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La politica tributaria di Donald Trump

La politica tributaria di Donald Trump

Sulla stampa italiana si sono letti numerosi accenni, confusi e contraddittori, sulla politica tributaria che il nuovo Presidente degli Stati Uniti e il nuovo Congresso Usa intendono attuare. A tal riguardo è bene scaricarsi online e leggere con attenzione il lavoro appena pubblicato da David A. Weisbach: “A Guide to the GOP Tax Plan. The Way to a Better Way” (University of Chicago, Coase Sandor Institute for Law and Economics Research, Paper No. 788).

Si apprende infatti come la riforma tributaria (A Better Way) presentata dal Presidente della Commissione Finanze e Tesoro della Camera dei Rappresentati Ken Brady e dal Presidente della Camera Paul Rayan sarebbe, se attuata, la più completa dal varo dell’imposta sul reddito nel 1913. Riguarda in gran misura le imposte sulle aziende con l’abolizione delle imposte sui nuovi investimenti e delle detrazioni per spese al netto degli interessi, con eliminazione di imposte e tasse del reddito da vendite all’estero (ma tassando le importazioni a valore di mercato). I redditi da capitale verrebbero tassati ad aliquote pari alla metà dei redditi delle persone fisiche. Verrebbero poi abolite le tasse di successione sulla proprietà immobiliare trasmesse ad alcune categorie di eredi diretti come i figli ed i nipoti. La tassazione e l’imposizione si sposteranno infine gradualmente verso l’introduzione di un’imposta sul valore aggiunto analoga all’Iva europea.

Il documento riassume il lungo percorso per giungere alla formulazione ora completa e che riprende il programma di riforma tributaria allestito nel 2005 dalla Commissione di Esperti nominata da Bush (Growth and Investment Tax), il cui punto centrale era la riduzione dei redditi delle persone fisiche e giuridiche così come l’introduzione dell’Iva.

Restano ancora aperti diversi problemi: a) il disegno complesso dell’imposizione sulle imprese; b) le aliquote relative per imprese, partnerships, reddito da lavoro e imposte sul reddito da lavoro e da capitale delle persone fisiche; c) la tassazione internazionale ; d) l’imposizione su istituzioni e strumenti finanziari; e) la tassazione di fusioni ed incorporazioni aziendali; f) il differimento delle imposte sul reddito da capitale delle persone fisiche; g) i problemi collegati alla base tributaria delle persone fisiche come la deduzione sui mutui edilizi; f) la transizione dal sistema attuale al nuovo. Alcuni di questi possono essere facilmente risolti, altri sono più complessi e richiederanno mediazioni e compromessi. Tuttavia, il tracciato è chiaro.

 

 

Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Domenica 8 gennaio 2017 si sono tenute le elezioni per il rinnovo dei Consigli in diverse Province italiane. Elezioni a cui hanno partecipato con diritto di elettorato attivo e passivo soltanto sindaci e consiglieri comunali delle province interessate: una modalità istituita dalla legge Delrio in attesa della possibile abolizione totale delle Province, contenuta nella Riforma Costituzionale bocciata dal referendum dello scorso 4 dicembre. Le province, quindi, restano in Costituzione e rimane aperto il dibattito su quale potrà essere il loro futuro.

Al di là delle semplificazioni giornalistiche e politiche, però, anche dopo l’approvazione del ddl Delrio di Aprile 2014, le Province hanno continuato ad esistere e funzionare. Secondo le stime del Centro Studi ImpresaLavoro, infatti, la spesa corrente degli enti sovracomunali (oltre alla Province ci sono le Città Metropolitane di recente istituzione) si è attestata nel 2016 a 6,8 miliardi di euro. Una cifra stabile rispetto all’anno precedente ma in calo sia rispetto al 2014 (7,3 miliardi) che al 2011 (8,4 miliardi).

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Larga parte di queste uscite sono attribuibili proprio alle amministrazioni provinciali che hanno fatto registrare nel 2016 spese correnti per 4,7 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 4,9 miliardi del 2015. La flessione è più marcata se confrontata con gli 8,4 miliardi di spese correnti che le Province hanno sostenuto nel 2011.

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Il risparmio è stato in parte riassorbito dalle spese correnti sostenute dalle neo-costituite Città Metropolitane che hanno registrato nel 2016 uscite per questa funzione pari a 2 miliardi di euro (erano 1,8 nel 2015).

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Una diversa analisi della spesa corrente nelle singole Province e Città Metropolitane consente di evidenziare situazioni molto diverse tra loro. ImpresaLavoro ha preso in considerazione la media delle uscite correnti delle Province e Città Metropolitane capoluogo di regione, ricavandone poi il dato pro-capite. Si tratta di un’elaborazione che non intende mettere in evidenza eventuali inefficienze amministrative, quanto più sottolineare come sul territorio nazionale la riforma ha avuto effetti diversi e come quello che comunemente definiamo come “Province” finisce per assumere competenze e raggi di azione molto diversi da territorio a territorio. In testa per spese correnti effettuate c’è la Provincia di Trieste con 321 euro pro-capite, seguita da Potenza (216 €), la Città Metropolitana di Firenze (172€), quella di Torino (154 €) e la Provincia de L’Aquila (154 €). Spendono, invece, meno di 100 euro pro-capite all’anno per cittadino le Città Metropolitane di Palermo (71 €), Bologna (80 €), Milano (95 €) e Napoli (99€). Numeri che certificano come la fase di transizione si stia confermando piuttosto caotica con forti differenze territoriali rispetto alle spese sostenute dai singoli enti: a più di due anni dall’approvazione della riforma Delrio, infatti, le province continuano a impegnare 4,7 miliardi di euro in spese correnti, a cui vanno aggiunti i 2 miliardi delle Città Metropolitane. Un’incertezza destinata ad aumentare in forza della mancata approvazione definitiva della riforma costituzionale.

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Mps, Province, debito. Che cosa succede in Italia?

Mps, Province, debito. Che cosa succede in Italia?

di Massimo Blasoni

Il pendolo del sentiment nazionale è in costante movimento. Se fino a qualche tempo fa riforme e spending review sembravano – almeno a parole – obiettivi imperativi, oggi rischiamo che a prevalere sia il verso contrario. Pensiamo alla crisi economica. Abbiamo provato a uscirne facendo sacrifici ma non ci siamo riusciti e allora esorcizziamo il peso del debito e del deficit tornando a parlare di Stato. Dal mantenimento delle Province alla pubblicizzazione di Monte dei Paschi passando per il desiderio di un ritorno al proporzionale: sembra che da più parti dilaghi il rimpianto del bel tempo andato, quando i problemi si risolvevano con un accordo a tavolino, non importa a quale costo.

Continua a leggere l’intervento sul sito Formiche.net

Von Mises e gli ordoliberali

Von Mises e gli ordoliberali

La letteratura economica recente, di cui diamo conto in questa rubrica, raramente tratta del pensiero liberale. E’ invece incentrata su analisi quantitative di temi e problemi contemporanei. Particolarmente interessante, quindi, si presenta per i liberali un saggio di Stevan Kolev dell’Istituto di Economia internazionale di Amburgo, pubblicato a fine 2016 nei Working Papers del Center for History of Political Economy e intitolato “Ludwig von Mises and the ‘Ordo-Interventionists’ – More than Just Aggression and Contempt?”  (Ludwig von Mises e gli Ordo-Interventisti- Non fu solo questione di aggressività e disprezzo). E’ liberamente scaricabile dal sito del centro studi di Amburgo.

Il lavoro è un’attenta ricostruzione, in parte su materiale inedito, dei quaranta anni di relazioni intellettuali tra il leader della scuola austriaca di economia liberale Ludwig von Mises (1881-1973) e due tra gli economisti più rappresentativi dell’ordoliberalismo tedesco: Walter Eucken (1891-1950) e Wilhelm Röpke (1899-1966). Il lasso di tempo studiato va dall’inizio degli anni Venti fino alla morte di Röpke, avvenuta nel 1966. In questo lungo periodo ci sono state cinque fasi distinte in cui l’interazione scientifica e professionale si è intersecata  con una rete complessa di simpatie e antipatie interpersonali.

Nella prima fase la scuola austriaca e la scuola tedesca (in gran misura basata sullo studio della storia economica più che su quello della teoria) si confrontarono per conoscersi meglio, affilando le rispettive lame. Nella seconda fase il dibattito si incentrò sullo studio del ciclo economico. Nella terza si passò dalle differenze sull’analisi del ciclo economico a veri e propri scontri, al Colloquio Walter Lippmann nel 1938 e ai primi vent’anni di incontri della Mont Pélerin Society, nata nel 1947. La quarta fase segnò la ‘coesistenza pacifica’ nel periodo del miracolo economico tedesco. L’ultima è stata quella dell’avvicinamento e viene studiata anche sulla base di materiale storiografico inedito relativo all’unica laurea onoraria in economia che von Mises ricevette nel 1964 dall’Università di Friburgo.

Sulla base di questa ricostruzione storica il lavoro presenta congetture sulle ragioni per cui i protagonisti, pur lavorando sui medesimi temi, non sono mai riusciti ad impegnarsi in veri e produttivi dibattiti scientifici che in quegli anni avrebbero potuto controbattere al crescente intervento pubblico di marca keynesiana. Kolev formula diverse ipotesi, in gran misura meta economiche e aventi a che fare con le personalità dei protagonisti. Il lavoro ha anche un’ampia sezione che, mettendo a confronto le due scuole, può essere di grande utilità al pensiero neo-liberale di questi anni.

Ci sono i soldi per Mps ma non per pagare chi lavora per lo Stato

Ci sono i soldi per Mps ma non per pagare chi lavora per lo Stato

di Massimo Blasoni – Libero

Margaret Thatcher amava ripetere che «non esistono i soldi pubblici, esistono quelli dei contribuenti». Difficile sostenere che i nostri governanti abbiano in materia le stesse idee. I 20 miliardi di fondi pubblici che il governo Gentiloni ha appena destinato al salvataggio di Monte Paschi di Siena e di altre banche dissestate (molto spesso da vertici nominati in ragione della loro affiliazione partitica) dimostrano piuttosto il contrario, andando indiscriminatamente a pesare sulle tasche di tutti i contribuenti e ampliando la voragine del nostro debito pubblico. Intendiamoci, questa misura si è resa necessaria come extrema ratio per salvare il nostro sistema creditizio ed evitare il rischio di un effetto domino esiziale per l’intera economia italiana. Pesa però il grave ritardo di una scelta che sarebbe stata molto meno onerosa se decisa anche solo un anno fa, quando Matteo Renzi andava in tv a sostenere che Mps «è una banca risanata e investirci è un affare».

Ma soprattutto questa vicenda dimostra come per Palazzo Chigi non tutte le imprese private siano uguali. Nonostante le reiterate promesse, lo Stato ha infatti continuato ad accumulare uno stock di circa 61 miliardi di euro di debiti commerciali nei confronti delle aziende dalle quali ha a suo tempo acquistato beni e servizi. Se un cittadino non paga le tasse entro il termine dovuto e’ duramente sanzionato, lo stato invece paga i suoi debiti quando vuole e resta impunito. Il suo ritardo nei pagamenti non ha confronti con alcun altro Paese europeo. Queste imprese meriterebbero almeno la stessa attenzione riservata a Monte Paschi e alle altre banche in crisi, se non altro perché molto spesso vengono gestite con maggiore capacità e accortezza. I ritardi nei pagamenti determinano un onere finanziario enorme per le nostre aziende: scontare in banca le fatture non saldate è costato loro nel 2016 oltre 5 miliardi. È anche questa una delle ragioni alla base dell’impressionante ritmo dei fallimenti nel nostro Paese: ogni giorno lavorativo chiudono infatti per insolvenza ben 57 imprese. Alla fine di quest’anno ne saranno fallite ben 14.348 e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse a partire dal 2009. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse e che evidenzia come il nostro governo, nei confronti delle aziende private, usi due pesi e due misure.

Non è un paese per giovani

Non è un paese per giovani

di Massimo Blasoni – Panorama

L’Italia rischia di essere un Paese con poche speranze, soprattutto per i giovani. Per quelli che hanno votato no al referendum al Sud perché ritenevano inadeguato il governo: oltre il 70% nelle Isole e giù di lì in Campania e Calabria. Anche per quelli che pensano che sia indispensabile emigrare all’estero per fare carriera, oppure più semplicemente per trovare lavoro. In effetti non sono pochi i giovani italiani che sono emigrati, oltre 60mila quest’anno. Ci dicono i dati ISTAT che le mete preferite sono il Regno Unito e la Germania. Se ne vanno in Paesi che, in effetti, hanno più crescita e meno burocrazia e dove è più facile fare ricerca. La metà di essi sono laureati e più del 5% tra coloro che hanno conseguito un titolo magistrale se ne va entro un anno dalla conclusione degli studi.

Colpisce una ricerca dell’Osservatorio di Demos-Coop. Il 63% dei nostri figli è convinto del fatto che difficilmente riuscirà a raggiungere – non certo a superare – la posizione sociale dei genitori. Il timore che non esistano opportunità e possibilità adeguate fa crescere l’esercito dei Neet. Sono coloro che né studiano né lavorano e il loro elevato numero ci colloca, in questa speciale classifica, all’ultima posizione in Europa. Un triste primato. I giovani sanno che le scelte fatte in passato con politiche previdenziali e lavori ipergarantiti si traducono oggi, per loro, in situazioni di incertezza. Temono di non avere oggi un lavoro e tantomeno, domani, un dignitoso trattamento pensionistico. D’altronde il nostro tasso di occupazione è al 57,2%, venti punti percentuali inferiore a quello tedesco. Così si allarga il solco tra generazioni.

Scontiamo anche un difetto di formazione. Siamo tra gli ultimi in ambito OCSE per risorse investite nell’Università in rapporto al Pil e meno della metà dei ragazzi italiani ha competenze digitali, contro una media europea del 59%. La maggior parte di loro vive a casa: due su tre, il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ovviamente un po’ di mammismo c’è, tuttavia non è prevalente. Tra giovani choosy – cioè schizzinosi – come disse la Fornero nel 2012 e i ragazzi che avrebbero la voglia e le potenzialità per fare di gran lunga prevalgono i secondi. Un esempio? Il numero dei giovani imprenditori è in forte crescita; per spirito d’indipendenza e desiderio di realizzazione e non solo per motivi economici. Nel 2015 gli under 35 hanno aperto 120mila nuove imprese, mentre le chiusure sono state 53mila: un forte saldo positivo. Le young start up in Italia sono il 10% circa delle oltre 6 milioni totali, in media più che nel resto d’Europa. Dunque ci sono anche molti giovani che hanno voglia di mettersi in gioco, sia questo per necessità o per inseguire i propri sogni. Per ingrossarne il numero basterebbe che l’assenza di riforme e l’eccesso di burocrazia del nostro Paese non rappresentassero per loro il primo freno. C’è necessità di opportunità più che di aiuti, quello che gli ultimi governi non hanno saputo dare.

L’economia sommersa in Italia

L’economia sommersa in Italia

di Giuseppe Pennisi

Ci sono due ragioni per iniziare l’anno 2017 con una riflessione sull’economia sommersa:

a) da un canto, anche se i dati Istat segnano solo una leggera, ma flebile, ripresina, il solito “coretto a cappella” sostiene che comunque sarà il sommerso a tirarci d’impaccio;

b) da un altro, la Direzione Generale preposta alle ricerche del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato, alla fine del 2016, un eccellente lavoro su dove sta andando l’economia sommersa in Italia. Ne è autrice Cecilia Morvillo. Lo studio è intitolato “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane”. Si può scaricare liberamente dal sito del dicastero.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nella presente nota l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il PIL pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano.

Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere. Il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno.

In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro. Lo studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stata successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici.

I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché dove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.

In breve un lavoro da leggere e meditare.

Presentazione del libro: “La politica italiana per l’innovazione”

Presentazione del libro: “La politica italiana per l’innovazione”

Martedì 17 gennaio alle ore 17:30 nella sede della Fondazione Einaudi in Largo dei Fiorentini, 1 a Roma Salvatore Zecchini presenterà il suo libro “La Politica Italiana per l’Innovazione: criticità e confronti”. Discuteranno con l’autore, Giuseppe Pennisi e Antonio Marzano.

Il volume, edito dal Centro Studi ImpresaLavoro, parte dalla valutazione per cui  malgrado i numerosi sostegni introdotti, negli ultimi anni, dai Governi italiani per accrescere ricerca ed innovazione, il nostro Paese non è riuscito a ridurre il divario che lo separa dalle economie più innovative dell’Unione Europea. Al tempo stesso, l’attività di innovazione, particolarmente tra le piccole e medie imprese, non è riuscita a svolgere quella funzione di motore dello sviluppo economico che si auspicava sia negli anni della recessione economica, sia negli anni pre-crisi. Nasce da queste considerazioni lo spunto che ha spinto Salvatore Zecchini – già Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, Executive Director del Fondo Monetario Internazionale e Vice Segretario Generale dell’Ocse – a esaminare l’insieme degli interventi messi in atto dai Governi italiani, confrontandoli, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie disegnate ed attuate dai Paesi di maggior successo nella ricerca ed innovazione.

 

 

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E lo Stato non paga 61 miliardi

E lo Stato non paga 61 miliardi

di Leonardo Ventura – Il Tempo

«In questi ultimi 2 armi la Pubblica amministrazione non ha ridotto i tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro, lo scorso 31 dicembre (2015 ndr.) questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro». È il bilancio di quanto lo Stato deve ancora dare alle aziende che hanno lavorato per lui. Insomma, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo si vedono recapitare multe salate.

Nel 2014 il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 201 All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto. Il dato non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, ImpresaLavoro ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.

 

Le banche italiane viste da Washington

Le banche italiane viste da Washington

In settimane in cui il sistema bancario italiano è nell’occhio del ciclone  – un ciclone che ha al suo centro il Monte dei Paschi di Siena – pochi hanno notato un paper redatto congiuntamente da un economista della Banca mondiale (Andreas Jobst) e uno del Fondo monetario internazionale (Anke Weber) sul tema della ‘profittabilità’ delle banche italiane. E’ un documento molto utile per meglio comprendere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le crisi di alcuni istituti di credito italiani, specialmente quella del Monte dei Paschi di Siena, risolta temporaneamente con un massiccio intervento pubblico che ci auguriamo la riporterà entro pochi anni al mercato. Il lavoro si chiama “Profittabilità e riparazione dei conti economici delle banche italiane” (“Profitability and Balance Sheet Repair of Italian Banks”, IMF Working Paper No 16/175) ed è scaricabile gratuitamente dal sito del Fondo Monetario.

L’analisi prende l’avvio dalla constatazione che la ‘profittabilità’ delle banche italiane dipende in gran misura da tre determinanti: a) la robustezza della ripresa dell’economia reale; b) la politica monetaria e c) gli effetti e gli impatti di riforme del settore, segnatamente di quelle mirate a risolvere ostacoli strutturali alla soluzione del problema di crediti inesigibili e incagliati nonché a promuovere il consolidamento del settore. Un miglioramento della ‘profittabilità’ faciliterebbe il reperimento di capitali per migliorare la capitalizzazione e una necessaria operazione di ripulitura dei bilanci. Il documento esamina in termini quantitativi la capacità attuale e futura di realizzare utili. Un’analisi quantitativa delle 15 maggiori banche porta a concludere che in generale il sistema bancario italiano produce profitti solo leggermente inferiori alla media dell’eurozona. Ci sono però differente marcate e una forte eterogeneità nel settore. Numerose banche dovrebbero ampliare il loro margine se l’economia reale migliorasse. Tuttavia, anche in caso di favorevoli ipotesi di crescita dell’economia, numerose banche di piccole dimensioni continueranno ad avere problemi di ‘profittabilità’:  in tal caso è urgente una ripulitura dei loro bilanci, insieme a misure di riduzione dei costi e a un miglioramento della loro efficienza.

In altro lavoro del Fondo monetario Anke Weber, Emanuel A. Kop e José Garrido (IMF Working Paper No 16/135) indicano specificamente quali sono le misure le riforme legali e manageriali per raggiungere questi obiettivi.