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Tempo buttato

Tempo buttato

Davide Giacalone – Libero

La lezione greca è chiara: sono stati buttati quattro anni. Il problema non è il contagio, ma l’infezione mai curata, solo lenita con farmaci sintomatici. La Banca centrale europea ha comprato tempo. I governi europei lo hanno sprecato. Quattro anni dopo siamo a chiederci: cosa succederà alle elezioni greche? Come all’inizio di questa storia. E come all’inizio la risposta legittima è una sola: i greci votano come pare a loro, se la cosa ha riflessi negativi fuori dai loro confini è perché i guasti strutturali dell’euro sono rimasti quelli che erano.

Tre cose le sappiamo, fin dall’inizio: a. se un debito nazionale non è sostenibile (come nel caso greco) o esagerato (come nel nostro), la moneta unica non fa da scudo contro il rialzo dei tassi d’interesse, perché proprio per metterne alla prova la tenuta i mercati li spingeranno verso l’alto, rendendo la situazione ulteriormente insostenibile; b. avendo accettato di avere dentro una stessa moneta dei debiti diversi, venduti a tassi diversi, non è pensabile che le democrazie resistano a una svalutazione forzosa e drammatica non della moneta, ma del tenore di vita interno a un Paese, per quanto tale svalutazione possa essere fondata e legittimata dalla pregressa dissolutezza; c. la soluzione, del resto, non può consistere nel trasferire ricchezza verso il Paese a rischio bancarotta, salvo portargliela via quale costo del debito stesso. Alla Grecia sono già stati dati 240 miliardi di euro, ma se solo si fa finta che quei soldi non dovranno essere restituiti, il che richiede l’applicazione immediata di politiche restrittive che aggravano la recessione, si ottiene il risultato che altri popoli d’Europa, altri elettorati, si domanderanno perché non ricevere il medesimo trattamento. O perché regalare soldi ai dissoluti. Se, all’opposto, si fa valere il principio della restituzione e del controllo sulle politiche del debitore, allora quel Paese perde immediatamente sovranità. Cedendola ad ambiti che non hanno nulla di democratico.

Questo è il vicolo cieco che vedemmo quattro anni fa. Conservatosi immutato. È evidente che le politiche proposte dalla sinistra antieuropea, in Grecia, sono bubbole populistiche, così come lo sono le parole d’ordine della destra di eguale conio, altrove per le lande europee. Ma gli elettori che alternative vedono? Per offrirle, e perché la politica torni alla razionalità, occorre che i due processi procedano di concerto: da una parte si cede (tutti) sovranità, dall’altra i debiti (di tutti) si federalizzano, almeno in parte. Se d’imboccare questa strada non si ha la forza, o la voglia, continueremo a buttare via il tempo, senza che la diga della Bce possa funzionare in eterno.

Dal primo di gennaio (non dal 13, data esistente solo nel dibattito italiano) la presidenza dell’Unione europea sarà affidata alla Lettonia. Lo stesso giorno la Lituania farà il suo ingresso nell’euro, festeggiando l’evento come una conquista e vedendo l’integrazione come un successo e una garanzia. Lettonia e Lituania! Basterà riflettere sul significato di quel giorno per rendersi conto che l’Europa degli ideali viaggia su un binario diverso da quello in cui procedono problemi e conflitti. Se i due binari non dovessero incontrarsi mai, l’Europa resterà un animale incompiuto. Se dovessero incrociarsi potrebbe esserci una pericolosa collisione. Questo è il problema da affrontare. Fin qui s’è solo rinviato. E mai come in questo caso è vero che il tempo è denaro.

Cordata Italia

Cordata Italia

Davide Giacalone – Libero

Arrivare in fondo all’anno è l’occasione per misurarsi con il passato e prendere le misure al futuro reale. Se guardate le previsioni che ci riguardano, relative al prodotto interno lordo 2015, vi accorgete che non hanno senso. Variano troppo, andando da una crescita dello 0,1 a una dello 0,8. La migliore è troppo poco. E allora? Se immaginiamo l’anno che finisce come ad una scalata, ci accorgiamo che alcuni membri della cordata sono riusciti a salire più su, mentre altri sono andati più giù. Il baricentro complessivo s’è abbassato, segno che non solo il corpaccione non tiene il ritmo dei più bravi, ma costituisce un peso morto che scende più velocemente di quanto quelli salgano. Dato che il problema collettivo è quello di riagguantare non la crescita dei cinesi, ma l’arrampicarsi degli italiani che stanno in cima, la prima domanda da porci è: chi sono? Sono quelli che si sono rimboccati le maniche e hanno stretto i denti, tirandosi su anziché lasciarsi pendolare.

Sono gli italiani che hanno spinto la crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+15% a novembre, dati Istat) e verso il Sud Est asiatico (+19,7). Siamo cresciuti esportando verso i paesi Opec (+ 3,8), come anche in Svizzera (+4). Siamo scesi dove le crisi politiche o economiche hanno lasciato il segno: Russia, Giappone, Mercosur. L’esportazione di prodotti per la cosmesi ha segnato, nel 2014, un +5,5%. In Cina siamo cresciuti meno che nel passato, ma più di quanto siano cresciuti i tedeschi, le cui aziende hanno un accesso al credito più facile e meno costoso. In Cina, poi, abbiamo messo a segno importanti successi nel settore alimentare, rendendo proceduralmente sicura l’esportazione di latte, prosciutti e insaccati. Nel settore navale Fincantieri si consolida protagonista globale. Questo, e altro, non significa che in testa alla cordata sia una passeggiata. Si suda e sbuffa, ma non si molla.

Tre categorie di italiani che lo rendono possibile. Le imprese, che diminuiscono i margini di guadagno, pur di non perdere quote di mercato e clienti. Che migliorano continuamente il prodotto, interpretando correttamente la globalizzazione. I lavoratori, che aumentano impegno, professionalità e flessibilità (si pensi a molti giovani e alle partite Iva, irragionevolmente bastonate), pur di non perdere il lavoro. Le famiglie, che quando possono aumentano il risparmio, sapendo che la sicurezza futura dipende da loro stesse. Non è un’Italia deamicisiana, ma di quello stampo ricorda l’impegno, la serietà e la previdenza.

Questi italiani, attaccati alla roccia e interpreti di un destino antico e nobile, hanno alla vita una corda che lo Stato continua a strattonare verso il basso. Non sono un sostenitore delle teorie anti-Stato (semmai il contrario), ma vedo una scena raccapricciante: cittadini che aumentano sforzi e diminuiscono pretese, zavorrati da uno Stato che accresce le pretese fiscali diminuendo (se possibile) la qualità dei servizi che rende. A cominciare da giustizia e burocrazia. E siccome molti pensano che lo Stato sia la soluzione, e non il problema, ecco che l’andazzo fa da alibi a quanti (troppi) suppongono che la loro condizione di disagio non dipende dal fatto che non producono un accidente, ma dalla eccessiva velocità e cupidigia con cui si muovono quelli che stanno in cima. E’ l’alibi mortale: fermare i veloci, anziché mettere pepe al sedere dei bradipi. Questa massa inerte viene illusa da chi le fa credere che nessuna colpa sia nostra e tutte siano altrui. Si coltiva la corruzione della memoria, facendo credere l’incredibile, ovvero che con una valuta nazionale potremmo svalutare e inflazionare impunemente. Come se questa non fosse proprio la condizione che ci ha ficcati nel toboga del declino. Tale sciocca e colpevole illusione fa credere che si debbano adottare politiche premianti i discendenti anziché gli ascendenti. Tutto qui.

Guardando verso l’alto abbiamo la certezza di un’Italia che può e sa correre, trascinando tutti verso nuove vette. Guardando verso il basso si è presi dalla vertigine di un declino che degenera in degrado, alimentando rabbia e insensata rivalsa. Avendo smarrito il senso politico e cardinale di destra e sinistra, sarebbe saggio adottare un orientamento fatto di alto e basso. Farlo è più facile che dirlo. Non farlo è assai più pericoloso che ignorarlo. Perché la lussuria dell’abisso porta con sé il precipitare nell’imbarbarimento. Se consapevoli, lungo tutta la cordata, non ci farà paura mollare i pesi inutili e dannosi, ma il tenerceli stretti. Come molti continuano a fare.

Errori e balocchi

Errori e balocchi

Davide Giacalone – Libero

Ammettere gli errori è onesto e può essere segno di forza. Ma può anche essere una sgusciante furbata. Dice Matteo Renzi, ai microfoni di Rtl 102.5, che “un intervento correttivo sulle partite Iva è sacrosanto e me ne assumo la responsabilità”. Dell’errore commesso o della correzione? Di entrambe, suppongo. Bene, gliene renderemo volentieri merito. Non è per non fidarsi, però ci sono cose che non tornano.

L’errore, ora ammesso come tale, è stato qui segnalato quando la legge di stabilità era ancora in discussione. Per correggere quelli accumulati nell’iter parlamentare, diversi dei quali indotti da emendamenti presentati da ministri, il governo ha elaborato un mostruoso maxi emendamento, in totale continuità con i (peggiori) costumi di sempre. In quel testo, caotico, colmo di strafalcioni e scritto in un linguaggio che (teoricamente) la legge proibisce, l’errore non solo c’era ancora, ma aggravato. Anche questo lo abbiamo qui scritto, in tempo utile per la correzione. Niente. Su quel frullato legislativo hanno posto la fiducia. Teoricamente si sarebbe potuto intervenire alla Camera dei deputati, visto che è questo il lato positivo del bicameralismo (consustanziale alla “Costituzione più bella del mondo”, anche se ora va di moda oltraggiarlo). Obiettano: così si sarebbe arrivati all’esercizio provvisorio. Primo: non è una tragedia. Secondo: meglio quello delle norme abborracciate e sbagliate. Niente. La mattina dopo l’approvazione definitiva ecco Renzi: è un errore, va corretto. Poteva accorgersene prima. Sarebbe bastato leggere.

La stessa mattina, però, il Corriere della Sera pubblica una nota firmata da Yoram Gutgeld, consigliere economico del medesimo Renzi, il quale sostiene che non solo non è un errore, ma un’ottima e giusta cosa, una conquista fiscale e semplificatoria (!?). Ovviamente dissento, avendo sostenuto il contrario, ma mi educarono a rispettare opinioni e tesi altrui, salvo confutarle. Qui, però, il problema è che due opinioni opposte risiedono in due stanze attigue, a Palazzo Chigi. La domanda è: stanno parlando dello stesso testo? Oppure, nel caos, hanno ancora in mano bozze e riassuntini diversi? Difficile credere che Gutgeld potrà consigliare la correzione di quello che gli sembra ben fatto. Ma, allora, chi si sbaglia? È comunque disdicevole la dottrina per cui le leggi si fanno insalsicciando di tutto, anche a caso, salvo poi intervenire con altre leggi per correggerne i più macroscopici errori. Si deve a tale dottrina la non credibilità e affidabilità delle leggi. Il tutto senza dimenticare che si continua a dare per fatta la diminuzione della pressione fiscale, il che non trova fondamento nel testo e, con ogni probabilità, serve ad alimentare una suggestione. Occhio, perché poi si trasforma in disillusione. Difficile da indirizzare.

Renzi ha fatto riferimento anche all’Ilva, altro tema qui sollevato, avvertendo noi che si sta andando in direzione opposta al necessario, nazionalizzando laddove si dovrebbe privatizzare. Ha detto che l’Unione europea non può impedirci di salvare i bambini di Taranto. Siamo abituati alle parole e ai toni della propaganda, ma queste superano il tollerabile. Sembra il piccino cui la mamma non compra i balocchi, salvo che è cresciutello e vuole imporsi per ruzzare, ma senza che la mamma smetta di dilapidare in profumi e il babbo scommettendo all’ippodromo. Invocare il superamento di parametri agitando l’immagine dei bimbi equivale a dire che non si è capaci di porre limite alcuno ai loro dissennati genitori. Si è sodali degli sperperanti, tentando di far credere che i cattivoni stiano altrove. Forse Renzi non lo ha chiaro, ma è esattamente questa la ragione per cui la legge di stabilità non solo non cambia affatto verso, ma fa il verso al peggio del passato. Pur al netto degli strafalcioni. Suggerisco un criterio facile: finché non sarà tagliata la spesa pubblica è escluso che scenda la pressione fiscale, senza che cresca il debito. Statalizzare l’Ilva è l’opposto.

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

In origine ci fu un tweet, ovviamente: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000″. Parola di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, nell’aprile 2014, a poche settimane dall’insediamento. Poi in agosto il “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” di Carlo Cottarelli, allora commissario governativo alla spesa pubblica: sono 7.726 le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali, anche se “non si conosce il numero esatto delle partecipate” (sic!), per un totale di 235 mila dipendenti. Poi di nuovo Renzi che annuncia: “Le ridurremo a un ottavo di quante sono oggi”. Quindi, al rientro dalle ferie estive, la rassicurazione del potente sottosegretario Graziano Delrio: “Il governo affronterà la questione in modo organico nella legge di stabilità”. “Una vergogna inaccettabile”, ha ribadito Renzi all’inizio di dicembre alla Camera sulla scorta del tormentone “Mafia Capitale”.

Adesso però il testo definitivo della legge di stabilità c’è, e le municipalizzate sembrano continuare a godere ancora di ottima salute, che si tratti del prosciuttificio o della società del trasporto pubblico locale. A dire il vero di un “processo di razionalizzazione” del capitalismo municipale, in Finanziaria, si parla. In maniera però poco radicale o rottamatrice, a giudicare dai commi 610 e seguenti del maxiemendamento governativo. “Una novità positiva è il riferimento alla soppressione delle partecipate “inutili”, cioè quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali, come agenzie di stampa, assicurazioni e farmacie, nel caso specifico in cui siano ‘composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti’ dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Per il resto il governo si muove, ma come i gamberi, per tornare indietro. infatti la liquidazione delle partecipate inutili doveva avvenire entro il 31 dicembre 2014, cioè entro pochi giorni. Invece, parlando di una nuova scadenza, il 31 dicembre 2015, di fatto si concede un anno in più di tempo agli enti locali. Una proroga che ricorda quella contenuta nel dicembre 2013 nella Finanziaria del governo Letta.

Nel 2012 il decreto Spending review del governo Monti prevedeva lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società “strumentali”, quelle che lavorano quasi totalmente per l’ente pubblico che le controlla; o la loro alienazione dal 2014. In più c’erano le norme ad hoc per le municipalizzate “inutili”, introdotte addirittura nel 2007 e da allora periodicamente rinviate. Fino al rinvio voluto dal governo di grande coalizione di Enrico Letta, appunto; un esecutivo che in alcune fasi sembrò navigare con l’obiettivo di evitare i dossier più spinosi. Ma perché Renzi, sulle municipalizzate, avanza pure lui a suon di annunci e proroghe? La spiegazione ufficiale – che soprattutto i tecnici del ministero dell’Economia (Mef) offrono agli investitori internazionali – è la seguente: “Non si poteva mettere troppa came al fuoco nella legge di stabilità”. Tuttavia negli ultimi mesi c’e stato un altro ostacolo: Palazzo Chigi sembra preferire che sia il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, a tirare le fila dell’iniziativa riformatrice, incentivando così un continuo palleggio tra i due dicasteri (Mef e Pa). Se Delrio annunciava norme chiare già in legge di stabilità, Madia finora sul tema è intervenuta poche volte in pubblico, dando l’idea di un work (molto) in progress: parlò di “riduzione delle municipalizzate” al punto 36 (su 44) della lettera inviata in aprile a tutti i dipendenti della Pa; poi in una recente intervista al Messaggero ha annunciato un “Testo unico” sulle partecipate in arrivo il prossimo anno.

Nella maggioranza dicono che fino a oggi tra i “frenatori” bisogna annoverare proprio l’ipercinetico Renzi, come dimostra la sorte dell’emendamento Lanzillotta-Chiavaroli (di due partiti della maggioranza, Scelta civica e Ncd) che almeno introduceva sanzioni per gli enti locali che non dismettono le partecipate inutili, emendamento cassato a notte fonda dal governo (cioè dal Pd). Il “partito dei sindaci”, con le sue ramificazioni societarie, ha ancora uninfluenza sull’ex primo cittadino di Firenze; visto che Renzi per mesi non ha escluso elezioni nella primavera 2015, finora ha preferito accarezzare quel partito nel verso giusto. D’adesso in poi si cambia?

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Le partecipate sono 11mila ma 1500 non sono attive

Laura Serafini – Il Sole 24 Ore

L’Istat si cimenta in un arduo calcolo che sinora aveva trovato solo risposte vaghe, nonostante esso sia al centro di una della maggiori potenziali operazioni di spending review pubblica. L’Istituto di statistica ha pubblicato ieri un rapporto in cui tenta una quantificazione meticolosa del numero di società a partecipazione pubblica, sia statale che a livello locale. La fotografia, scattata sui dati 2012, inquadra 11.024 società con un totale di addetti che sfiora il milione di persone, per la precisione 977.792.

Il lavoro dell’istituto scaturisce dall’incrocio dei dati di sei fonti: Consob, registro delle imprese delle Camere di Commercio, bilanci civilistici e consolidati delle società di capitali, la banca dati Consoc del dipartimento della Funzione pubblica, le dichiarazioni delle partecipazioni pubbliche al ministero del Tesoro, le dichiarazioni delle partecipazioni detenute dagli enti locali alla Corte dei conti. E per la prima volta fissa un numero laddove prima c’erano piuttosto stime: 7.726 le partecipate degli enti locali che risultano nella banca dati del Tesoro, dato sul quale il commissario Carlo Cottarelli aveva impostato la sua proposta di spending review che avrebbe dovuto portare al taglio di 7mila municipalizzate su 8 mila nell’arco di 4 anni, con un risparmio di 2 miliardi. Anche se Cottarelli riteneva, ora si scopre a ragione, più veritiera la stima della presidenza del Consiglio, che calcolava in 10mila l’universo delle partecipate a matrice pubblica.

L’indagine Istat racconta che le realtà di maggiore dimensione (con più di 250 addetti) sono società per azioni, occupano circa 780mila addetti e sono realtà presenti soprattutto nel settore trasporto e magazzinaggio (116) e nel settore dell’acqua (quindi in sostanza municipalizzate). Il 68,7% delle 11mila realtà censite da Istat è controllata da un solo socio pubblico; quelle però controllate al 100% sono il 25,6 per cento; quelle controllate con quote entro il 50% rappresentano il 29,1%; quelle in cui la quota pubblica è inferiore al 20% sono il 25,6 percento.

Il dato che colpisce di più è il numero delle partecipate che risultano non considerabili tra le imprese attive. Le realtà attive sono complessivamente 7.685. E le altre 3.339 partecipate cosa sono? L’indagine rivela che 1.454 unità sono imprese non attive (dunque con zero addetti) ma che nel corso del 2012 hanno comunque presentato un bilancio o una dichiarazione dei redditi (e tra queste ce ne potrebbero essere alcune in fase di liquidazione). Altre 994 unità sono unità agricole o no profit, con un totale di 16.579 addetti e per le quali l’Istat ha potuto ottenere informazioni attraverso i censimenti 2011. Le restanti 891 unità, con 9.963 addetti, sono definite dal rapporto «non classificabili, che saranno oggetto di ulteriori analisi».

L’indagine si sofferma inoltre sui settori di attività economica dove è presente il maggior numero di partecipate: è quello delle attività professionali, scientifiche e tecniche, con il 13,4 per cento delle imprese e il 2,8% degli addetti. Segue nella classifica il settore del trattamento dell’acqua (con l’11,9% delle società) e poi le attività amministrative e servizi di supporto (con il 10,9% delle società). Nel 23,8% dei casi la sede delle imprese partecipate è situata nel Centro (53,4% degli addetti), con una dimensione media di 278 addetti per impresa, la gran parte è localizzata nel Lazio. La ripartizione territoriale con il maggior numero di partecipate è il Nord-ovest: 27,7% di imprese partecipate, 21,1% di addetti e una dimensione media di 94 addetti per impresa.

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

A pagare il conto più salato saranno le partite Iva

Davide Giacalone – Libero

Al celebrato «popolo delle partite Iva» arriva la polpetta avvelenata. Gli obiettivi annunciati erano: a) diminuzione della pressione fiscale; b) semplificazione; c) elasticità. La legge di stabilità impone gli opposti. Prima 30.000 euro era il limite massimo entro cui forfettizzare un prelievo del 5%, ora si scende alla metà (15.000), ma con aliquota al 15%. Il reddito, però, è tassabile al 78%, supponendo costi al 22. Supposizione frutto di esoterismo burocratico, basata sul nulla, il cui unico effetto sarà quello di mettere fuori mercato le iniziative coraggiose di chi si spende oggi per guadagni futuri. Dovendo mettere fra i costi un fisco che non tassa solo il profitto, ma anche quel che si spende per raggiungerlo, chiuderanno bottega. Impoverendoci tutti.

Con il vecchio sistema forfettario un reddito autonomo di 30.000 euro ne pagava 1.500 di Irpef, con il nuovo ne pagherà 7.000. Queste stesse partite lva, inoltre, scopriranno che non conviene più il regime forfettario, talché sarà saggio tornare a quello ordinario. ll tutto mettendo nel conto anche la crescita della pressione previdenziale, generata dalla gestione separata Inps: 2 punti in più nel 2015, poi uno in più all’anno, fino a toccare il 33,72%. Morale: la promessa diminuzione della pressione fiscale ha generato il suo incremento e l’annunciata semplificazione ha partorito le complicazioni.

Veniamo all’elasticità: per quanto sembri strano, è la guancia su cui è stato assestato il più bruciante ceffone. Il governo aveva annunciato di voler puntare sull’elasticizzazione del mercato del lavoro, premiando chi ha meno protezioni con meno oneri e meno vincoli. Ricordate la storia di Marta? La giovane precaria cui si voleva assicurare una maternità serena, evitando che sia un privilegio delle sole lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato? Ebbene, la Marta che ha una partita Iva non solo non ha alcuna protezione, avrà una maternità interamente a proprio carico,e contabilizzerà come minor reddito il tempo in cui non lavorerà. Ora pagherà più tasse e non potrà più scalare dal reddito tutte le spese sostenute per l’attività, ma solo il 22%. Volevano festeggiare Marta, l’hanno conciata per le feste.

Con il Jobs act si vuol portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ma intanto si bastona chi ne è l’incarnazione. Il lavoratore autonomo porta sulle proprie spalle l’intero carico del rischio e modula il proprio lavoro in rapporto alle esigenze del cliente. Per questo non ha un orario di lavoro, dato che potrebbe semplicemente non avere mai sosta. Questo esercito di lavoratori (circa 6 milioni e mezzo) rende ancora fluido il sangue che circola nel corpo produttivo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è quella che si è fatta: punirlo.

Conosco a memoria (se non altro per esperienza diretta) il copione della polemica inutile: i lavoratori dipendenti pagano le tasse, mentre gli autonomi le evadono. Nessuna delle due cose è vera. I lavoratori dipendenti possono evadere le tasse, ad esempio i docenti facendo ripetizioni private in nero. Mentre i controlli sugli autonomi sono severi. Certo che c’è l’evasione fiscale, ma il conto reso intollerabilmente salato dalla legge di stabilità non lo pagheranno mica gli evasori, bensì le persone per bene. Fino a rompere l’elastico. La ciliegina sulla torta, la beffa dopo il danno, è il sentire i governanti continuare a pavoneggiarsi: abbiamo diminuito la pressione fiscale. È falso per tutti. Per i lavoratori autonomi è vero il contrario: è cresciuta e crescerà. Tutto per finanziare la spesa pubblica corrente, che continua intonsa la sua corsa verso l’abisso.

Fisco meno caro ma non per tutti

Fisco meno caro ma non per tutti

Alessandro Barbera – La Stampa

L’anno volge al termine e per l’italiano è giunta l’ora di porsi la ferale domanda: nel 2015 pagherò più tasse? Negli ultimi cinque anni la risposta è stata sempre la stessa. Quest’anno le cose andranno diversamente. Non per tutti però. Partiamo dal dato più importante, la cosiddetta pressione fiscale. Il documento di economia e finanza dice che nel 2015 sarà lievemente più alta: il 43,4, appena un decimale in più di quest’anno. Le apparenze non traggano in inganno: l’aumento è dovuto al fatto che le regole contabili europee non contabilizzano il bonus Irpef da ottanta euro come una riduzione fiscale. Nonostante il tentativo di superarlo, il governo si è trovato costretto a confermare un meccanismo perverso che tramuta quei dieci miliardi di minori tasse in maggiori spese. Nella pressione fiscale sono invece calcolati il taglio dell’Irap alle imprese, la decontribuzione per i nuovi assunti, l’aumento delle tasse sui fondi pensione che va ad aggiungersi a quello già previsto quest’anno per depositi bancari e titoli. Il governo Renzi ha scelto di aumentare le tasse sulle rendite (erano mediamente più basse che nel resto dell’Ue) per abbassare quelle sul lavoro. Gli ultimi dati disponibili (Istat 2012) dicono che se un dipendente italiano costava mediamente all’imprenditore 41 mila euro, al lavoratore andavano meno di trentamila: peggio di noi in Europa facevano solo Danimarca, Germania e Francia. In ogni caso nel 2015 la somma di dare e avere sarà positiva: nel complesso le tasse scenderanno. Ma «complessivamente» non significa necessariamente per tutti. La manovra di Renzi è «di sinistra» molto più di quanto, a sinistra, non si voglia ammettere.

Casa, niente sorprese
Tasi e Imu non riserveranno sorprese grazie al tetto che bloccherà il tetto massimo per le tasse sulle casa. Con un però: i Comuni potranno aumentare l’aliquota Tasi fino allo 0,8 per cento se suddivisa fra prima casa e altri immobili. Chi ha molti investimenti nel mattone ha buone probabilità di pagare di più. In alcune Regioni le brutte sorprese per i più ricchi arriveranno in ogni caso dalle addizionali Irpef. Attenzione alle cronache locali, non c’è momento migliore del Natale per far passare lievemente le cattive notizie. Il Lazio di Nicola Zingaretti ha già messo a bilancio un aumento dell’addizionale dall’1,73 al 2,33 per cento ai redditi sopra i 28mila euro. Per inciso, l’esenzione dagli aumenti ancora non c’è: la maggioranza ha promesso una legge entro aprile. Per i più ricchi in Piemonte si prepara un salasso: aliquota invariata fino a 28mila euro (oggi è del 2,13 per cento), dello 0,44 per cento fino a 55mila, dell’un per cento al di sopra, al quale va poi aggiunto l’aumento del bollo auto. L’addizionale salirà anche in Liguria, con una fascia di esenzione uguale a quella promessa dal Lazio: 28 mila euro annui. In ossequio al federalismo fiscale che c’è, i toscani non avranno di che lamentarsi: invece di aumentare le aliquote il presidente Rossi ha preferito il taglio delle partecipate.

Chi ottiene di più
A questo punto si può tracciare l’identikit di chi con certezza l’anno prossimo pagherà meno tasse: è un lavoratore dipendente, ha uno stipendio di circa 1400 euro al mese e ha al massimo una casa di proprietà. Sopra quella soglia tutto dipenderà da cosa possiede, quante persone ha a carico e soprattutto da dove vive: se possiede più di una casa, ha risparmi, non ha figli a carico e vive nel Lazio o in Piemonte ha ottime probabilità di pagarne di più. Lo scenario si farebbe ancora più cupo se nel frattempo il governo non riuscisse a tagliare la spesa nei numeri promessi. In quel caso – il primo gennaio 2016 – scatterebbero le clausole di salvaguardia previste dalla legge di Stabilità: l’aliquota media Iva salirebbe dal 10 al 12 per cento, quella più alta dal 22 al 24, più un ritocco sulla benzina. La regola aurea del nuovo fisco nei Paesi occidentali è «dalla persona alla cosa». La speranza è di schivarle entrambe.

Partecipate, i bilanci oscure di quante vivono nell’ombra

Partecipate, i bilanci oscure di quante vivono nell’ombra

Pietro De Leo – Il Tempo

Quello delle società partecipate è un allegro paradosso italiano. Se ne conosce l’enormità, la politica si affretta a condannarle in un formale afflato etico ma quando arriva il momento clou non se ne fa nulla. La stessa legge di stabilità, nel testo approvato al Senato, impone agli enti che vantano partecipazioni non virtuose una razionalizzazione, ma non risultano sanzioni. Insomma un «tenetemi che lo picchio» come per i finti bulli, autentici fifoni, dei tempi che furono. Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la riduzione della spesa, nel suo articolato «piano di razionalizzazione delle partecipate locali», era stato chiaro: evitare che le partecipate sconfinassero dai propri compiti istituzionali, magari entrando in concorrenza di mercato con le società private; promuovere l’efficienza attraverso l’applicazione dei costi standard; mettere mano alle forbici per quelle società non operative o non virtuose. Contestualmente al programma fu diffuso l’elenco della galassia di società a partecipazione pubblica.

Così si scopre che la «maglia nera» nelle società con patrimonio netto superiore al milione di euro spetta alla Gestione Agroalimentare Molisana. Un patrimonio netto di 2.109.642 e una perdita che sfiora i 15 milioni di euro. Il Roe è del 691,92% in negativo. Dal suo sito istituzionale, la Regione Molise ci fa sapere che partecipa alla società con una quota del 100%. L’organo amministrativo è composto da un Amministratore Unico che percepisce 50 mila euro annui. Al secondo posto troviamo la «Società per la trasformazione del territorio Holding s.p.a», partecipata al 100% dal Comune di Parma. Nell’oggetto sociale si legge che è un «progetto a realizzazione di interventi complessi per la trasformazione, riqualificazione e valorizzazione del territorio». Tuttavia, l’implacabile tabella di Cottarelli ne segnala una perdita di 27.910.998, con un Roe del 488,29% negativo. Male anche l’aeroporto Gabriele D’Annunzio (che vanta una partecipazione plurima da parte degli enti locali) di Montichiari in provincia di Brescia. Di eroico ha solo il nome. Quanto a performance, il Roe è un disonorevole -217, 65% che segnala una perdita sul 2012 di quasi quattro milioni di euro.

Esistono poi le società partecipate con patrimonio negativo. Al primo posto, con -20.316.751 vi è la società Cmv, 100% partecipata dal Comune di Venezia e che controlla il celebre Casinò. Scorrendo più giù la classifica, troviamo l’Istituto per le Piante da Legno e l’Ambiente, a totale capitale pubblico, con azionista di maggioranza la Regione Piemonte ma con partecipazione anche della Regione Autonoma Valle d’Aosta e il Comune di Torino. Dal sito si legge che «ricopre il ruolo di struttura tecnica di riferimento per lo sviluppo di azioni innovative e per il supporto alle politiche nel campo forestale, ambientale e in quello delle risorse energetiche». Patrimonio netto -196.873. E poi ci sono le società di cui non sono disponibili i bilanci: fra queste la società «Borghi marinari» della Sicilia, il lombardo «Caseificio sociale Valsabbino», la piemontese «Banca del Vino» e la pugliese «Comunità delle Università del Mediterraneo». Oltre che una «Azienda Agricola Dimostrativa» di cui non è possibile risalire né al luogo né agli enti partecipanti. Insomma tra formaggi, vini e fantasmi, c’è veramente di tutto.

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

«Questo Paese svolta in maniera definitiva dal punto di vista della pressione fiscale». Lo ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, probabilmente nel tentativo di rassicurare contribuenti sempre più dubbiosi. Lo ha ribadito in serata dagli studi di “Che tempo che fa” il premier Renzi, rincarando la dose: «Con la legge di stabilità la pressione fiscale non è invariata, è diminuita», ha detto. Ma lo scetticismo sulla legge di Stabilità è del tutto fondato. Alimentato, più che da retroscena di gufi militanti, dai documenti ufficiali di governo e Parlamento. Il prospetto di copertura della prima «finanziaria» del governo Renzi, ad esempio, ci dice che nel 2016 e nel 2017, metteremo a posto i conti e non faremo più deficit, ma a un costo molto alto. Nel 2016 ci sono 31,7 miliardi di «nuove o maggiori entrate», che diventano 39,1 nel 2017. Sono in parte compensate, è vero, da «minori entrate», quindi da tagli di tasse, imposte e contributi rispettivamente per 9,4 e 9 miliardi. Ma il saldo resta da brividi: più di 20 miliardi nel 2016 e 30 nel 2017.

Nel conto della stangata fiscale futura ci sono soprattutto le clausole di salvaguardia. In altre parole, Bruxelles non vuole incertezze sui conti. Quindi, se una misura deve generare gettito o risparmi e ha effetti dubbi, a garanzia della cifra ci si mette un aumento di tasse certe. È il caso, famoso, delle accise sui carburanti, che potrebbero aumentare per coprire una entrata traballante da 1,7 miliardi, quella sul nuovo meccanismo di conteggio dell’Iva, messo in discussione dall’Ue. Poi ci sono le clausole che il governo Renzi ha ereditato dai precedenti esecutivi, che colpiscono l’Iva. Disinnescato l’aumento nel 2015, ritornano in grande stile dal 2016, quando è previsto un aumento dell’aliquota ordinaria dal 22 al 24% e di quella agevolata dal 10 al 12%. Nel 2018 l’imposta su beni e consumi, a legislazione vigente, dovrebbe arrivare rispettivamente a 25,5% e 13%. Solo le clausole, ha calcolato ieri Il Sole24Ore , a regime, cioè nel 2017, valgono otto miliardi di euro.

Ieri il testo della Stabilità è stato approvato senza modifiche dalla Commissione bilancio della Camera, nonostante i numerosi dubbi. «Abbiamo fatto un po’ di casini», ha ammesso lo stesso Renzi. Esulta il ministro Padoan che ringrazia «i senatori e lo staff del Governo, della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia», ma i dubbi sul testo di legge rimangono. Ad esempio, sul credito di imposta del 10% sull’Irap a favore dei lavoratori senza dipendenti. Una modifica introdotta dal Senato per compensare un effetto indesiderato del taglio dell’imposta per le aziende. L’invito dei tecnici di Montecitorio di verificare la compatibilità con la norma europea ed «evitare eventuali procedure di infrazione», visto che «il beneficio è limitato a specifiche categorie di contribuenti». Problemi anche per lo stanziamento da cui si dovrebbero attingere parte dei 535 milioni di euro da dare alle Poste, per dare attuazione alla sentenza dell’Ue. Il fondo è quasi vuoto. Dubbi anche sul nuovo modo di pagare l’Iva (il cosiddetto reverse charge) che, come detto, è anche incerto per quanto riguarda gli effetti finanziari. Sotto la lente dei tecnici anche la platea dei beneficiari del credito di imposta, che potrebbe essere non aggiornata.

Nonostante il testo licenziato dal Senato sabato notte sia blindato, in Commissione Bilancio della Camera sono stati presentati circa 130 emendamenti. Dopo un primo esame ne sono restati solo 80. Il presidente Francesco Boccia ha dichiarato infatti inammissibili 50 proposte arrivate al testo da M5S, Forza Italia e Sel. Il Movimento 5 stelle ha trasmesso via Youtube la seduta domenicale della commissione Bilancio, con una diretta «clandestina». L’intenzione del governo è e arrivare all’approvazione definitiva della legge di Stabilità in Aula entro martedì, comunque «prima di Natale», perché bisogna «dare segnali di stabilità», ha spiegato il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.