francesco forte

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Francesco Forte – Il Giornale

In Italia il Fisco dispone già di 129 banche dati. Ma non gli basta. Ora chiede a tutte le banche e agli altri intermediari finanziari, comprese assicurazioni e fondi pensione, di trasmettere entro il 28 febbraio all’Agenzia delle entrate tutti i dati del 2013 di movimentazione di conti correnti, depositi, carte di credito, portafogli di titoli, accessi a cassette di sicurezza, premi assicurativi e contributi versati. Il fisco dovrà altresì riceverei dati sugli acquisti di oro e preziosi. Entro il 29 maggio dovranno esser inviate le stesse informazioni per il 2014. Una indigestione di dati, con molti effetti negativi.

Il principale è l’incentivo che essa dà a svicolare dalle operazioni bancarie il più possibile e a pagare in contante, aumentando le evasioni fiscali. La motivazione di ciò, genuina o di comodo, sarà che non si vogliono far conoscere al fisco i propri affari personali, che in uno Stato basato sulla libertà personale, dovrebbero essere protetti dalla privacy. Se si paga l’albergo con la carta di credito, il fisco può vedere dove uno va durante le trasferte fuori sede e dall’ammontare che spende può desumere se era solo o accompagnato. Il regalo di un gioiello, anche di modico valore, indica una possibile relazione con la persona a cui si è fatto il regalo. Gli studi sull’evasione mostrano che in genere le imposte vengono pagate in modo più fedele là dove il fisco è cortese e non vessatorio. È vero che le norme della legge «Salva Italia» del governo Monti, da cui questi obblighi derivano e i decreti di attuazione del governo attuale, che li applicano in modo estensivo anziché restrittivo, prescrivono che solo un particolare gruppo di funzionari fiscali può avere accesso a queste informazioni. Ma le fughe di notizie riservate è più la regola che l’eccezione. D’altro canto se il fisco ha troppi dati, l’eccesso di informazioni accresce la difficoltà della loro utilizzazione. Se si appesantisce il loro utilizzo informatico, aumenta la possibilità di errori.

Ci sono vari effetti negativi a carico del sistema bancario e previdenziale. Aumenteranno gli esodi di capitali verso l’estero. Comunque, c’è un nuovo disincentivo a dotarsi di un conto e di una carta di credito per gli italiani sopra i 16 anni che attualmente ne sono privi. Un altro effetto negativo riguarderà l’ ammontare dei conti bancari, dato il disincentivo a servirsene e la preferenza per il contante, mentre sarebbe desiderabile che accadesse l’opposto, per accrescere gli attivi degli istituti di credito. C’è anche un disincentivo ai fondi pensione, alle assicurazioni sulla vita, alle altre forme di risparmio, che possono essere interpretati come indice di ricchezza. Va notato che una parte dei personali redditi è tassato con cedolari secche e metodi catastali e quindi non risulta al fisco. Inoltre ci sono spese a carico del patrimonio e non del reddito. Ma il fisco, sulla base di questi indici di investimento finanziario, apparentemente eccessivi rispetto al reddito dichiarato, potrebbe fare partire degli accertamenti a campione torchiano contribuenti in regola, con controlli che destano sempre timore. E per le banche queste nuove incombenze per centinaia di milioni di conti comportano un costo, di cui esse si rivarranno sui clienti. Un lavorio enorme, per schedarci in ogni atto della nostra vita privata, che ci dobbiamo anche pagare. Il bello è che si chiama «Salva Italia».

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Un’intesa sul Capo dello Stato potrà far ripartire il Paese

Francesco Forte – Il Giornale

L’elezione di un capo dello Stato, dotato di spessore politico e prestigio internazionale, capace di assicurare l’equilibrio istituzionale e la continuità della legislatura è importante per mettere a frutto i fattori favorevoli che intervengono per l’economia, col ribasso del petrolio assieme alla nuova politica monetaria della Bce. Il centro studi della Confindustria ha rettificato al rialzo le stime del Pil, con un aumento del 2,1 nel 2015 e di 2,5 nel 2016. Il petrolio a 45-50 dollari riduce i costi di produzione e di trasporto. L’acquisto massiccio di titoli pubblici da parte della Bce (chiamato quantitative easing) aumentando l’immissione di moneta nel circuito economico fa scendere il tasso di interesse e il cambio euro/dollaro incrementando l’export. Inoltre accresce i fondi delle banche disponibili per crediti a imprese e famiglie.

La Confindustria fra i fattori favorevoli cita anche il fatto che la domanda interna ha cessato di diminuire. Ma ammette che alle sue stime ottimistiche si può fare una tara per tenere conto delle difficoltà perduranti in Italia. E qui c’è il suono di un’altra campana, quella della Banca di Italia che riecheggiando Draghi, cioè la Bce, avverte che per cogliere i benefici del quantitative easing bisogna avere continuità nelle riforme e nel consolidamento del bilancio pubblico (riduzione del deficit e del debito). Ed ecco, dunque, che l’elezione del capo dello Stato (tema su cui né Confindustria né la Banca centrale si addentrano, per correttezza istituzionale) in un clima di serenità fra le maggiori forze politiche è molto importante, per la svolta verso la crescita del Pil sopra il 2%. Svolta di cui abbiano grande bisogno dopo tre anni di decrescita sia del Pil che dell’occupazione, in un clima di depressione non solo economica, ma anche morale.

Non possiamo permetterci il lusso di elezioni anticipate, con una legge elettorale strettamente proporzionale, quale quella vigente, che, data la pluralità di forze politiche rende incerto il tipo di governo che ne potrebbe venire fuori e precaria la sua durata. Dopo l’abbattimento di Berlusconi per ragioni pretestuose, nei tre anni successivi ci sono stati quattro governi: un governo Monti, un governo Letta, un governo Letta bis e un governo Renzi con quattro differenti formule e composizioni. Ma nel quarto trimestre del 2014 gli ordini d’acquisto di macchinari industriali delle imprese italiane sono aumentati del 19,1% con un aumento della domanda dall’estero del 19,3 e di quella nazionale del 18,1. La domanda estera cresce in funzione del ribasso dell’euro che ci rende più competitivi. La domanda interna di macchinari cresce perché le nostre imprese li stanno ordinando per sostituire quelli vecchi e ammodernarsi, confidando che il peggio sia passato e che valga la pena di investire per il futuro.

Su cíò gioca il fatto che è emerso un quadro di maggior stabilità politica, dovuto alla tenuta del «Patto del Nazareno». Ciò ha consentito al governo di non impantanarsi nel dissidio fra le correnti del Pd e ha generato la convinzione che la legislatura durerà. Il perdurare della prevedibilità del quadro politico è necessario in generale, per gli investimenti delle imprese e delle famiglie e per le banche per indurle alla cessione alla Bce di titoli pubblici per dare maggiori prestiti all’economia. Un capo dello Stato dotato di spessore politico, di prestigio e di equilibrio, che sia un fattore di coesione ci occorre anche sul piano internazionale, per mettere a frutto i nuovi fattori favorevoli, perché l’Italia deve mediare fra i rigoristi a senso unico di marca tedesca e i lassisti di conio greco. Ci occorre, più che mai, l’unità nazionale e l’immagine di una grande nazione, se vogliamo uscire dalla crisi.

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Se il grande fratello fiscale mette gli occhi sul mattone

Francesco Forte – Il Giornale

La disoccupazione è volata in ottobre al 13,2%. Quella giovanile è salita al 43,3. La pressione fiscale eccessiva, la sua distribuzione sbagliata, le tecniche vessatorie di accertamento attuate dai tre governi succeduti a Berlusconi hanno generato disoccupazione e bloccato il Pil fra recessione e stagnazione. E il Pil quest’anno decresce dello 0,3%, per il brusco peggioramento del secondo semestre, mentre nel 2015 si recupera solo lo 0,3 perso nel 2014. L’Italia non è solo fra gli stati con la più alta pressione fiscale del mondo, con il 44% del Pil. Ha anche una distribuzione sbagliata del carico fiscale e aliquote eccessive che riducono il gettito, distorcono l’economia, bloccano la domanda interna ed estera e creano tutti i presupposti per la disoccupazione.

Monti, Letta e Renzi hanno commesso un errore fiscale enorme inasprendo di continuo la tassazione di immobili e rendite finanziarie, mentre la teoria della crescita in economia di mercato dice che le imposte sui capitali sono particolarmente dannose. Ora noi abbiano il record della tassazione patrimoniale che arriva al 3% del Pil, contro lo 1,8 della media Ocse (l’organizzazione economica mondiale che include gli stati sviluppati) e lo 1,7 dell’Unione europea. Nel 2011 eravamo sulle medie Ocse ed europee.

Il brusco balzo in avanti non solo ha creato la crisi edilizia e la connessa perdita di Pil e di occupazione. Ha anche indebolito le banche perché i loro parametri patrimoniali, al netto delle sofferenze (molto aumentate per la crisi edile) sono peggiorati. In più, la riduzione del valore degli immobili ha ridotto le garanzie della clientela, con aumento del rischio di credito. Situazione aggravata dall’esodo di capitali, stimolato della fiscalità su immobili e rendite finanziarie e dal fatto che i possessi patrimoniali diventano sempre più la base per le verifiche fiscali.

Adesso, con l’emendamento alla legge di Stabilità, promosso dal governo, per cui i dati bancari vengono incrociati automaticamente con quelli dell’Agenzia delle entrate, si ha una spinta alla riduzione degli impieghi di denaro nei depositi e nei portafogli gestiti dalle nostre banche, un aumento dei flussi contante e di quelli all’estero. Renzi ha preferito erogare 80 euro in busta paga che eliminare l’Irap sul costi del lavoro, per la generalità delle attività economiche. Ha finanziato le sue operazioni di consenso sociale con l’inasprimento fiscale sui patrimoni, non solo con la Tasi e l’unificazione di essa con l’Imu e la tassazione al 26% sulle rendite finanziarie, ma anche con quella sulla previdenza integrativa.

Questa manovra di presunta equità sociale doveva generare crescita e occupazione ma ha avuto l’effetto contrario. Non serve il «Grande fratello fiscale» per dare più entrate. Occorre ridurre le aliquote. Ad esempio, le vendite di immobili sono tassate con imposte di registro del 9%. E ciò ingessa il mercato. Le maggiori imposte sul risparmio e le aspre aliquote progressive di tassazione sul reddito falcidiano le classi medie. Ciò mentre le classi di reddito più alte sfuggono all’alta tassazione, tramite la globalizzazione finanziaria. Sulle imprese italiane grava un peso fiscale differenziale a causa dell’Irap, che distorce la nostra competitività. Riducendo le aliquote ci sarebbe più gettito dal flusso di attività che si genererebbe. E la gente, pagando i tributi penserebbe di pagare il dovuto.

Il vizio di torturare gli italiani sulla casa

Il vizio di torturare gli italiani sulla casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il Catasto patrimoniale degli immobili, che il governo vara mediante un’apposita Commissione, non è, come si vuole far credere, un puro strumento tecnico di aggiornamento dei valori catastali, ma un nuovo strumento di tortura del contribuente. C’è, in questa idea del Catasto, un messaggio ideologico politico pericoloso: la tassazione dei patrimoni, anche indipendentemente dal reddito che se ne trae in denaro o con l’uso. Non c’è, sino ad ora, la tassazione dei patrimoni azionari o di quadri e gioielli, o di titoli a reddito fisso e depositi bancari, ma il principio generale è decollato partendo dagli immobili.

Si dà per ovvio che il Catasto edilizio debba essere sul valore patrimoniale di mercato. Ma non lo è. Infatti, il Catasto agricolo rimane basato sul reddito medio ordinario dei terreni. L’imposta principale sui fabbricati è attualmente l’Imu, a cui verrà unificata la Tasi. Poiché l’Imu è commisurata al valore patrimoniale degli immobili si dice che è ovvio che il Catasto accerti il loro valore di mercato. Ma ciò è errato. Infatti, in Italia c’è il principio che la tassazione deve basarsi sulla capacità contributiva, la Repubblica tutela il risparmio in tutte le sue forme e l’iniziativa privata è libera, salvo per i vincoli dell’utilità sociale. Da ciò viene che le imposte, che riguardano i patrimoni, li devono tassare in base al loro reddito: se non si tiene conto del diverso rendimento, ciò può dare luogo a tassazioni che intaccano il risparmio e il capitale. Dunque, il Catasto patrimoniale è contrario alla giustizia tributaria e alle regole fiscali dell’economia di mercato.

E c’è di peggio. Infatti, il nuovo Catasto non si baserà più sui vani, ma sulla superficie. Ciò darà luogo a distorsioni dannose per il nostro patrimonio immobiliare storico-artistico. E questo in quanto ci sono molte abitazioni, uffici e botteghe con spazi per corridoi e ingressi che nelle ultime costruzioni non si usano più. Non è facile modificare le case di una volta, sia per i costi che ciò comporta sia perché ciò contrasta con la loro tutela. Si afferma che l’aggiornamento del Catasto si farà con invarianza di pressione fiscale: qualche unità immobiliare pagherebbe di più, altre di meno, perché ciò è scritto nella Legge delega. Ma la norma sulla invarianza di gettito si può togliere, con un semplice decreto, dopo fatta la revisione. Anche con Matteo Renzi, il governo a guida Pd ha, come vessillo, la tassazione patrimoniale diffusa.

C’è un terzo pericolo: la Commissione che dirigerà le nuove valutazioni lo farà secondo una formula che non viene resa nota.Ciò non è accettabile.La collettività e il contribuente hanno diritto di conoscere la formula con cui viene accertata la capacità contributiva, onde sapere se è rispettata. Il sistema fiscale in democrazia deve essere certo trasparente, non imprevedibile e incomprensibile.

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Il rimedio antiscioperi: privatizzare i servizi

Francesco Forte – Il Giornale

Susanna Camusso, nell’adunata a Roma della Cgli cui partecipa l’anima dura del Pd ha minacciato lo sciopero generale sula legge di Stabilità, come se con questo sistema di potessero creare posti di lavoro e crescita del Pil. Al contrario, Davide Serra, finanziere renziano della prima ora, nella convention della Leopolda cui partecipa l’anima populista- versione british – del Pd, ha chiesto la limitazione del diritto di sciopero dei servizi pubblici. Citando Alitalia e trasporti pubblici, ha detto che una impresa estera che li ha visti perde la voglia di investire in Italia.

La proposta di Serra, alla Leopolda, è stata accolta con imbarazzo, ovattato dal garbo che è nello stile della convention, nel garage che evoca i creativi di internet della Silicon Valley. Nella tesi del Serra c’è del vero. L’attuale regolamentazione dello sciopero di pubblici servizi è cucita su misura della Cgil e dei lavoratori del pubblico impiego, garantiti dai soldi del contribuente. Infatti, si può annunciare lo sciopero nel pubblico servizio, creando la disdetta di viaggi, appuntamenti, udienze, con gravi danni al servizio e al suo pubblico e poi revocarlo all’ultimo minuto, beffando datori di lavoro e pubblico. Si possono concentrare questi scioperi prima dei giorni festivi settimanali e di Natale, Pasqua e altre festività, in modo da creare «ponti lunghi» a beneficio degli scioperanti e danni speciali per il pubblico. Ma ciò è secondario.

Il punto centrale è che quando i servizi pubblici sono privatizzati, con aziende quotate in borsa e senza pubbliche sovvenzioni, i contratti di lavoro aziendali prevalgono su quelli nazionali e sono orientati alla produttività e le imprese possono ricorrere a part-time, lavoro flessibile cosiddetto precario e a partite Iva e lo sciopero nei servizi pubblici lo si fa solo in casi estremi e delimitati. Ciò perché il lavoratore, allora, è al servizio del pubblico, anziché viceversa. Solo così il suo posto di lavoro regge e la sua retribuzione è basata sul risultato di mercato. Non si tratta tanto di limitare lo sciopero dei pubblici servizi quanto di privatizzare i servizi pubblici, dalle ferrovie, alle poste, alle migliaia di imprese di comuni e regioni e di recidere i legami fra politica e imprese e banche. Ma questa spending review e le privatizzazioni nella legge di Stabilità dei leopoldiani non ci sono.

Quel ceto medio sempre dimenticato

Quel ceto medio sempre dimenticato

Francesco Forte – Il Giornale

Nella legge di Stabilità ci sono ombre che preoccupano, a fianco delle luci che brillano, anche per il modo con cui le misure attraenti sono presentate. Vorrei poter fare il poliziotto buono, perché in questo disegno di legge ci sono due misure importanti, che ho caldeggiato, sul Giornale e che i liberali di Forza Italia sostengono, il taglio di Irap sui costi del lavoro e il Tfr in busta paga. Ma ho la necessità di fare il poliziotto cattivo, a difesa dei ceti medi e dei contribuenti che rischiano di pagare un conto salato. È ottima cosa la detrazione dell’intera Irap sui costi del lavoro dall’imponibile dell’imposta sul reddito che ne opera una riduzione del 30% e prelude all’eliminazione di questo balzello che distorce l’impiego del lavoro nella produzione di beni e servizi e danneggia soprattutto la manodopera qualificata. È buona cosa consentire ai lavoratori di scegliere come impiegare il proprio Tfr. Ed è gradevole vedere una manovra con 18 miliardi di riduzione di imposte su 36 complessivi. Ma per il 2015 ci sono 11 miliardi di deficit in più rispetto quelli a legislazione invariata. Ciò comporta un rapporto del deficit di bilancio sul Pil del 2,9% anziché del 2,2% che implica un aumento ulteriore del debito pubblico sul Pil che è già attorno al 130%!

Certo, un’espansione della domanda tramite il deficit di esercizio può servire per contrastare la tendenza recessiva o quanto meno di ristagno dopo una recessione che comporta larga disoccupazione di lavoro e di capacità produttive. Che, dato ciò, occorra accrescere la domanda globale lo dicono non solo i keynesiani (che dominano in questo governo e nei suoi consulenti). Lo dicono anche gli altri economisti che non credono alla piacevole economia del «pasto gratis». Ma si poteva e doveva coprire il buco, che così si crea nel bilancio, privatizzando quote di imprese pubbliche che non stanno sul mercato: a partire da quelle inefficienti degli enti locali, che costano al contribuente. Inoltre, alcuni tagli di spese sono vaghi. I 3,8 miliardi di recupero di evasione fiscale sono incerti. E i tagli di spesa delle Regioni e degli enti locali non sono fatti su loro spese, ma su trasferimenti dello Stato, sicché questi governi probabilmente aumenteranno le loro imposte, come Imu, Tasi, tassa sui rifiuti, addizionali all’Irpef e altro, a danno dei piccoli proprietari e dei ceti medi già tartassati.

Le ricetta vera per rilanciare la domanda è la politica di investimenti, in primis edilizi. Nella legge di Stabilità questa politica manca. E delle tre misure che compongono il grosso delle riduzioni fiscali, solo una – la detrazione dell’Irap sul costo del lavoro, che comporta 5 miliardi di sgravio – ha natura economica e giova all’efficienza dell’offerta, cioè è produttiva. Le altre due, ossia il bonus per i lavoratori dipendenti a basso reddito (e non pensionati e autonomi) che vale 9-10 miliardi e il bonus per i neo assunti con contratto a tempo indeterminato, hanno natura sociale e sindacalese. Servono al Pd per la sua stabilità interna (che, per altro, non c’è) e come strumento elettorale. Ma sono misure discriminatorie, che non generano rilancio. In questo clima di incertezza questo bonus non darà più occupazione, ma preferenza per il contratto a tempo indeterminato su quello a termine, ammesso che basti questo incentivo per assunzioni impegnative. Ed infine – pillola avvelenata – è prevista una clausola di salvaguardia, con nuove imposte per 12,5 miliardi di Iva e tassazioni indirette se la Commissione europea ci dirà di ridurre il deficit e i mercati spingeranno in tal senso, punendo i nostri titoli pubblici; e qualora i 3,8 miliardi di recuperi di evasione e i tagli di spesa dei ministeri, degli enti locali, della sanità non si materializzino.

Se aumenta le tasse lo Stato fa autogol

Se aumenta le tasse lo Stato fa autogol

Francesco Forte – Il Giornale

Il pastore che tosa le pecore rovinandone il vello ottiene meno lana di quello che si comporta con moderazione. Questa antica massima, riguardante gli effetti negativi di imposte con aliquote troppo elevate ha una triste conferma nel gettito delle imposte in Italia nei primi otto mesi del 2014, in confronto ai primi otto del 2013, che registra una flessione dello 0,4 per cento nonostante gli aumenti a raffica attuati dai governi Letta e Renzi.

Mi scuso per i numeri aridi. Ma valgono molto più delle parole retoriche che spesso si leggono in materia fiscale. Non si può attribuire questa diminuzione alla riduzione del nostro prodotto nazionale, che per il 2014 è ora calcolata dagli esperti del nostro ministero dell’Economia nel meno 0,3 per cento per il semplice fatto che nei primi sette mesi non c’è stata complessivamente alcun diminuzione, ma un andamento di crescita zero, che considerando il piccolo aumento dei prezzi che si è verificato, implica una piccola crescita del Pil in moneta corrente.

La diminuzione delle entrate si spiega con il fatto che il pastore del Pd, sia esso impersonato da Letta con Saccomanni ministro dell’Economia o da Renzi con Padoan nel ministero in questione strappa la pelle al contribuente con aliquote eccessive. La diminuzione dello 0,4 per cento del gettito delle imposte è avvenuta per somma algebrica dell’aumento dell’Iva del 3,8 per cento pari a un miliardo che deriva dall’aumento dell’aliquota ordinaria dal 21 al 22, decretata dal governo Letta e iniziata nel quarto trimestre dello scorso anno e quindi non operativa nei primi sette mesi del 2013 e la riduzione del 19% dell’Ires, l’imposta sulle società, che ha fatto perdere 2 miliardi a cui si aggiungono i 900 milioni in meno nell’imposta sul reddito personale l’Irpef, che ha registrato una diminuzione dello 0,8% e una vistosa diminuzione della cedolare secca sulle rendite finanziarie che arriva al 26 per cento per il risparmio gestito e al 11% per gli altri tipi di redditi di risparmi diversi dal debito pubblico.

Questa imposta è stata aumentata dal governo Renzi dal 20 al 26 per cento e chiaramente molti risparmiatori si sono disamorati di questo investimento, con grave danno per il mondo delle imprese che usano questi soldi per le loro attività produttive. Si dirà che l’aumento è entrato in vigore dal luglio del 2014. Ma il programma di Renzi di aumento di questa tassa era stato da tempo preannunciato e quindi già all’inizio di quest’anno il risparmiatore si è spaventato, Einaudi scriveva che i risparmiatori sono come le pecore in gregge che tendono a stare ferme, ma che quando si spaventano corrono via veloci. Ci sono tanti modi per portare il gruzzoletto all’estero.

Quanto all’Iva il suo maggior gettito è per il fisco un guadagno illusorio. Infatti aumentandola sono calati i consumi e le imprese hanno venduto di meno e ciò ha fatto scendere i loro utili e fatto scendere l’imposta sulle società e quella personale sul reddito e il minor consumo ha anche generato una erosione dell’imponibile Iva perché è aumentata l’economia in nero. Così le nuove elevate aliquote di Letta e Renzi (che oltre all’Iva ha aumentato la Tasi) in aggiunta agli altri aumenti di aliquote a cura del governo Monti (incubatore dei successivi governi Pd) con l’Imu e con l’aumento della cedolare sulle rendite finanziarie dal 12,5 al 20% ha fatto scappare una parte delle pecore, Altre sono dimagrite, altre hanno perso una parte del pelo (bilanci in rosso, fallimenti e chiusure di attività).

Non giova concedere esoneri ai bassi redditi tosando a dismisura coloro che ne hanno un po’ di più. È illusorio ridurre la diseguaglianza sociale creando e accentuando la diseguaglianza fiscale. E così l’operazione 80 euro in busta paga ai bassi redditi accompagnata dalla raffica dei rialzi di aliquote sui piccoli e medi borghesi è stata un’operazione a somma negativa: per tutti perché tutti stanno peggio, come mostrano i dati sulla crisi delle imprese.

Renzi ha perso le forbici

Renzi ha perso le forbici

Francesco Forte – Il Giornale

Dove è finita la spending review, il taglio delle spese che doveva essere effettuato nella legge di stabilità triennale 2015-2017? Dalla montagna di Matteo Renzi è saltato fuori il topolino. Aveva assicurato un taglio di spese per 16 miliardi. Poi lo ha diminuito a 13. Per il 2015 è di soli 5. Mentre per il 2016 niente riduzioni: sono state infatti approvate le cifre del “bilancio tendenziale”, quello che si forma automaticamente, ossia che i singoli ministeri e Regioni, Province e Comuni hanno preventivato per conto proprio. Con in più una deroga al patto di stabilità degli enti locali che consentirà di sforare il loro deficit in certi (numerosi) casi.

Se il risultato fosse una legge di stabilità che genera crescita, questo mancato taglio di spese e questo invito agli enti locali a spendere potrebbero essere accettabili come mezzo per mettere benzina nel motore dell’economia. Ma la previsione di crescita del Pil per il 2015 è meschina: +0,6 per cento contro il -0,3 del 2014, periodo per il quale il premier aveva, sino a pochi mesi fa, assicurato che ci sarebbe stata una crescita grazie agli 80 euro in busta paga. Dunque il governo ammette che la sua legge di stabilità non avrà effetti positivi, nonostante la manovra espansiva che la Bce di Mario Draghi ha già messo in campo e nonostante la svalutazione dell’euro del 10 per cento, misura che dovrebbe stimolare le nostre esportazioni e ridurre le nostre importazioni.

Non si può neppure dire che il mancato taglio delle spese, ossia l’affossamento della spending review del commissario Cottarelli (rispedito a Washington), sia giustificato dall’esigenza di agevolare la riforma del mercato del lavoro, che causa proteste sindacali e divisioni politiche nel Pd. Quest’ultima sta annacquandosi. La Bce ha purtroppo rinviato a dicembre le misure di credito diretto alle imprese perché il disegno di legge delega sul lavoro, già vago, rischia di peggiorare. Draghi continua a dire che senza le riforme l’ampliamento del credito all’economia è poco efficace, perché non c’è abbastanza convenienza a investire. E, insieme alla riforma del lavoro, raccomanda di tagliare le spese per ridurre le imposte.

Invece con la legge di stabilità attuale c’è un rischio di aumento preoccupante delle imposte. Il testo governativo, infatti, viola le regole europee sulla riduzione del deficit di bilancio per il 2015 e per il 2016. Per il 2015 lo sforamento è di 5,5 miliardi di euro. Per il 2016 potrebbe aggirarsi sui 16, in caso di peggioramento. Ciò viene tamponato con l’utilizzo della clausola di salvaguardia, che contempla l’aumento dell’Iva e di altre imposte indirette per 16 miliardi. L’aumento dell’Iva ordinaria dal 22 al 23% può portare nelle casse pubbliche 5 miliardi di euro. Vi è dunque il rischio di una maxi manovra con l’aumento delle aliquote del 10% e del 4%, di accise sulla benzina eccetera.

Eppure il commissario Cottarelli, prima di andarsene, aveva reso pubblico un diligente studio sulle società partecipate dagli enti locali, che sono 7.700, con mezzo milione di dipendenti. Dal documento risulta che i deficit ufficiali di bilancio sfiorano i 2 miliardi. C’è un ulteriore deficit occulto di quasi 18 miliardi ripianato con sovvenzioni degli enti locali. Dallo studio del commissario alla spending review si evince che nel giro di un biennio si potrebbero ricavare risparmi di 4-5 miliardi, pur senza liberalizzazioni thatcheriane. Inoltre, c’è una ampia area di risparmio di spesa che riguarda lo Stato, gli enti previdenziali, le imprese e gli enti del settore pubblico. Cottarelli, nell’autunno del 2013, considerava come obbiettivo minimo una riduzione della spesa di 22 miliardi di euro fra il 2015 e il 2017 e riteneva possibili ulteriori risparmi con scelte politiche.

Renzi ha licenziato Enrico Letta, ha piazzato i suoi nel governo, nelle imprese e negli enti pubblici. Poi ha licenziato Cottarelli, dicendo che i tagli li faceva lui. Però ha abbassando l’asticella a 5 miliardi. E ora paventa la minaccia di nuove imposte per 18 miliardi, sostenendo che con maggiori tagli di spesa creerebbe depressione, mentre è vero il contrario, soprattutto se, insieme a ciò, si riducono in misura sostanziale le imposte sul costo del lavoro delle imprese. Come l’Irap.

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Ma nessuno tocchi le tasse sull’eredità

Francesco Forte – Il Giornale

Matteo Renzi sembra stia pensando a una nuova nefandezza fiscale, cioè l’aumento dell’imposta di successione. Si ridurrebbe la attuale franchigia di un milione di euro, portandola a 300mila euro. L’aliquota fra parenti in linea retta del 4% salirebbe al 6%, quella del 6% sui parenti meno stretti andrebbe all’8% e l’aliquota ordinaria attuale, dello 8%, passerebbe al 10%. Il gettito, attualmente di mezzo miliardo, cosi raddoppierebbe.

Dato lo schema della proposta, il gravame andrebbe soprattutto sui ceti medi e modesti, sui parenti del defunto e sulle piccole aziende non strutturate. La tesi che viene avanzata per questa nuova vessazione tributaria è che si tratta di spostare le imposte dai redditi ai patrimoni. Tesi, comunque, priva di senso in un Paese con un debito pubblico che supera il 130% del Pil, in cui una buona ricchezza privata è garanzia del debito collettivo. Occorrerebbe un maggiore investimento, per accrescere la nostra produttività e competitività onde aumentare il Pil e rafforzare la bilancia con l’estero.

Silvio Berlusconi, sulla base di queste considerazioni, rilevanti anche allora, seppure un po’ meno pressanti aveva abolito l’imposta di successione. Io avevo fatto notare che essa aveva un gettito miserevole, incoerente con il valore annuo dei lasciti ereditari, che si può calcolare dividendo il presunto patrimonio annuo nazionale per 33 che è l’intervallo medio fra le generazioni. Quel calcolo vale anche ora. Se il patrimonio nazionale privato è 9.000 miliardi (evidente sottostima), il 33% è 300 miliardi. Se l’aliquota effettiva è il 4% (media prudenziale fra le aliquote del 4/6/8% attuali e gli esoneri vigenti), il gettito annuo dovrebbe essere 12 miliardi, non mezzo.

Chiaramente i ricchi e i furbi non pagano il tributo di successione anche ora che è al massimo dello 8%, cifra comunque consistente. Ricchi e furbi in parte hanno il controllo dei loro beni all’estero, tramite holding a catena e altre «scatole cinesi» con varie intestazioni e in parte detengono titoli e gioielli in cassette di sicurezza e casseforti. E inoltre con la partecipazione di figli e altri eredi alle varie società e alle scatole cinesi, sono in grado di generare passaggi di proprietà non tassabili. Il tributo successorio lo pagano i familiari del colonnello in pensione che oltre alla prima casa lascia due alloggi: uno che affittava e l’altro che usava come seconda casa. Lo pagano gli eredi del professionista che lascia l’ufficio, dell’artigiano e del negoziante che lasciano i loro piccoli capitali produttivi e l’avviamento.

L’esonero faceva perdere un gettito minimo, liberava gli uffici fiscali da pratiche complicate. Ma ciò che fa Berlusconi è considerato dal Pd, a priori, iniquo, anche se in realtà è ragionevole e liberale. Così Prodi, con un coro di sì dei giustizialisti, aveva reintrodotto il tributo successorio. Qualcuno ha voluto persino sostenere che l’imposta di successione era propugnata da Einaudi, dimenticando che questi, però, sosteneva l’esonero del reddito mandato a risparmio dall’imposta sul reddito, che egli voleva molto moderata. Einaudi non voleva l’imposta di registro. E non voleva che si tassassero i redditi distribuiti dalle società ove già tassati. Invece ora il tributo personale sul reddito arriva al 45% e non esonera il risparmio, salvo quando è tassato con l’elevata cedolare sulle rendite finanziarie. Le società sopportano un carico fiscale che può arrivare al 65%, mentre gli utili distribuiti sono tassati. Sugli immobili gravano sia l’Imu che l’imposta di registro del 9% per i trasferimenti a titolo oneroso. Per le successioni essa è comunque del 3% (però si chiama imposta ipotecaria e catastale) e si aggiunge al tributo di successione.

Basta aumenti Iva

Basta aumenti Iva

Francesco Forte – Il Giornale

Circolano due notizie inquietanti. L’Unione europea avrebbe chiesto all’Italia di aumentare al 10% l’Iva, attualmente al 4% per i generi alimentari e altri beni di prima necessità. E il Pil italiano quest’anno anziché crescere dello zero, come si è visto dai dati sino a luglio, decrescerebbe secondo l’Ocse dello 0,4 (con un peggioramento nel secondo semestre) e ciò danneggerebbe l’equilibrio di bilancio e il rapporto debito/Pil. Di qui una manovra correttiva, che verrebbe attuata sul lato delle imposte, anziché sul lato delle spese e delle privatizzazioni.

Se si seguisse la prima tesi, insieme alla seconda, ciò diventerebbe un vero suicidio. E i famosi 80 euro in busta paga apparirebbero una presa in giro, insensata. Che il Pil debba decrescere dello 0,4 in Italia nel 2014 mentre quello medio dell’Eurozona avrà comunque secondo l’Ocse un modesto andamento positivo, è qualcosa che dipende da ciò che Renzi si deciderà a fare, tanto per il decreto Sblocca Italia, che ancora non è operativo, quanto per l’urgentissima liberalizzazione del mercato del lavoro, di continuo rimandata e ridimensionata.

Comunque, in questo frangente, il governo non si può permettere un aumento generale al 10% dell’aliquota Iva del 4%, che in parte ricadrebbe, come maggior onere, sui consumatori e in parte rimarrebbe a carico delle imprese, accrescendo la crisi che serpeggia in molti esercizi commerciali e in molte imprese dei beni di largo consumo. E non si potrebbe neppure addurre l’argomento adottato per aumentare le imposte sugli immobili e reintrodurre quella sulla prima casa, ossia che esse riguardano i proprietari (come se non ci fossero persone a basso reddito che lo integranti con qualche modesto possesso immobiliare). L’aliquota Iva del 4% riguarda frutta, pasta, pane, verdura, latte, latticini, formaggi, cereali, pesce, crostacei, fertilizzanti, giornali, articoli per disabili, medicinali, vendita di prima casa e analoghi beni considerati di prima necessità.

Guardando con attenzione la lista, si trova che qualche aliquota del 4% è un privilegio, ma non sembra che lo si possa dire per l’elenco di massima appena esposto. Se è vero che esiste una richiesta dell’Unione europea di aumento dell’aliquota dal 4% al 10%, ciò non può riguardare i beni di consumo nella fase finale, perché questa tassazione è competenza dei singoli Paesi. Al massimo la richiesta europea per il consumo finale è di adottare l’aliquota ridotta comunitaria del 5% e non del 4%, ma l’Italia non è l’unico Paese che ha ottenuto questa piccola deroga.

Ciò che l’Unione europea ci può chiedere è di portare al 10% l’aliquota prelevata sui beni importati, per armonizzare il traffico internazionale comunitario. Questo può convenire anche a noi, perché ci consente di penalizzare le aziende produttive e gli esercizi commerciali che non fatturano l’Iva alla propria clientela. Essi perderebbero il diritto al rimborso del 10% sulla merce importata corrispondente e la loro concorrenza sleale rispetto agli esercizi che effettuano le fatturazioni diminuirebbe. L’Iva al confine per il traffico extracomunitario si controlla facilmente per i beni di massa di natura agroalimentare dato il loro volume e dato che, quando si tratta di prodotti freschi, si debbono adottare veicoli speciali a ciò attrezzati, Per il traffico comunitario non c’è la tassazione al confine, ma per i veicoli che trasportano i prodotti freschi è agevole fare i controlli presso i luoghi di destinazione all’ingrosso. Questo gettito comporta un recupero di imposte evase e non un onere per il consumatore, posto che alla fase finale il tributo rimanga al 4%.

Per il pane, la pasta, il latte, la frutta e la verdura ecc. che si vende nei negozi, la decisione dell’aumento appartiene al governo italiano. E sarebbe una ingiuria al buon senso l’effettuare questo aumento proprio ora, che la gente tira già la cinghia e che c’è scoraggiamento. Se il Pil diminuisce, anziché crescere di zero, il governo deve tagliare le pubbliche spese di natura variabile, non aumentare le entrate. In una famiglia, se il reddito cala, si tagliano tutte le spese variabili, non solo quelle dei biondi e non dei bruni e dei calvi o viceversa.