lavoro

Cuneo fiscale: sotto il Governo Renzi aumento del +0,4%. Toccato il livello record del 48,2% del costo del lavoro

Cuneo fiscale: sotto il Governo Renzi aumento del +0,4%. Toccato il livello record del 48,2% del costo del lavoro

ANALISI

In Italia il carico fiscale sul lavoro continua a crescere: tra il 2013 e 2014 è aumentato del +0,4%, toccando il livello record del 48,2% rispetto al costo del lavoro: significa che quasi metà di quanto gli imprenditori pagano per le buste paga dei lavoratori se ne va in tasse e contributi sociali. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro che, elaborando gli ultimi dati Ocse, dimostra come l’Italia sia l’unico grande paese europeo che registra una crescita consistente del cuneo fiscale. Quest’ultimo, infatti, diminuisce in Francia (-0,4%) e Regno Unito (-0,3%) mentre resta sostanzialmente invariato in Germania (+0,1%) e Spagna (0,1%).

 

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La pressione fiscale per i lavoratori si è effettivamente ridotta soltanto per alcune fasce di popolazione, in particolar modo per i single a basso reddito (il calo è compreso tra il -2,3% e il -2,5%) e le famiglie con due redditi (con una riduzione tra il -0,6% e il -0,7%). Risulta invece in aumento per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito medio o sopra la media (rispettivamente +0,4% e +0,5%). Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro deciso dal governo Renzi ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio.
Va poi osservato che, rispetto al 2009, l’unica categoria che si è vista diminuire il cuneo fiscale è quella dei single a basso reddito (-1,1% senza figli e -0,2% con figli) mentre le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quello per i single a reddito elevato (+1,8%) e medio (+1,4%). Per le famiglie con due redditi l’incremento è compreso tra lo 0,6% e lo 0,7%. La crescita del cuneo fiscale finisce insomma per penalizzare quelle famiglie che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.

 

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In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 30.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.880 euro, circa 640 euro annui in più di quello che sarebbe stato se l’incidenza del fisco fosse rimasta ai livelli del 2009. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto (+426 euro verso gli attuali 14.683 euro). L’aggravio rispetto al 2009 è inferiore per le altre categorie di famiglie, che hanno subìto un trattamento più favorevole proprio tra il 2013 e il 2014. Anche per loro, tuttavia, di aumento si tratta: tra i 243 e i 306 euro annui. Solamente i single sotto la media pagano di meno, in proporzione, rispetto al 2009 (con un risparmio quantificabile, sui redditi 2014, tra i 40 e i 225 euro) mentre i redditi più alti hanno avuto l’incremento più consistente (+916 euro).

 

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Se le famiglie italiane vivessero all’estero si troverebbero in condizioni decisamente migliori. Grazie a un cuneo fiscale inferiore rispettivamente di 6 e 5 punti percentuali, una famiglia monoreddito con figli che vivesse in Germania o Spagna e con uno stipendio lordo di 30.400 euro si ritroverebbe in tasca tra i 1.250 e i 1.570 euro in più ogni anno (tra i 104 e i 130 euro in più al mese). Lo spread con Regno Unito è ancora più ampio: a parità di condizioni reddituali lorde, una famiglia di Londra risparmierebbe in tasse 3.783 euro all’anno (315 euro al mese). Tra le grandi economie, solo la Francia fa peggio di noi: qui un nucleo monoreddito con figli a carico pagherebbe in tasse 466 euro in più ogni anno.

 

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Un’ipotetica famiglia che avesse invece due redditi da lavoro, uno full time e uno part-time, non troverebbe condizioni peggiori di quelle italiane. Qui il cuneo fiscale pesa per il 39,7% del reddito lordo con un valore di 16.072 euro. In Francia si risparmierebbero 855 euro, in Germania 445 euro, in Spagna 1.296 euro e nel Regno Unito addirittura 6.800 euro.

 

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Per Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, «questi dati dimostrano come il nostro paese continui a tassare troppo, e spesso più di tutti gli altri, i fattori produttivi e il lavoro in particolare. Per molti anni si è discusso di un possibile riequilibrio del sistema di tassazione, con lo spostamento della pressione fiscale dal lavoro ai consumi. Quel che è accaduto concretamente è che la pressione sui consumi è aumentata grazie all’innalzamento delle aliquote Iva (e probabilmente crescerà ancora) mentre non è diminuita e si è in alcuni casi inasprita quella sul lavoro. La manovra degli 80 euro è servita a poco: come abbiamo visto ha dato poco e male ad alcuni ma ha tolto ad altri»

 

Occhio alla bolla dei nuovi contratti

Occhio alla bolla dei nuovi contratti

Davide Giacalone – Libero

I primi dati 2015, relativi al lavoro, fecero gridare all’immediato successo del Jobs Act. Peccato non fosse ancora entrato in vigore. I dati di marzo segnano un ulteriore saldo positivo (per 92.299 posti di lavoro), e questa volta la riforma del lavoro è in vigore, proprio dall’inizio di quel mese. Se ne vedono gli effetti? Li si vedranno ancora?

Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, invita alla prudenza e teme gli entusiasmi, che possono divenire boomerang: «Stiamo parlando di nuovi contratti, non di nuovi posti di lavoro». Il dato che emerge, in quella trasformazione, è la crescita dei contratti a tempo indeterminato (+49,6% rispetto al marzo 2014). Un fatto positivo, che, però, va letto alla luce di un altro dato e di un altro fatto: a) quella tipologia contrattuale copre il 25% delle nuove attivazioni, dei nuovi contratti, il 75% resta a tempo determinato, apprendistato, collaborazioni e altro; b) il concetto di «indeterminato» è cambiato, e sarebbe davvero singolare che ci si dimenticasse la più significativa e positiva innovazione contenuta nel Jobs Act: il contratto a tutele crescenti, talché se ti assumono oggi con un contratto di quel tipo non significa affatto che hai agguantato la stabilità (sempre relativa) del passato, ma hai solo cominciato un percorso che ti porterà, dopo anni, ad avere diritti e tutele comunque inferiori ai lavoratori stabili dell’era precedente. Non critico questo fatto, anzi ne condivido la realistica convenienza, avverto sul possibile imbroglio che consiste nel chiamare con lo stesso nome cose diverse.

Quelli che mostrano di funzionare, però, sono gli incentivi fiscali e le decontribuzioni, che spingono le imprese ad assumere. Il guaio di questi strumenti è che, da un lato, sono temporanei, quindi vanno rifinanziati e, dall’altro, questo potrebbe gonfiare una bolla, una bollicina (a essere precisi), nel 2015, per poi dare luogo a un’implosione nel 2016. Luca Ricolfi ha, giustamente, formulato tale dubbio. Per questo è preoccupante la digressione sul «tesoretto». Non solo per la fregola immaginifica ma, soprattutto, perché la ricerca dell’impiego per alimentare il consenso ha imboccato la via sbagliata: altri premi agli occupati esistenti, modello 80 euro, anziché facilitazioni alle aziende per crearne dei nuovi.

Occhio, infine, a non dimenticare di cosa stiamo parlando, ovvero di un’economia che pensa di crescere, quest’anno, dello 0,5­0,7%, quindi, a seconda delle previsioni, fra la metà e un terzo dell’eurozona. Come si può pensare che una crescita così modesta crei le condizioni per riassorbire la disoccupazione? Che, infatti, resta altissirna. Il problema di gestione politica, normalmente, è che le scelte capaci di propiziare maggiore crescita e produttività creano un effetto ritardato sull’occupazione (che arriva dopo), quindi creando un problema a chi governa, perché rischia di non riuscire a spiegare e far vedere gli effetti positivi di quel che sta facendo. Qui si pretende il contrario, ovvero che l’occupazione cresca prima e di più del prodotto interno lordo. Quando simili prospettazioni vengono presentate ci sono due possibili vie: gridare al miracolo, degno di entrare nei manuali d’economia; oppure avvertire che trattasi di una visione, di un inganno ottico.

Suggestivo, ma irreale.

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

Repubblica.it

La crisi colpisce anche le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: negli ultimi 10 anni le somme dirette verso i paesi d’origine dei migranti hanno raggiunto i 60 miliardi di euro, ma il trend rilevato da un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia mostra chiari segnali di sofferenza.

Osservando la ripartizione per anno, infatti, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007.

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Lavoratori stranieri in Italia

Lavoratori stranieri in Italia

NOTA

Dal 2005 al 2014 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di quasi 60 miliardi di euro (per la precisione 59 miliardi e 266 milioni). Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia.
Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%).

Anno

Limitatamente a quest’ultimo anno, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 119,4 milioni), nel Lazio (985,1 milioni), in Toscana (587,1 milioni), in Emilia-Romagna (459,7 milioni), in Veneto (426,3 milioni) e in Campania (306,7 milioni).

Regioni

Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro Studi “ImpresaLavoro” (che contempla cittadini di 176 nazionalità differenti) risulta che nel 2014 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (876 milioni) e cinesi (819 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Bangladesh (360 milioni), dalle Filippine (324 milioni), dal Marocco (250 milioni), dal Senegal (245 milioni), dall’India (225 milioni), dal Perù (193 milioni), dallo Sri Lanka (173 milioni) e dall’Ucraina (144 milioni).

Nazioni

Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano gli spagnoli (42,9 milioni), seguiti dai francesi (29,4 milioni), dai tedeschi (27,8 milioni), dai britannici (21,5 milioni) e infine dai greci (12,2).

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L’aumento dei disoccupati fa saltare il bluff dell’illusionista Renzi

L’aumento dei disoccupati fa saltare il bluff dell’illusionista Renzi

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è che cresce la disoccupazione, ma che diminuisce l’occupazione. Già patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, semmai un invito a piantarla di giocare con i numeri. Nessuno dovrebbe, oggi, rimproverare al governo i dati sulla disoccupazione, se non fosse che il governo, ieri, sparava numeri propagandistici. Ed è semplicemente demenziale continuare a misurarsi solo con se stessi: da noi la disoccupazione cresce, mentre diminuisce sia nell’Eurozona che nella Ue (28 paesi). Si cerchi di essere seri, quando si parla di cose serie. Invece se n’è vista poca, negli ultimi giorni, di serietà. Nell’eurozona la disoccupazione si attesta all’11,3%, scendendo dello 0,1 in un mese (febbraio rispetto a gennaio) e dello 0,5 in un anno (2015 rispetto al 2014). Nella Ue le cose vanno meglio: 9,8 i disoccupati, ­0,1 in un mese e ­0,7 in un anno. In Italia i disoccupati sono il 12,7 a febbraio, in crescita dello 0,1 in un mese, +2,1 nei 12 mesi. Matteo Renzi ama parlare dei nuovi contratti in termini assoluti, invitando a considerarli vite ritrovate. Bella suggestione, ma qui abbiamo 67mila disoccupati in più. Vite complicate.

Attenzione, però, perché il tasso di disoccupazione è certamente un problema, ma la sua crescita non necessariamente un male: se più persone nutrono fiducia e più numerosi cercano lavoro, quel tasso sale. Ma qui il segno è controverso, perché gli inattivi, quanti un lavoro non ce l’hanno e non lo cercano, sono il 36% a febbraio: +0,1 rispetto a gennaio, ­1,4 su base annua. Luci ed ombre. Per una lunga stagione, fra il 2003 e il 2012, il tasso di disoccupazione italiano è stato inferiore alla media europea. Siccome ci sforziamo di ragionare e proporre, senza tifare e imbrogliare, scrivevamo che era drogato dalla cassa integrazione. Se avessimo contabilizzato fra i disoccupati quelli che pur non lavoravano per nulla, non saremmo più stati sotto la media europea. I governanti di allora (centrodestra) si arrabbiavano. Ora, però, siamo da un pezzo sopra la media. E la distanza si allarga. Unica consolazione è il calo della cassa integrazione. Consolazione misera se si giunge al dato decisivo.

Quel che conta è la partecipazione al lavoro. Ciò che classifica un Paese (ove non si viva di rendite petrolifere) è la percentuale di popolazione attiva effettivamente impegnata nella produzione. E qui son dolori seri, perché siamo solo al 55,7%. Che non è solo nettamente sotto la media europea e ancor più sotto quella dei concorrenti (Germania in testa), ma è anche in diminuzione (­0,2 in un mese, 44mila persone in meno al lavoro). La partecipazione maschile al lavoro si attesta al 64,7%, bassa, ma non con un distacco drammatico rispetto agli altri. Mentre quella femminile è al 46,8. Roba da fondamentalisti islamici. Ma il nostro non è un problema religioso, bensì ideologico e patologico: donne e giovani (42,6% di disoccupati, in crescita, mentre i giovani occupati scendono del 3,8 in un mese e dello 0,6 in un anno) fuori dal lavoro. Ovvio che con così scarsa partecipazione al lavoro l’Italia segni tassi di crescita inferiori a quelli che, altrimenti, la manovra espansiva della Bce consentirebbe. Il che aggrava i nostri problemi e aumenta lo svantaggio competitivo. Biascicare frasette sul ritrovato segno positivo è, dunque, patetico. Questa è la foto, se la piantiamo di prenderci in giro. Ed è un’immagine che somiglia molto a quella della Germania di 15 anni fa. Prima delle riforme. Loro le hanno fatte, noi no. Discusso, tanto. Fatto, poco.

Il ministro del Lavoro, Poletti, ha detto che il governo si sforzerà di prorogare gli incentivi per le nuove assunzioni. Strada sbagliata, perché qui abbiamo uno spaventoso svantaggio strutturale, non un inciampo congiunturale. Spostando risorse si sposta improduttività, gravando sulla fiscalità. A noi serve chiamare masse di inattivi e disoccupati al lavoro, specie donne e giovani. E un risultato di quel tipo non lo si ottiene con gli incentivi, ma con le defiscalizzazioni e deregolamentazioni. Germania docet. La cosa curiosa è che il governo dice di averlo già fatto, con il Jobs Act (che ancora deve cominciare a funzionare, Landini su questo, ha ragione). Ma poi non ci crede, puntando sugli incentivi. La realtà è che quanto c’è di buono, in quella legge, è, al momento, solo propaganda. Mentre quel che manca è realtà, a cominciare dai soldi per modificare gli ammortizzatori sociali. Peccato che le chiacchiere non producano ricchezza, altrimenti vivremmo da nababbi.

L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora

L’Inps pensa alla tassa per dare uno stipendio a chi non lavora

Davide Giacalone – Libero

L’Italia ha bisogno di chiamare molte più persone al lavoro, non di inventare un reddito per chi non lavora. Finché coltiveremo l’illusione che il reddito sia un diritto e la produzione una eventualità continueremo a perdere competitività, impoverendoci. Nella sua prima intervista da presidente dell’Inps il prof. Tito Boeri dice, da par suo, almeno quattro cose interessanti. La prima, però, merita subito che la precisi e chiarisca: «Bisognerebbe spendere meglio le risorse pubbliche, prevedendo ad esempio un reddito minimo per contrastare le situazioni di povertà, finanziato dalla fiscalità generale». Se per reddito minimo s’intende una retribuzione base per chiunque lavori, è un conto. Da fare. Se s’intende quello che in politichese chiamano «reddito di cittadinanza» è tutt’altro, e va malissimo.

Con la partenza (positiva, se parte) del contratto di lavoro a tutele crescenti, per cui si cancella la non licenziabilità e si acquistano diritti con il passare del tempo, è naturale che cambino gli ammortizzatori sociali e sparisca la cassa integrazione. Ciò comporta disponibilità di fondi adeguati. E già sappiamo che sulla carta ci sono fino all’anno prossimo, mentre dal 2017 scarseggiano e la copertura, in caso di disoccupazione diminuisce. Male, perché son nozze con i fichi secchi. Può starci che si fissi un reddito minimo, che sia tale di nome e di fatto. Come è successo in Germania. Se, invece, andiamo al reddito di cittadinanza, cioè ai soldi elargiti per il solo fatto di esistere, allora ricorderemo i forestali della Calabria come preclaro esempio di sana amministrazione e lodevole dedizione al lavoro. Se si accedesse a una follia di quel tipo, restando ignoto dove mai si possano prendere i soldi, rivaluteremmo le pensioni regalate. Voglio credere che Boeri non abbia sostenuto nulla di simile, ma sarà bene lo spieghi anche agli altri. Mi domando, altrimenti, perché mai un giovane, o anche un maturo, debba andare a faticare per incassare 100 o 200 euro in più di quelli che riceverebbe stando con le mani in mano. O, meglio, usandole per fare lavori in nero. Senza contare la fucina delle truffe, per cui un solo posto di lavoro genera un pensionato, un disoccupato e un occupato, dove uno è pagato dall’impresa e gli altri mantenuti dal contribuente.

Giusta l’idea di rendere flessibile l’età pensionabile, nel senso che ciascuno ha diritto di ritirarsi quando vuole, salvo il fatto che riscuoterà solo in ragione di quel che ha versato. E bene la trasparenza dei dati, che è la sola cosa che manca per avere ciascuno piena contezza di quanto prenderà di pensione. Non è questione di buste gialle o di pin, di carta o d’informatica, perché ci sono centinaia di società private che rendono disponibili, ai loro clienti, quelle previsioni. È la cosa più facile del mondo. Ma a una condizione: che siano chiari e trasparenti i dati. Questo è il problema dell’Inps. Sono sicuro che Boeri farà un buon lavoro, diradando le nebbie. Fatte queste due cose, resi noti i dati e flessibile l’età di uscita, però, ciascuno scoprirà d’essere povero. Le pensioni del futuro saranno più povere. Quelle giuste cose, quindi, hanno un senso non se servono a diffondere la depressione, ma se incentivano al risparmio integrativo. La qual cosa è possibile solo se cala la pressione fiscale. Il che è l’opposto del regalare redditi a chi non lavora. Per tornare da dove siamo partiti.

Boeri, infine, assicura di volere intervenire anche sulle pensioni in essere, laddove la distanza fra il capitale versato e il reddito che se ne ricava è eccessivo. Non illegale, perché tutto discende da leggi dissennate (modello reddito di cittadinanza), ma eccessivo. Così attacca il totem dei diritti acquisiti. Ha ragione e fa bene. Pronti a sostenerlo. Ma qui mi si consenta di avere meno sicurezze, giacché gli sarà difficile trovare qualcuno disposto a fare quel che è necessario. Non dimentichiamoci che la destra alzò le pensioni minime e la sinistra ha regalato gli 80 euro. Il partito della spesa pubblica è piuttosto ben attrezzato.

Produttività: il vero problema dell’Italia

Produttività: il vero problema dell’Italia

Abstract

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007, in realtà, stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Come dimostriamo in questo lavoro, non basta analizzare i livelli di salario reale per capire se un paese è più o meno competitivo: bisogna guardare anche alla produttività. Da questo punto di vista, ci si accorge che dal 2007 al 2013 oltre agli stipendi è calata la produttività e per cause che spesso non hanno a che fare con la crisi economica.

Le retribuzioni

Hanno suscitato un vivo dibattito, per almeno un giorno, i dati ISTAT sulle retribuzioni in Italia.

grafico 1

FONTE: Struttura del costo del lavoro – ISTAT (2014)
 
Come si può vedere, i dati riportati, che fanno riferimento alla situazione nel 2012, presentano un Paese in cui la somma fra la retribuzione lorda e i contributi sociali si pone subito sotto la media dell’Area Euro. Un fatto che smonta molti luoghi comuni sull’alto costo del lavoro in Italia: un costo elevato se paragonato a quello presente in Polonia, ma inferiore a quanto pagato in Francia o in Germania. Secondo dati più recenti riguardante il periodo fra 1° trimestre del 2009 e il 2° trimestre 2014, il costo del lavoro è variato sostanzialmente poco e non sempre al rialzo, con una netta flessione verso l’immobilità dal 3° trimestre del 2013.

grafico 2

FONTE: ISTAT- INDICATORI DEL LAVORO NELLE IMPRESE (2014)
 
A questo punto, c’è da chiedersi cosa sia accaduto negli altri paesi, per poter capire se effettivamente negli anni stiamo assistendo a una crescita o a una riduzione del salario degli occupati italiani relativamente ai loro colleghi di altri paesi europei.
Secondo quanto descritto in un recente lavoro dell’ILO, International Labour Organization, l’agenzia dell’Onu che si occupa di monitorare le variabili chiave del mercato del lavoro (occupati, retribuzioni, qualità forza lavoro, ecc…) e di promuovere nel mondo le migliori pratiche per favorire un’occupazione diffusa, regolare e sicura, in Italia il salario reale, ovvero la retribuzione lorda commisurata al costo della vita, è scesa dal 2007 del 6%. Un calo questo più rilevante di quello registrato, per esempio, in Portogallo o in Irlanda.

grafici 3 4

FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15
 
In Italia, soprattutto dal 2010, il potere d’acquisto dei salari è sceso del 6% e c’è quindi poco da meravigliarsi se la domanda interna non si riprende: meno soldi ai lavoratori, meno consumi. Questo vuol però anche dire che se il lavoro costa meno, a parità di ogni altro fattore le aziende diventano più competitive. Questa spinta verso una maggior competitività dovrebbe riflettersi nel tempo nella produzione di beni e servizi meno costosi, e quindi più appetibili sui mercati internazionali. Così, di solito, vengono interpretati questi dati nei mass media.
Eppure, mancano due elementi per comprendere se davvero questa riduzione del reddito da lavoro porterà veramente a un aumento della competitività del sistema, un aumento che a regime potrà creare nuovi posti di lavoro e rilanciare la domanda interna. Il primo elemento riguarda la produttività. Il secondo elemento ha a che fare con la massa di denaro appannaggio dei lavoratori stipendiati, la stragrande maggioranza della forza lavoro.

La produttività

A un bravo imprenditore dovrebbe interessare poco quanto costa un dipendente: finché costui rende all’impresa più di quanto essa spenda per averlo a sua disposizione, ci sono buone ragione per assumere delle persone. Si pensi al calcio, un settore in cui la forza lavoro è molto costosa (si prendano i dati sui giocatori più pagati del calcio nazionale o europeo per farsene un’idea).
Seguendo questa catena di ragionamento, si argomenta che se il costo del lavoro diminuisce, un’impresa sarà più competitiva e cioè: pagando meno una persona che compie un certo lavoro, il lavoro costerà meno e potrà essere venduto a un prezzo più basso. Se, ad esempio, si riduce la tariffa kilometrica dei taxi, ogni tratta costerà di meno, rendendo così più competitivo il servizio di taxi rispetto alle alternative presenti (es.: bici, auto privata, mezzi pubblici, ecc…).
Purtroppo spesso si da per scontato che la produttività non cambia nel tempo, rimanendo costante indipendentemente dalla paga o da altri fattori. Semmai, questa aumenta a seguito di investimenti specifici.
E’ ovvio che una persona ben pagata lavora meglio, se non altro perché vede riconosciuto il suo impegno. In ogni caso, questo ragionamento serve a far comprendere che l’analisi del costo del lavoro senza l’analisi della produttività non porta a nessuna conclusione azzeccata. Così come senza un’analisi della cause che portano a modificare il costo del lavoro o la produttività, non si può pensare di proporre una qualsiasi riforma che sortisca degli effetti positivi nel medio-lungo periodo.
Eurostat, l’istituto di statistica europeo, fornisce dati molto interessanti sulla produttività. Nella tabelle che riportiamo in Appendice, l’Istituto analizza i dati sulla produttività reale per addetto nei 28 paesi dell’Europa Unita. Fatto 100 la produttività misurata nel 2010, l’Italia ha un valore di 102 nel 2004, raggiunge un valore pari a 103 nel 2007, e scenda a un valore di 98 nel 2013. Quindi, alla riduzione del 6% del salario intercorsa fra il 2007 e il 2013 si è accompagnata una riduzione della produttività per addetto del 4,85%.
Attenzione a leggere bene questi dati: si guardi il caso della Germania e della Spagna. In Germania il salario è cresciuto, fra il 2007 e il 2013, del 3%, mentre la produttività per addetto è scesa del 2%. Però nello stesso periodo la disoccupazione è scesa di circa il 3%, facendo sì che vi fossero più addetti e quindi, a parità di produttività, abbassando il valore della produttività per addetto (produttività totale / occupati).
In Spagna, invece, a fronte di un calo del salario reale del 3%, c’è stato un aumento della produttività per addetto del 10%. Eppure la Germania tira, la Spagna no. Questo si spiega con riferimento al numero di addetti: infatti, se la disoccupazione aumenta più della produttività totale dovremmo assistere a un aumento della produttività per addetto. In Spagna la disoccupazione è aumentata ed è circa il doppio della nostra: ora è circa al 25%, era poco più dell’8% nel 2007. Meno persone che fanno le stesse cose, produttività che sale. Fra Germania e Spagna c’è una differenza di 20 punti nel tasso di disoccupazione e questo spiega la differenza fra i dati dei due paesi.
In definitiva, come emerge dalla seguente figura, l’Italia ha molti punti di produttività da recuperare. E da anni, da ben prima dell’introduzione dell’Euro.
Grafico X: Relazione fra la retribuzione reale per addetto e la crescita della produttività nelle principale economie sviluppate, 1999-2013

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FONTE: ILO Global Wage Report 2014/15

Il settore manifatturiero

Nello specifico, prendendo a riferimento il comparto manifatturiero, il settore che traina sostanzialmente il nostro export e che da lustro all’idea di Made in Italy, come fa osservare il Centro Studi di Confindustria (Scenari Industriali, giugno 2014), dal 2007 al 2013 il manifatturiero in Italia ha perso competitività rispetto ai partner europei sia in termini di produttività oraria sia di costo del lavoro:

grafico 6

Come riporta il Centro Studi di Confindustria, a commento del grafico appena riportato:
«Sul piano internazionale il manifatturiero italiano ha perso competitività in termini di CLUP2 rispetto sia alla media dell’Eurozona sia ai singoli principali paesi (che infatti si collocano tutti nel quadrante in basso a destra del grafico), dato che la produttività del loro manifatturiero è cresciuta più che in Italia, con un costo del lavoro che è aumentato a ritmo inferiore. Durante la crisi anche l’industria manifatturiera tedesca ha sofferto in termini di produttività, che è cresciuta solo dell’1,5%. L’andamento del costo del lavoro in Germania è stato, tuttavia, ben più contenuto che in Italia (+14,8% cumulato), grazie a una moderazione salariale già in atto nel periodo pre-crisi e che si è allentata solo di recente. Tra il 2007 e il 2013 il CLUP tedesco ha pertanto registrato un incremento pari al 13,0%. Ciò fa sì che dall’inizio della crisi la competitività di costo del manifatturiero italiano sia arretrata rispetto a quella dell’industria tedesca di 6,2 punti percentuali, aggravando il già ampio divario accumulatosi nel decennio precedente (35 punti dal 1997 al 2007)» (p. 51)
Nel settore manifatturiero, il CLUP è aumentato del 20% in 6 anni (2007-2013), rendendo il settore meno competitivo. E non c’è svalutazione che tenga per riportare competitività ad un sistema che ha dei problemi strutturali! A conferma di quanto detto prima, come si vede nel seguente grafico riportato nell’ottimo studio di Confindustria anche nel settore manifatturiero il problema della competitività del sistema Italia ha una storia lunga almeno 3 lustri.

grafico 7

Esistono molteplici spiegazioni alla base di una scarsa competitività del sistema Italia. Qui vogliamo riportare due soli dati: l’andamento dello Stock di capitale fisso e la spesa in Ricerca e Sviluppo. Il primo dato serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa e il secondo dato serve a capire se il sistema Italia investe per sviluppare nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuovi processi.
Stock di capitale lordo, stock di capitale netto e ammortamenti, Anni 1980-2009.
(Variazioni percentuali, Valori concatenati – Anno di riferimento 2000)

grafico 8

FONTE: ISTAT – Investimenti fissi lordi per branca proprietaria, stock di capitale e ammortamenti.
 
Come si vede, lo stock di capitale netto nel paese cresce ad un tasso sempre più basso, specialmente negli anni dello sviluppo massiccio dell’informativa applicata all’industria e ai servizi (dagli anni ’90 in poi), consegnandoci all’alba della crisi un Paese poco attrezzato per rispondere con la tecnologia alle sfide che ha davanti. Non va meglio, ovviamente, alle spese per Ricerca & Sviluppo: le imprese coprono il 50% delle spese in R&S, lo Stato l’altro 50%, con valori al di sotto della Spagna o del Portogallo.

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Senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività. Ma senza investimenti, non avremo mai alcuna innovazione.

Conclusioni

I salari reali sono diminuiti e ora sono in linea con la media Europea: questo ci ha detto l’Istat poche settimane fa. Se non fosse accaduto null’altro, questa sarebbe una buona notizia. Purtroppo, come abbiamo cercato di mettere in luce in questo studio, la riduzione del salario si accompagna a una riduzione della produttività che ha fra le sue cause una scarsa attitudine delle imprese italiane e dello Stato a investire in R&S e nello stock di capitale utile alla produzione. Ai lettori lasciamo trarre le conclusioni sulle vere urgenze del paese.

Appendice

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