche ore in Grecia l’estrema sinistra ha fatto un governo con un partito nazionalista che sembra quello del deploratissimo Farage in Gran Bretagna. A sinistra si rincorre il modello Syriza, il nuovo cavaliere che sgominerà il «liberismo selvaggio». Ma anche nel fronte della moderazione riformista di destra e sinistra, se non c’è proprio esultanza, affiora compiacimento. Forza Italia parla di «memorabile lezione». E Matteo Renzi, lungi dal temere la tentazione di una sinistra vecchio stampo che potrebbe sentirsi galvanizzata dal trionfo di Atene, si dice confortato dal possibile appoggio di Tsipras alla battaglia «anti austerità» (anche se l’Italia rischia di vedere svanire i circa 40 miliardi di cui è creditrice con la Grecia).

Ma se è così, per l’Unione Europea si tratta di una disfatta simbolica, e di un pericolo mortale. Come se tutto quello che è stato fatto sinora fosse da buttare in una discarica. E il pareggio di bilancio messo in Costituzione? E le riforme come «compiti a casa» amari ma necessari per superare la bufera? E i parametri da rispettare, i conti da tenere a bada, i debiti pubblici questi sì «mostruosi» da domare? Se, come è stato detto in queste ore, ci si commuove per le note di Bella ciao nelle piazze di Atene come simbolo di «liberazione» dalla dittatura finanziaria, così come quella trascinante canzone è il simbolo della liberazione dalla dittatura fascista, quale immagine dell’Europa esce da questo unanime stringersi al profeta dell’anti austerità Alexis Tsipras?

Il successo di Tsipras sembra funzionare come una ricerca collettiva di autoassoluzione. Se siamo messi così male, così recita il nuovo coro, non è perché abbiamo fatto le cicale nel passato, perché abbiamo accumulato debiti statali spaventosamente elevati, perché non abbiamo tenuto sotto controllo la spesa pubblica, perché nell’Europa soprattutto latina e mediterranea i bilanci in ordine sono stati un concetto un po’ troppo elastico e incompatibile con la ricerca di un consenso voracemente costoso. No, la colpa è «dell’Europa» e segnatamente, inutile girare attorno al vero nucleo che calamita su di sé ostilità e risentimenti sconfinati, della spietata Germania, e anzi, per dare un volto e un bersaglio, «della Merkel», che non è più una persona fisica, ma l’emblema stesso delle nostre difficoltà.

Ma se questo accade è perché l’Europa è stata costruita male, dando il senso di una sovranità usurpata, di una moneta senz’anima, di un carattere privo di ogni base culturale e soprattutto di ogni passione «popolare», come quella che pure ha preso forma nella configurazione moderna degli Stati nazionali e delle democrazie liberali. È questo deficit democratico che l’Europa, se vuole sopravvivere, deve saper guardare con coraggio per colmarne le lacune. Non solo una questione di conti virtuosi e di debiti da onorare. Altrimenti, stritolata dall’eurofobia montante di destra e di sinistra, l’Unione Europea ne uscirà travolta. Non c’è più molto tempo per correre ai ripari.

Tafazzieconomy

Tafazzieconomy

Davide Giacalone – Libero

Non capita spesso che i creditori si compiacciano dell’ipotesi che i debitori non paghino i loro debiti, quindi non perdete lo spettacolo offerto dai tanti dichiaratori e commentatori che festeggiano ciò di cui dovrebbero preoccuparsi. Bei tempi quando a orecchio si parlava di calcio, usando la pancia di politica e solo alla memoria di sesso. Ora son tutti economisti, esponenti di spicco della Tafazzieconomy. Grazie alla Grecia, allora, si porrà fine all’eurorigore? No. Intanto perché le politiche monetarie europee sono espansioniste, ovvero il contrario del rigore. Non si può porre fine a una cosa che non c’è. I greci lo sanno e il loro nuovo governo ribadisce: nell’euro siamo e ci restiamo. Alcuni degli scalmanati anti-euro, come Costas Lapavitsas, economista di spicco nel gruppo di Alexis Tsipras, già tirano il freno: dicevo che sarebbe stato meglio uscire, ma ora è diverso. Appunto. I greci, dunque, intendono restare nell’euro, ma vogliono rinegoziare il debito pubblico. E qui ci si deve intendere.

Un negoziato è necessario, perché così come è strutturato non possono pagarlo. Ma l’ipotesi della denuncia del debito, del suo disconoscimento, non solo sarebbe contro ogni regola europea, o anche solo di civile convivenza, sarebbe un danno per l’Italia, visto che i soldi li abbiamo prestati noi. Non solo: mentre le banche tedesche e francesi si alleggerirono dei titoli del debito greci, cedendoli al fondo salva stati, da noi cofinanziato, così sottraendosi a tagli del debito che sono già stati fatti (anche se sembra ci se ne sia dimenticati), mentre questo accadeva si è anche deciso che gli altri europei avrebbero prestato soldi ai greci a un tasso agevolato, solo che i tedeschi presero i soldi dal mercato, pagandoli meno di quanto venivano remunerati, mentre noi li prendemmo pagandoli più di quel che avremmo riscosso. Noi, al contrario dei tedeschi, abbiamo già fatto regali alla Grecia, sicché è demenziale festeggiare l’ipotesi che non restituiscano neanche il poco cui sono obbligati.

Ma mentre un negoziato sulla struttura del debito è necessario, ciò non significa che la Grecia possa tornare all’andazzo pre-crisi, quando la copertura dell’euro rese possibile una spesa pubblica torrentizia e clientelare, priva di compatibilità con la ricchezza reale prodotta dalla Grecia. E’ qui che i festeggianti italiani fanno confusione, confondendo il debito con la spesa. Fraintendimento sul quale trionfa la Tafazzieconomy, sicché si lanciano gridolini di soddisfazione all’idea di essere colpiti colà ove non batte sole. Il rigore nella spesa è non solo necessario, ma salutare. Se lo si perde si compromette il dolore subito e ogni prospettiva futura. Se si torna a scambiare l’investimento produttivo con la spesa produttrice di voti si otterrà solo la crescita del debito e la moltiplicazione della miseria, mediante satanismo fiscale. E questo concetto potete dirlo in greco tanto quanto dovete dirlo in italiano.

Alcuni gioiscono, da noi, perché sentono i tedeschi lamentarsi. Solo che in Germania si lamentano perché rivogliono indietro quello su cui hanno già guadagnato, mentre qui sembra che si goda a mollare quello su cui abbiamo già perso. A guardare questa scena capisci la differenza: in Germania si governa e si suppone di risponderne, qui si starnazza per cercare di non doverne rispondere. I tedeschi usano la posizione dei greci per mettere in forse la politica della Bce, cui si sono inutilmente opposti, perdendo. Noi dovremmo fare l’opposto, avendo vitale convenienza a che quella politica si sviluppi fino in fondo. Invece cerchiamo di dare loro ragione, sebbene ghignando del crucco disappunto. E dimostrando di avere capito poco e niente.

Mi spiace che Syriza non abbia preso la maggioranza assoluta. Il governo di coalizione potrà rivelarsi un rischio, se fra sinistra e destra partirà la concorrenza e si protrarrà la campagna elettorale. Sarebbe una maledizione, perché c’è più consapevolezza della realtà in chi ha vinto le elezioni greche che in tanti orecchianti italici, presi dal disorientamento di vedere l’estrema destra e l’estrema sinistra, in giro per il continente, dire le stesse cose. Motivo in più per non parlare a vanvera.