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La trincea delle lobby

La trincea delle lobby

Luigi Guiso – La Repubblica

Con il progetto di riforma delle banche popolari approvato ieri dal Consiglio dei ministri (dieci di esse, le più grandi, dovranno diventare Spa entro un anno e mezzo) Renzi replica il modello di attacco frontale usato per l’articolo 18, questa volta contro una delle più forti e trasversali lobby finanziarie italiane. L’iniziativa, se andrà a buon fine, può avere conseguenze rilevanti per la governance di una parte importante delle banche, migliorare il governo societario e accrescere il grado di concorrenza nel mercato del credito. Un aiuto ai correntisti, al risparmio e alla crescita. La parte centrale della riforma si riduce all’abolizione del voto capitario. Ovvero, della regola vigente per questa tipologia di banche per la quale il diritto di voto degli azionisti (soci) è indipendente dal numero di azioni (quote) detenute. Ogni socio ha diritto a un voto in assemblea, anche se possiede la metà del capitale.

Quale è il problema di un simile assetto di governo? Principalmente la difficoltà del passaggio di mano del controllo. In una società per azioni è sufficiente comprare i titoli sul mercato per scalzare un gruppo di controllo. Chi è disposto a pagare in proprio per comprare azioni che gli consentano di assumere il controllo ha un fondato motivo per ritenere di poter gestire la società meglio di quanto non faccia il management in carica. Il voto per azione garantisce che questo passaggio possa avvenire, quindi che si possa conseguire un vantaggio di efficienza. I potenziali guadagni possono essere notevoli ma saranno altrettanto grandi le perdite se il meccanismo di riallocazione del controllo funziona male.

Nelle banche popolari (e in genere nelle società cooperative) il cambio di controllo richiede che qualcuno metta d’accordo la metà più uno dei soci per scalzare la gestione corrente, se questa non funziona. È semplice capire i limiti del meccanismo. Se un socio è insoddisfatto della gestione, per estromettere il gruppo dirigente deve prima riuscire a convincere la maggioranza dei soci e portarne in assemblea un numero sufficiente. È ragionevole pensare che questa capacità di mobilizzazione e di coordinamento esista se si tratta di piccole cooperative, dove bastano poche telefonate per spiegare le cose e convincere altri soci a partecipare a una azione collettiva contro la dirigenza in carica. Ma per cooperative con migliaia e migliaia di soci, come accade ad esempio nelle grosse banche popolari (la Popolare dell’Emilia ne ha 90mila), chi mai tra i singoli soci sarà disposto a spendere il proprio tempo (e i propri soldi) per radunare altri soci nella speranza di raggiungere una maggioranza che consenta di estromettere il management in carica? Il beneficio, in termini di maggior efficienza della banca, va a tutti i soci, mentre il costo di gestione del dissenso pesa solo sul coordinatore. Inoltre, la capacità di mobilizzazione del gruppo che esercita il controllo è molto maggiore di quella di qualunque socio, rendendo arduo qualsiasi piano per estromettere il vertice. Da questo punto di vista le vicende della Popolare di Milano sono emblematiche.

Di fatto, nelle banche popolari la struttura cooperativa – e il voto capitario che la caratterizza – è servita ai gruppi di controllo di alcune per perseguire le loro ambizioni di costruzione di piccoli imperi, rimanendo al riparo dalla possibilità di un take over, come ad esempio nel caso del gruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna. L’abolizione da parte del governo del voto capitario è un passo da giudicare con estremo favore. Non si tratta di un attacco allo spirito mutualistico del movimento cooperativo, come i rappresentanti di queste banche si sono già affrettati a sostenere. Non lo è perché le grandi banche popolari di “mutualistico” hanno ben poco, mentre le piccole – che di cooperativo hanno ancora parecchio (soprattutto le Bcc) – conserveranno le loro caratteristiche. Di più: il provvedimento è una presa d’atto tardiva, perché nessun governo prima d’ora aveva osato opporsi al potere di influenza delle popolari più grandi.

Se il governo riuscirà a portare a termine la riforma saremo di fronte a una svolta molto importante. Ma il fuoco di sbarramento della lobby è già cominciato e i cannoni spareranno dalle trincee di tutti gli schieramenti politici. A destra come a sinistra. La battaglia in Parlamento si annuncia durissima. Prepariamoci a vedere schierata tutta la potenza di interdizione di cui sono capaci le banche popolari, a riprova che di ‘cooperativo’ hanno poco, ma di politico moltissimo.

Blitz contro un mondo pietrificato

Blitz contro un mondo pietrificato

Francesco Manacorda – La Stampa

Difficile condividere la sicurezza di Matteo Renzi sul fatto che il decreto varato ieri dal governo per trasformare le dieci maggiori banche popolari in società per azioni cambi segno a una situazione in cui «abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito». Non esistono studi che dimostrano che con meno banche e banchieri le imprese vedano aumentare il credito concesso, né ci sono evidenze sul fatto che le banche popolari facciano crediti in misura inferiore di quanto accada alle banche che sono Spa.

Più facile comprendere le ragioni che hanno spinto Renzi a un vero e proprio blitz per decreto sulle popolari e immaginare quali saranno le conseguenze di questa mossa. Le ragione principale, per usare le parole del ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, è quella di «dare una scossa» al sistema davvero pietrificato delle popolari, che basandosi sul voto capitario – una testa un voto, indipendentemente da quante azioni si abbiano in tasca – ha finora consentito alla maggior parte di esse di mettersi al riparo da qualsiasi rischio di scalata da parte di altre banche e in molti casi ha assicurato la permanenza al vertice degli stessi uomini per periodi che si misurano non in anni ma in decenni. E la conseguenza facilmente prevedibile di questa scossa è un aumento delle concentrazioni bancarie.

Era comunque opportuno muoversi per sanare un’anomalia più e più volte segnalata anche dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: la maggior parte delle dieci maggiori popolari che rientrano nel decreto sono assimilabili ormai, per dimensione e modalità operative, ai grandi gruppi bancari. Corretto, dunque, uniformarle a questi sotto alcuni profili: una governance che permetta a chi ha la maggioranza del capitale di incidere e non ostacoli né contendibilità né ricambio ai vertici, una maggiore trasparenza nei rapporti con le autorità di vigilanza, financo – sostengono alcuni – la possibilità di accedere al mercato del credito con condizioni migliori. L’urgenza della manovra è dettata anche dall’entrata in vigore dell’Unione bancaria e dalla necessità di avere condizioni il più possibile uniformi tra i vari istituti.

Si reciderà in questo modo il rapporto delle popolari con il territorio, come protestano insolitamente concordi esponenti di destra, di sinistra e dei Cinque stelle? Non necessariamente. Anche in questo caso non è dimostrata la relazione tra la governance di una banca e il suo rapporto con la realtà in cui opera. E il fatto stesso che una vasta porzione di banche più piccole, in particolare quelle di credito cooperativo, non venga toccata dal provvedimento, dimostra che secondo il governo il cambio di registro non è necessario per tutti.

La conseguenza prevedibile della mossa di ieri, magari anche prima che si siano esauriti i 18 mesi di tempo dati alle popolari per cambiare il loro statuto, è dunque che le nuove società per azioni – non più frenate dal voto capitario che sottopone qualsiasi decisione al voto della maggioranza non delle azioni, ma degli azionisti – saranno protagoniste di fusioni e acquisizioni. Magari tra di loro; magari unendosi a qualche Spa già esistente; magari salvando qualcuna delle Spa bancarie in difficoltà. Se infatti i critici delle popolari citano casi scandalosi come quello della Popolare di Lodi o di Banca Etruria, dal mondo del credito cooperativo si può rispondere ricordando casi come Mps, Carige e Banca Marche, in cui l’essere società per azioni non ha evitato di finire in un mare di guai. Come a dire che non basta solo il modello Spa per eliminare i rischi di una cattiva attività bancaria.

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Franco Mostacci – Il Fatto Quotidiano

Molto si è detto sull’opportunità di fissare un valore massimo di indebitamento rispetto al Pil. Se l’Italia sfora il tetto del 3 per cento, la Commissione europea avvia la procedura per deficit eccessivi e si rischia di perdere i possibili benefici derivanti dalle nuove regole sulla flessibilità negli investimenti. Nella Nota di aggiornamento al Def il governo ha previsto per il 2014 un indebitamento netto della pubblica amministrazione di 49,212 miliardi di euro e un Pil nominale di 1.626,516 miliardi di euro (+0,5% sul 2013). Il rapporto tra le due grandezze è 3,03%, arrotondato a 3%. Con questi numeri il vincolo imposto dal Patto di stabilità e crescita sarebbe rispettato. La stima del Pil nominale appare, però, troppo ottimistica. Alla luce di una flessione del Pil reale (-0,4%) e di un’inflazione al consumo di 0,2%, è plausibile ritenere che il Pil nominale rimanga sugli stessi livelli dello scorso anno e non superi i 1.620 miliardi. Il rapporto deficit/Pil ne risentirebbe ben poco: perfino una leggera diminuzione non sarebbe comunque sufficiente a far scattare il fatidico decimale in più.

Diverso è il discorso se è l’indebitamento ad essere peggiore del previsto. Il margine a numeratore è, infatti, di appena 200 milioni. Le entrate per il 2014 dovrebbero essere di 786,1 miliardi (+0,5% rispetto al 2013), per il 90% dovute a imposte e contributi. I dati disponibili, aggiornati a novembre, evidenziano 600 milioni in meno di tasse e 900 milioni in meno di contributi rispetto all’obiettivo. A meno di un recupero nel mese di dicembre, mancheranno all’appello 1,5 miliardi di gettito. Le uscite, invece, ammonterebbero a 835,3 miliardi (+1% rispetto al 2013),di cui quasi il 7O% senza margini di manovra: 163 miliardi di stipendi dei pubblici dipendenti, 332 miliardi per il pagamento di prestazioni sociali e 76,7 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico. Se le entrate dovessero essere inferiori al previsto, sarà necessario conseguire una corrispondente contrazione delle spese, per non peggiorare il saldo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha garantito che il deficit del 2014 non supererà il 3% del Pil e – anche se i margini sono ristretti – non ci sono motivi per mettere in dubbio le sue affermazioni. Non resta che attendere il verdetto finale dell’Istat il 2 marzo.

Quasi 21.500 euro a famiglia, ecco gli affari d’oro sulle case

Quasi 21.500 euro a famiglia, ecco gli affari d’oro sulle case

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Quasi 21.500 euro l’anno. Per la precisione 21.439,66. Tanto spende il Comune di Roma per ognuna delle 1.931 famiglie vittime dell’emergenza abitativa nella Capitale e ospitate nei C.A.A.T.: Centri di Assistenza Abitativa Temporanea. Praticamente, le suddette famiglie potrebbero permettersi un affitto da quasi 1.800 euro al mese. Un superattico a Prati, per dire.

La realtà è molto diversa. Perché gran parte di quei soldi resta «impigliata» nel sistema delle cooperative che gestiscono i residence. Solo a Roma si parla di 31 coop. Le più importanti? La Eriches 29 – tra le tante che erano riconducibili a Salvatore Buzzi – che intasca circa 5,2 milioni di euro; la San Vitaliano Srl, che sfiora i 4 milioni; la New Esquilino Spa, che ne riceve quasi 3,8. Sono i dati forniti dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, nell’audizione in commissioni riunite, Affari Costituzionali e Bilancio alla Camera, sul decreto Milleproroghe. Il caso è noto. Nel dl licenziato settimane fa, non era stata prevista la proroga della sospensione degli sfratti. Una decisione, quella del governo, che aveva provocato le proteste di associazioni ed enti locali, convinti che si sarebbe andati incontro a una vera e propria emergenza sociale. Aspetto non trascurabile: il Piano casa promosso dal ministro Maurizio Lupi, nonostante sia ufficialmente entrato in vigore nel maggio 2014, è in realtà ancora monco. In particolare, i soldi che dovrebbero costituire il fondo per arginare le emergenze non sono ancora nella piena disponibilità degli enti locali.

E così la discussione in Parlamento sul Milleproroghe si è trasformata in uno scontro tra chi chiedeva di sospendere l’esecuzione degli sfratti, e chi invece difendeva le ragioni dei proprietari. Anche perché, sottolineavano questi ultimi, è difficile distinguere tra chi si trova realmente in difficoltà e i cosiddetti «furbetti». Tra i «morosi incolpevoli» – coloro che hanno sempre pagato e ora sono in difficoltà a causa di perdita di lavoro o grave malattia – e quelli che, invece, approfittano illegittimamente della «generosità» dello Stato. Per vederci chiaro, le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Bilancio della Camera hanno convocato Pecoraro. Una scelta determinata dalla situazione particolare della Capitale, la città che più di tutte in Italia soffre dell’emergenza abitativa. Ma anche dal fatto che molti dei parlamentari che invocavano una proroga degli sfratti erano di Roma. Gli echi di Mafia Capitale e dei torbidi legami tra politica e cooperative rosse hanno fatto il resto.

Il dossier fornito ai deputati da Pecoraro è esplosivo. Si ribadisce un quadro dai contorni drammatici – nella Provincia di Roma viene sfrattata una famiglia ogni 246 nuclei residenti, in Italia la media è di una ogni 353 – ma al tempo stesso si evidenzia come la spesa sostenuta dal Comune per tamponare l’emergenza sia totalmente sproporzionata rispetto alle reali necessità. Il passaggio «incriminato» è nell’ultima delle cinque pagine dell’«Appunto sull’emergenza abitativa a Roma e Provincia». Si legge: «I C.A.A.T. (Centri di Assistenza Abitativa Temporanea) a oggi in essere sul territorio di Roma sono 31: questi ospitano complessivamente ben 1.931 nuclei familiari per una spesa annua sostenuta nel 2014 pari a circa 41,5 milioni di euro». Dividendo la somma per il numero delle famiglie aiutate, si arriva per l’appunto ai 21.500 euro annui citati. Se il Comune di Roma versasse questi soldi direttamente ai nuclei, ne basterebbe la metà. Ma, in realtà, gran parte di quella cifra resta impigliata nel sistema delle cooperative, ognuna con le sue strutture, ognuna con i suoi tanti dipendenti da pagare. E così alle famiglie non restano che le briciole, non resta che vivere in sovrannumero in abitazioni minuscole sotto gli standard minimi di decenza.

La conseguenza principale di questa situazione è il fenomeno delle occupazioni abusive. «Ad oggi – si legge ancora nel documento presentato dalla Prefettura – nella sola Capitale sono state segnalate alla Questura 109 occupazioni abusive di immobili (…). Nello specifico, n. 2 immobili sono stati occupati nel 2014, n.23 nel 2013, n. 9 nel 2012, n.5 nel 2011 e circa 70 negli anni precedenti». E se nel 2014 il fenomeno ha subìto un rallentamento, è solo grazie all’«efficace lavoro realizzato dalla Prefettura e dalla Questura per attuare tempestivi interventi finalizzati alla rapida risoluzione di tentativi di operare nuove occupazioni». C’è spazio, ovviamente, anche per le rivendicazioni dei proprietari, «che hanno lamentato gravi danni derivanti dal perdurare di occupazioni abusive di immobili di loro proprietà» e di alcune imprese che «a causa di tali occupazioni spesso di durata pluriennale, sono impossibilitate a trarre reddito sull’immobile di loro proprietà per il quale però sono obbligate a corrispondere le relative imposte». Tra condizioni abitative disperanti e legittime rivendicazioni dei proprietari, a ridere sono solo i C.A.A.T., che nell’emergenza hanno trovato lavoro e soldi. Tanti soldi.

Valuta debole volàno per gli investimenti

Valuta debole volàno per gli investimenti

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’euro è debole, care imprese investite! La domanda interna continua a languire, ma raramente si sono verificate condizioni nei prezzi relativi dei beni più favorevoli alle nostre imprese. La svalutazione di oltre il 15% sul dollaro, il crollo del prezzo del petrolio, la stabilità dei prezzi interni e il credito a basso costo porteranno una crescita sostanziale dei volumi di beni venduti all’estero e un miglioramento significativo dei margini di profitto. Gli investimenti in macchinario sono stati negli ultimi tre trimestri del 2014 di 22 punti inferiori allo stesso periodo del 2008: un quarto di macchine da rinnovare o necessarie a espandere la produzione in meno. Se output e margini riprendono, inevitabilmente ripartiranno anche gli investimenti.

Paradossalmente la svalutazione sarà particolarmente benefica grazie agli anni in cui l’euro è stato forte. Nonostante le imprese italiane siano state sottoposte a condizioni competitive durissime, le esportazioni hanno continuato a crescere e i saldi di bilancia commerciale a migliorare già dal 2010. Il che è stato possibile grazie a ristrutturazioni draconiane e investimenti in qualità, tecnologia e marchi. In uno studio del 2008 Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberto Zizza avevano evidenziato come nei primi anni dell’euro la crescita della produttività fosse stata intensa in quei paesi come l’Italia, e in quei settori che più avevano utilizzato le svalutazioni competitive.

Oggi il sistema produttivo nazionale è radicalmente diverso rispetto al periodo pre-euro, quando le imprese competevano quasi solamente sulle condizioni di costo. Se dunque allora le svalutazioni erano indispensabili per la sopravvivenza del sistema, oggi sono una spinta per imprese che starebbero in piedi lo stesso. E queste imprese, proprio perché della svalutazione possono fare a meno, sono anche quelle più in grado di approfittarne. Infatti, i prodotti di alta qualità o basati su tecnologie particolari o con un marchio forte sfruttano solo marginalmente l’opzione di abbassare i prezzi in valuta estera. La svalutazione garantisce soprattutto un aumento dei margini di profitto, oltre e più che un aumento dei volumi esportati. E questi profitti devono essere utilizzati per quegli investimenti necessari a rafforzare ancor più la loro competitività globale.

La svalutazione, comunque continua ad avere un effetto benefico anche per le imprese meno efficienti. Il paradosso italiano del crollo dell’output industriale accompagnato dalla crescita dell’export durante gli anni dell`euro forte e della crisi è spiegabile solo in termini di eterogeneità delle imprese. Da un lato le imprese più avanzate crescevano all’estero, mentre quelle più deboli subivano in pieno il calo della domanda interna e l’euro forte. Ora quelle di questo secondo gruppo che sono riuscite a sopravvivere troveranno con la svalutazione un nuovo traino per riprendere a crescere con prezzi più competitivi all’estero.

Se la giustizia frena l’economia

Se la giustizia frena l’economia

Francesco Manacorda – La Stampa

Peso della corruzione a parte, chissà se il 2015 sarà finalmente l’anno buono per schiodare l’Italia da quella umiliante posizione – 147 a su 198 Paesi – che l’indagine «Doing Business» della Banca Mondiale ci assegna quando si parla di esecuzione forzosa di un contratto per via giudiziaria. Centoquarantasettesimi nell’ultima rilevazione e centoquarantasettesimi anche nella precedente, con un progresso certificato dello 0,00 per cento e 1185 giorni per chiudere un procedimento contro una media di 540 giorni per i Paesi più ricchi dell’Ocse. È vero, l’indagine fatta sotto le insegne della Banca Mondiale non è il Vangelo; talvolta anzi viene contestata. Ma è innegabile che il mix di tempi della giustizia lunghi e scarsa certezza del diritto è una miscela esplosiva per qualsiasi operatore economico. E innegabile è anche che chi dall’estero guarda all’Italia come terra di possibili investimenti ha più ragioni per essere preoccupato che rassicurato dalla nostra giungla normativa e regolamentare.

Ora il governo si sta muovendo proprio perché la giustizia non sia più uno dei tanti fardelli che ostacolano la crescita. E sebbene i ritardi rispetto ai pirotecnici annunci fatti da Matteo Renzi all’inizio del suo mandato siano evidenti, qualcosa è stato fatto. Lo ha spiegato anche ieri, intervenendo alla Camera, il ministro della Giustizia Andrea Orlando parlando ad esempio dell’introduzione del processo civile telematico da metà 2014 e delle formule di risoluzione delle controversie alternative al giudizio. Altri aspetti della riforma del diritto rimangono però da concretizzare, come ha ricordato anche di recente Donatella Stasio sul «Sole 24 Ore», spiegando che salvo il decreto legge sugli arretrati della giustizia civile, passato con la fiducia, gli altri sei provvedimenti annunciati dal governo il 29 agosto scorso non sono ancora arrivati in Parlamento.

Accelerare è opportuno, così come correggere altre storture che riguardano la certezza del diritto. A questo riguardo la norma che arriverà con l’«investment compact» che il governo vara oggi e che prevede invarianza delle regole fiscali e amministrative per quei soggetti che investiranno almeno 500 milioni in Italia, si presta a una duplice lettura. Dal punto di vista sostanziale è benvenuta: via libera a tutte le misure che possano attirare capitali e via libera ai grandi investimenti che creano occupazione e ricchezza. Ma da un punto di vista formale non si capisce perché la certezza del diritto, con l’impossibilità di vedersi applicare norme con effetto retroattivo diventi una sorta di privilegio graziosamente accordato dal governo a una categoria di grandi investitori e non sia invece un dato di fatto acquisito per qualsiasi operatore economico, piccolo o grande che sia. E sulle difficoltà di dare ai cittadini un diritto certo va segnalato il balletto sull’evasione fiscale e relative soglie di non punibilità in cui il governo è rovinosamente inciampato.

Nel percorso delle riforme, quella della giustizia potrà essere il passo più importante anche per quel che riguarda l’economia. C’è da ragionare anche su come finanziare un cambiamento che costa. Se andranno nella direzione di snellire e semplificare davvero il sistema, quelli per cambiare il sistema giudiziario saranno soldi ben spesi.

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Finalmente risale il Pil, ma brinderemo tra 20 anni

Nicola Porro – Il Giornale

Ieri il direttore generale della Banca d’Italia ha detto che la nostra ricchezza nel primo trimestre di quest’anno dovrebbe crescere. Salvatore Rossi ha anche sostenuto che potrebbe essere il primo di una serie di dati positivi che ci potrebbero accompagnare fino al 2016. Meglio di niente. Ma è ancora presto per brindare.

Prima considerazione. Tra il 1995 e il 2007 l’Italia è cresciuta ad un tasso medio dell’1,5 per cento. Poi, dopo la crisi americana dei subprime, il disastro (con una relativa calma nel biennio 2010-2011). Si può dire che dal 2008 al 2014 abbiamo bruciato ricchezza per più di 300 miliardi, tra mancata crescita e la riduzione del Pil vera e propria. Roba da far tremare i polsi. Fortunatamente gli italiani hanno accumulato, forse proprio grazie al debito pubblico, un’enorme ricchezza privata. Che oggi stanno usando per tamponare la crisi. Per recuperare questo salasso dovremmo crescere ad un tasso del 2,5 per cento annuo per i prossimi venti anni. Neanche uno stuntman del gioco d’azzardo ci metterebbe un euro sopra. Insomma è difficile pensare che quel che abbiamo perso si possa recuperare nel medio periodo. I tassi di crescita di cui si parla in Bankitalia (o quelli più ottimistici del governo) sono più vicini all’1 per cento che al 2. E per di più nessuno scommette che ciò possa avvenire ininterrottamente per i prossimi 80 trimestri (cioè i venti anni di cui sopra).

Seconda considerazione. Ci sono delle congiunzioni astrali piuttosto buone a saperle sfruttare. Intanto il cambio euro-dollaro (compresi i cross con il franco svizzero e le molte monete che molleranno tra poco) è sceso a livelli che rende molto competitiva l’industria italiana. E ciò avviene proprio nel momento in cui comprare petrolio (cioè energia per far girare le fabbriche) è particolarmente conveniente. Il combinato disposto di euro svalutato (come una liretta qualsiasi) e petrolio sotto i 50 dollari rappresenta un sogno per chiunque produca nel Belpaese. Nel passato alla svalutazione della nostra moneta corrispondeva un incremento della bolletta energetica. A ciò si aggiunga una tenuta dei prezzi (addirittura si parla di deflazione) che potrebbe essere manovrata per il verso giusto. Ops. Dimenticavamo: mai come in questo periodo i tassi di interesse sono stati ridicolmente bassi.

Sintesi finale. Quel che manca è un catalizzatore. Un lievito per far girare tutto nel verso giusto. Gli ingredienti sono buoni, di prima qualità. E sette anni di recessione (con alti e bassi) hanno spinto in giù la molla della nostra economia, pronta a scattare. Serve fiducia. La parola magica. Fiducia dei consumatori che riprendano a spendere, e fiducia delle imprese che riprendano a investire. Sergio Marchionne ha fatto entrare proprio ieri, a Melfi, 300 nuovi operai. Può essere un primo segnale. La politica, il governo deve alimentare un percorso virtuoso, fatto di regole certe (per investire), meno burocrazia (per lavorare) e meno tasse (per competere). La politica non può far molto perché le fabbriche producano meglio, ma purtroppo ha fatto davvero troppo perché esse si fermino. Quel che ora manca è dunque un elemento impalpabile ma pesantissimo.

Banche popolari, gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Banche popolari, gli intrecci pericolosi (da tagliare)

Daniele Manca – Corriere della Sera

Ancora una volta la riforma delle banche popolari potrebbe non essere varata. Più volte in Parlamento sono arrivati progetti di riforma, la Banca d’Italia ha tentato in tutti i modi di superare quelle norme che sono alla base del funzionamento di questi istituti. E che si basano sul principio di una testa un voto. Per approvare i bilanci, decidere i vertici, che si abbia un milione di azioni o una soltanto si conta alla stessa maniera. Un sistema che ha permesso di organizzare il controllo sugli istituti a partire dal consenso e non dalle cose da fare. E chi è il campione nella creazione del consenso? La politica.

E così il legame con il territorio, che nei casi virtuosi è significato assistere le imprese migliori, in quelli peggiori non si è trasformato solo in inefficienza, ma anche in pesanti scandali. Lodi, Novara, Milano, l’elenco è lungo. E altrettanto lungo quello dei politici schierati a difesa. Non c’è solo il colorito Salvini della Lega, ma lo schieramento è trasversale con esponenti in tutti i partiti dal Pd passando per Forza Italia arrivando alle sigle minori. Tutti pronti a bloccare qualsiasi riforma. Cosa che ha impedito in passato di avviare quel processo graduale, non esente da traumi, che dovrà portare alla separazione delle fondazioni dalle banche. Difficile pensare che le popolari possano resistere per molto tempo ancora.

La foglia di fico delle modalità scelte dal governo non riesce a coprire la debolezza strutturale del settore. La frammentazione del sistema creditizio italiano è seconda solo a quella tedesca. Le aggregazioni tra istituti minori e più grandi non può attendere. Il rafforzamento e l’irrobustimento del sistema, ossatura economica del Paese, non può essere frenato dagli interessi di chi riesce a organizzare poche centinaia o migliaia di votanti per mantenere il proprio potere.

Inutile chiedere a Draghi di far arrivare denaro all’economia se chi poi dovrà gestire quei soldi sarà guidato da interessi di corporazione o peggio di bottega e li userà per tappare propri buchi. Pensare poi che il già avvenuto passaggio della vigilanza sugli istituti da Roma a Francoforte possa garantire una maggiore distanza è un grande errore. Anzi. La vista corta ci garantirà per l’ennesima volta che l’agenda delle nostre riforme venga dettata fuori dai confini nazionali. Che bel risultato.

Contratto sleale

Contratto sleale

Davide Giacalone – Libero

Giunge al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto legge contenente il “contratto per dare certezze ai grandi investimenti produttivi”. Proposito lodevole. Ma quel che se ne legge è deplorevole. Talora sembra che si mettano problemi reali, slogan e idee confuse in un frullatore, sperando possa uscirne una bevanda energetica. Più probabile il bibitone energivoro.

L’idea, se capisco bene, è questa: occorre dare certezze agli operatori economici, non modificando continuamente i parametri amministrativi e fiscali che essi inseriscono nei propri business plan, mandando all’aria ogni razionale valutazione del rischio. Eccellente. Ma, scusate, non è la base su cui regge il patto sociale e fiscale di tutti i cittadini? Non è la lettera e lo spirito (mai incarnatosi) dello Statuto del contribuente? Perché se così fosse avremmo un’evoluzione perversa della politica degli annunci: s’annunciano sempre le stesse cose, fidandosi del fatto che poi non si fanno.

Volendo scartare questa ipotesi, che sarebbe vergognosa, provo a immaginare reali novità. C’è un indizio: il governo dice che speciali accordi verranno offerti a chi investe più di 500 milioni (in cinque anni). Che accordi? Fiscali, mormorano. Fiscali? Non avrei obiezioni se si varasse un’aggressiva politica di tax ruling, ovvero di accordi su misura che attirino l’insediamento fiscale di società estere. Ma questo è esattamente il motivo per cui il Lussemburgo è finito sotto procedura d’infrazione. Queste è la politica che è stata contestata (a sproposito) a Junker. E seppure, con uno sforzo di fantasia, si supponga che abbiano in anima una scelta di quel tipo, chi volete che si fidi, nel mondo? Il governo che ha abbassato da 3,9% a 3,5 (con il decreto contenente anche i celeberrimi 80 euro) l’aliquota Irap, salvo poi, alla fine dello stesso anno, il 2014, riportarla dove era con valenza retroattiva, può supporre che qualcuno creda in una promessa di quel genere? Fatta in un Paese in cui qualche decina di giudici possono comunque demolirla? Una promessa in capo ad un governo che cambia le regole fiscali sui giochi e le scommesse, mentre gli operatori del settore affermano che non pagheranno perché prive di legittimità e violanti le regole precedenti? Direi che si tratta di supposizione troppo folle per essere vera. E allora?

Allora potrebbe trattarsi di un trattamento fiscale di favore, ma non diverso da azienda ad azienda, non sottoposto a rapporto contrattuale specifico. Bene, è una bella cosa. Ma se è questa, scusate, che lo fate a fare il decreto legge? Piuttosto date attuazione alla delega fiscale, che avete ancora nel congelatore. E che esista un congelatore costituzionale è idea che non smette di sembrarmi agghiacciante. Ove mai la delega non coprisse l’intera riforma necessaria, ove fosse necessario un intervento ulteriore, il minimo della serietà vuole che prima si attua quel che il Parlamento ha già votato e poi si passa ad aggiungere il resto. Altrimenti ne viene fuori la solita legislazione rococò, che è l’esatto contrario di quel che c’è scritto nel titolo del decreto.

Perché una regola, fiscale, amministrativa o di qualsiasi altro tipo, sia stabile nel tempo occorre non solo che non sia messa nelle mani ballonzolanti di chi cambia idea ogni cinque minuti, ma anche che sia credibile. Alla partenza. La stabilità è un valore, ed è encomiabile che al governo se ne accorgano, dopo avere praticato la traballarietà. Ma la credibilità è un pre-requisito.

Quel che fa rabbia, osservando l’azione di questo governo, è che la gran parte di quel che annuncia è condivisibile, mentre la gran parte di quel che fa è reversibile. Una pirotecnia che abbaglia, ma lascia sul terreno solo bossoli cartonati e mezze cartucce inesplose. Il successo comunicativo è dato dal fatto che chi lo fa osservare viene schiacciato fra gli oppositori dell’orale, mentre chi tace diventa complice dello scritto. E’ un giochino vincente (fin qui), ma inconcludente.

Cosa serve alle imprese

Cosa serve alle imprese

Massimo Blasoni – Metro

Il nostro Paese decresce dello 0,4% nel 2014, andando peggio di quanto il Governo avesse stimato a inizio anno. Nel frattempo negli Usa la crescita è pari al 5%, un abisso legato sia alle politiche espansive americane che a un problema specifico della nostra economia. L’Italia è l’unico tra i principali Paesi europei ad avere un Pil reale che si è ridotto di dieci punti dall’inizio della crisi. La via d’uscita per il rilancio dell’economia sono le attività imprenditoriali, ma è difficile fare impresa in Italia. Lo studio annuale della Banca Mondiale ci pone agli ultimi posti tra i Paesi in cui è più facile fare affari e il peso complessivo delle imposte sulle imprese sfiora il 65%. Burocrazia, tempi della giustizia, cuneo fiscale: tutto concorre a frenare il rilancio. Concentriamoci su appena due delle tante critiche che si potrebbero muovere al Governo Renzi sul tema aziende.
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